> di Paolo Calabrò*
Di cosa è fatta la realtà?[1]
La realtà è fatta di relazioni[2] In quanto queste relazioni avvengono (si costituiscono, perdurano, si sciolgono) nel tempo, è possibile dire che la realtà è costituita da eventi. In questo senso ci si potrebbe anche spingere ad affermare che la realtà è una “creazione continua”[3]. Le cose non “sono” bensì, per così dire, “stanno essendo”.
Che cosa le relazioni, appunto, mettono in relazione?
Le cose. Non gli oggetti (che sono già le cose inquadrate nel mito[4] dell’oggettività) ma i simboli[5], le cose nella loro capacità di entrare in relazione con ogni altra cosa.
Queste “cose” o “simboli” esistono dunque in sé, pur avendo la possibilità di entrare in relazione?
Nulla esiste in sé. È esperienza diffusa e onnipresente che nulla si dia in sé, ma sempre insieme ad altro, in qualche relazione. Le relazioni preesistono ontologicamente alle cose: qualunque cosa nasca, per ciò stesso viene al mondo. Nulla nasce o esiste in vacuo. Le relazioni danno forma all’essere. Non c’è essere al di fuori delle relazioni[6].Tuttavia questi simboli, che esistono all’interno delle relazioni, non si può forse dire che esistano in sé (all’interno delle relazioni)? Le relazioni si stringono e si sciolgono, ma le cose rimangono. Questa permanenza non attesta forse l’esistenza di un nucleo “inossidabile”, per così dire, che non dipende da alcuna relazione?
Noi chiamiamo “essere” ciò che appare nel mondo, nell’epifania dell’“è”. Premesso che di fatto nulla è osservabile (o esperibile, o conoscibile) al di fuori di qualunque relazione[7], di diritto si può immaginare – con una astrazione mentale, che non rappresenta più la realtà, dunque, ma una fantasia – una cosa che esista da sola. Al riguardo, si usa spesso in filosofia della scienza l’esempio della particella elementare “sperduta in un angolo remoto dell’universo”. Ma ipotizzarla “sperduta” (nel senso di “distante quanto si vuole da qualsiasi altra cosa”) non equivale a pensarla come “isolata” (una particella estende il suo campo all’infinito, quindi il suo contatto con tutto il resto non cessa, pur aumentando a piacere la distanza). Ne consegue che non possiamo immaginare in alcun modo nessuna parte di questo universo – nemmeno la più piccola – realmente isolata da tutto il resto di ciò che esiste. A questo punto, non resterebbe che immaginare un universo costituito da una sola particella elementare: ebbene, si potrà convenire che dichiararla esistente o non esistente sia ormai questione di scarsa rilevanza (di diritto; di fatto, non ci sarebbe nessuno a poter emettere tale dichiarazione o ad intenderne il senso). E non perché non sia possibile decidere: ammesso che un tale universo possa effettivamente esistere (e non si sa con quale fisica: si tratterebbe, tanto per cominciare, di un posto in cui non esiste il principio di esclusione di Pauli)[8], qualunque cosa riuscissimo a dire attorno ad esso sarebbe inestensibile al nostro universo (dove, ad esempio, il principio di esclusione di Pauli esiste e regola i fenomeni atomici).
Però le cose del nostro mondo rimangono. Si può immaginare un uomo cui la vita sottragga ad una ad una tutte le relazioni (gli affetti, poi il lavoro, gli averi, ecc.) e che non di meno continui a vivere e ad essere quell’uomo.
Immaginare sì; osservare no: pur immaginando lo scomparire progressivo di ogni relazione, dovremmo fermare il nostro processo di spoliazione alla relazione tra quell’uomo e il suo corpo proprio (quand’anche si riuscisse a isolarlo dal mondo materiale tenendolo sospeso a mezz’aria in una sorta di camera antigravitazionale). L’uomo continuerebbe ad essere nella relazione con il suo corpo: privato di questa ultima relazione, ormai senza più un corpo, l’uomo non sarebbe più. Morirebbe.
Ma allora che cos’è che rende quell’uomo quell’uomo? Se sono le relazioni a costituire le cose, sembra quasi che due uomini diversi (o perfino opposti) potrebbero indifferentemente – sposando la stessa donna – dar luogo al medesimo matrimonio.
Evidentemente no. Per dirla con il linguaggio cristiano, ogni uomo è unico (idea espressa anche tramite il concetto di vocazione: ognuno ha la propria). Questo vale per qualsiasi cosa: perfino per quegli oggetti che la scienza ritiene identici (come, appunto, le particelle elementari).
Due particelle elementari (dalla stessa denominazione – ad esempio, due elettroni) non sarebbero dunque uguali, in tutto e per tutto?
No, come mostra la meccanica quantistica (di seguito MQ): in un esperimento con una lastra semiriflettente, il 50% delle particelle passa, il resto no. Eppure dovrebbero essere tutte uguali. Con ciò non si sta affermando che esse abbiano una libertà, una coscienza e una unicità paragonabili (o addirittura identiche) a quelle dell’uomo; tuttavia esse non sono nemmeno così interscambiabili e prevedibili come a volte potrebbe piacerci credere (a misura del crescere del nostro desiderio di oggettività). Questa è una conclusione della scienza fisica, prima che della filosofia.
Ne conseguirebbe che non può darsi alcuna ripetibilità, altro punto fermo della scienza fisica, neppure in linea di principio.
Nell’ambito di una approssimazione tollerabile, sì; in senso assoluto, certamente no[9]. Non esistono assoluti. La scienza fisica – con la sua innata passione per l’avanzamento inarrestabile della conoscenza – dovrebbe essere la prima ad affermarlo.
Parliamo ancora dell’unicità nelle relazioni.
È chiaro che il fuoco sulla mia pelle non dà luogo allo stesso effetto dell’acqua: il fuoco non è l’acqua. Ma nemmeno il fuoco è qualcosa di “bruciante in sé”: il fuoco brucia a contatto con la pelle (e con l’ossigeno). Il fuoco non ha in sé nessuna intrinseca facoltà di bruciare: esso brucia in relazione a certe cose (e a certe altre no: ad esempio, il fuoco non brucia l’amianto).
Però, prima di entrare in contatto con la pelle, il fuoco e l’acqua sono intrinsecamente diversi: altrimenti darebbero luogo allo stesso effetto.
Lo dicevamo prima: ogni cosa è unica.
E questo “poter-bruciare” in una futura relazione (poter-bruciare che il fuoco ha ma che l’acqua, ad esempio, non ha) non è forse un essere potenziale, che si può dire il fuoco custodisca in sé?
Essere è un verbo, non un sostantivo[10]. Non c’è potenza nell’essere, ma solo atto. Lo dicevamo all’inizio: non ci sono cose fuori dagli eventi.
Ma proviamo a considerare, a titolo di esperimento mentale, i simboli, questi “poli delle relazioni”, un attimo prima di entrare in relazione: il fuoco non è ancora fuoco (non brucia ancora nulla), ma non di meno non è acqua (esso deve dunque possedere in qualche modo una caratteristica intrinseca che lo differenzi dall’acqua).
Sia. Immaginiamo dunque una siffatta fiamma-potenziale in un mondo senza ossigeno. Come sarebbe? Come la vedremmo? A quali effetti darebbe luogo? In un tale mondo, potremmo ancora parlare del fuoco come di ciò che brucia? O ne dovremmo parlare in una maniera completamente diversa? Eppure, nell’esperimento mentale che andiamo conducendo, questo fuoco-potenziale è intrinsecamente lo stesso oggetto.
È proprio questo il punto: il fuoco è intrinsecamente la stessa cosa sia in questo mondo sia in quell’altro: è in relazione alle diverse situazioni che emerge in un modo o nell’altro.
Questo ragionamento non si rende conto del rovesciamento che esso stesso opera: è perché lo vediamo bruciare (in questo mondo, nella relazione, nell’evento di bruciare) che possiamo ipostatizzare questa qualità in una astrazione mentale (la “bruciantezza” in sé) che poi proiettiamo in un altro mondo (quello senza ossigeno), dove sosteniamo che il fuoco brucerebbe comunque, ma la mancanza di ossigeno glielo impedisce. Non il contrario. Questa è l’evidenza, l’osservazione, ciò da cui dovrebbe partire qualsivoglia osservazione della realtà. Conclusione: nulla esiste in sé. Sono le relazioni a permettere all’essere di essere tale.
Nel mondo senza ossigeno, forse non sapremmo come esprimerlo, né immagineremmo cosa potrebbe accadere a contatto con questo elemento che non conosciamo (l’ossigeno). Ma ciò non toglie che rimarrebbe ontologicamente la stessa cosa.
Ma l’ontologia è la scienza dell’essere, non del poter-essere. Un essere che non si manifesti non è essere (non è). Quando ad esempio Carlo Sini dice che “le teorie realiste di Maurizio Ferraris sono tutte cazzate”[11], si potrà magari commentare che solo lui poteva dirlo a quel modo (Carlo Sini è unico nel suo modo di esprimersi). Non di meno, Sini ha pronunciato quella frase in risposta alle teorie, appunto, di Ferraris, senza le quali probabilmente neanche si sarebbe sognato – lui, accademico dei Lincei – di dirlo proprio così. Com’è Carlo Sini in sé? In nessun modo, né nell’uno né nell’altro: Carlo Sini è (avviene) nella realtà, in relazione ad essa (e ovviamente a partire da ciò che lui, e lui solo, è).
Vorremo allora dire che, quando il cantante d’opera tocca l’apice del virtuosismo canoro, non sono le sue corde vocali (e la loro intrinseca proprietà di dar luogo a tali effetti) a permetterlo?
Le corde vocali dell’uomo, in sé, non sono nulla. Sono qualcosa in continua evoluzione (relazionale: nel tempo, nel mondo): erano nulla, hanno cominciato ad essere qualcosa di indistinto dopo il concepimento, si sono poi formate e istante per istante continuano ad evolvere, in parte maturando in parte viaggiando in direzione della degenerazione e della decrepitudine della vecchiaia.
Siamo dunque determinati in ogni aspetto dalla nostra genealogia? Il nostro destino è dunque scritto (ancorché sconosciuto) nella nostra costituzione materiale?
Non c’è nessuna determinazione né predestinazione: tutto ciò che appartiene alla realtà cosmoteandrica[12] è, per ciò stesso, libero (in quanto la libertà è, appunto, una delle tre dimensioni sostitutive della realtà – cosmoteandrica). Anche la materia è libera[13]. Non vi è nessun nucleo individuato, stabile e permanente cui potersi riferire come al “sé”: nulla esiste in sé. Se un tale nucleo esistesse, immodificabile imperituro, imperturbabile… ebbene, proprio a una tale “natura” sarebbe da imputarsi l’impossibilità di modificare il proprio destino e di deciderne liberamente. Siamo ciò che siamo, essendo partiti dalle relazioni che ci hanno costituiti così come siamo ora, nelle relazioni che ci costituiscono adesso, istante per istante. Con la libertà che ci permette di essere in certo modo “nuovi” ad ogni passo, senza che ciò significhi in alcun modo che siamo svincolati dal nostro contesto e indipendenti da esso (se no saremmo onnipotenti; cosa che, con ogni evidenza, non è).
Ma, insomma, tornando all’esempio precedente: se il fuoco brucia a contatto con la pelle, potremmo (e dovremmo) dire che ha in sé la facoltà di bruciare. Altrimenti non si spiegherebbe come mai invariabilmente (e non occasionalmente, né casualmente o arbitrariamente) la fiamma produca ustioni.
Parlare in questi termini – ipostatizzando cioè ciò che si vede a valle, nel fuoco, in un “a monte” noumenico – costituisce innanzitutto una inutile duplicazione: a che pro inserire in questa fiamma potenziale una facoltà latente che vediamo, in forma concreta e attuale, nei fenomeni? Questa astrazione va dunque in primo luogo assoggettata al rasoio di Occam. In secondo luogo, questi esseri-potenziali (o poter-esseri, dei quali ricordiamo trattarsi di astrazioni teoriche: non esistono nella realtà cose al di fuori da ogni relazione), che pure potrebbero essere tante cose, in realtà non sono nulla al di fuori di quelle relazioni che permettono loro di esprimersi (di attualizzarsi). Come di un uomo che avrebbe tante capacità (potrebbe essere ingegnere, filosofo, idraulico) ma non ne mette a frutto nessuna, finendo per non far nulla, diciamo (in maniera deprecabile, certo) che non è nessuno, parimenti di questi poter-esseri diciamo che non sono nulla.
Quindi è solo una questione di linguaggio: se scegliessimo un linguaggio che estende l’essere anche a questa sfera, potremmo dire che anche essi esistono.
Si può fare del linguaggio l’uso che si vuole, il punto è che senso abbia tutto ciò. Il mondo fenomenico è l’unico mondo che conosciamo, l’unico nel quale e sul quale possiamo dire qualcosa, l’unico in cui incontriamo le cose. Se proprio si volesse insistere sul punto, l’unica cosa che si potrebbe concludere è questa: le cose ci sono e sono in relazione (nel senso che non sono le relazioni a crearle). Che poi è proprio quello che abbiamo già detto in apertura. C’è la tendenza a tirare in ballo il linguaggio nel tentativo di accreditare l’esistenza di un mondo in sé. Si afferma ad esempio che è lo stesso linguaggio utilizzato a indicare l’esistenza del mondo in sé, quando si dice, come facevo prima, che ci sono delle cose “a monte” (noumeni) che provocano effetti “a valle” (fenomeni); ma ho già cercato di spiegare che in realtà i due momenti sono uno. Oppure, si dice che il problema sta appunto nel linguaggio: magari di queste cose non potremmo dire niente (epistemologia), ma dovremmo continuare a pensare che esistono (ontologia). Meccanismo che dimentica che il pensiero è a sua volta una forma di linguaggio (almeno nel senso che non può prescinderne; va da sé che a stretto rigore il pensiero e il linguaggio non sono né coincidenti né coestensivi). E finendo per dipingere così questo terreno oscuro come terreno dell’ineffabile, del silenzio; stile che fa pensare a certa mistica.
In che senso?
Nel senso che ricorda, appunto, quella mistica per la quale la Parola sgorga dal Silenzio (contrariamente alla tradizione parmenidea per la quale l’Essere non può nascere dal suo opposto, dal Non-Essere). Ovvero, quella mistica il cui obiettivo è cogliere la realtà autentica (e somma) delle cose indipendentemente da qualsiasi categoria mentale (è l’ambito in cui si parla a questo proposito di oltrepassamento del mentale). D’altro canto, una cosa è vera: ogni domanda posta su questo ambito “silenzioso” (poiché in questo ambito è impossibile porne) può ottenere risposta solo nella realtà delle relazioni, in cui le cose sono. La realtà in cui siamo è fatta così. Il resto è astrazione dell’intelletto. Curiosi che i filosofi cui piace maggiormente questo stile pretendano per se stessi il nome di “realisti”.
L’astrazione tuttavia nasce con un intento ben preciso nella storia del pensiero.
Senza dubbio, guai a disconoscerne l’utilità: il progresso delle scienze, ad esempio, è un caso lampante di successo ottenuto grazie all’astrazione delle cose dal loro contesto (e relativa ricontestualizzazione all’interno dell’esperimento, in cui le cose diventano oggetti). Ma pretendere alla fine del processo che le astrazioni così prodotte siano reali o addirittura che siano l’unica realtà vera (mentre il resto non è altro che opinione, mitologia o illusione) è un errore metodologico fondamentale di chi semplicemente ha dimenticato il proprio punto di partenza.
Su una cosa tuttavia vorremmo insistere: l’ontologia va tenuta ben distinta dall’epistemologia.
Certamente. È proprio a partire da questa distinzione (che non è una separazione: ontologia ed epistemologia rimangono legate) che appare come scelta ragionevole (e, si vorrebbe quasi dire, di buon gusto), tenersi ad una ontologia che sia prossima all’epistemologia: più ce ne si allontana, infatti, più si rischia di complicare le cose (che sono già abbastanza complicate, senza che ci si metta il filosofo a peggiorare la situazione).
Parliamo del rapporto fra la mente e la realtà.
La mente umana accede alla realtà tramite il mito, ne parlavamo nel primo capitolo. È questo il punto di partenza.
Ma il mito, così inteso, sembrerebbe sancire la fine di ogni speranza di un pensiero puro, trasparente, che possa giungere alla realtà più autentica delle cose.
Proprio così: il mito accompagna sempre la comprensione ed è impossibile liberarsene. In questo senso possiamo dire con una piccola boutade che il pensiero è impuro. Si può prendere consapevolezza del proprio mito, modificarlo, ampliarlo, finanche sostituirlo integralmente. Ma non si può fare a meno del mito in quanto tale[14]. Su questo punto convergono l’epistemologia[15], la fisica[16], la psicologia della Gestalt, la filosofia continentale[17] e quella analitica, la filosofia della scienza (non solo quella critica, come nel caso di Feyerabend)[18], la logica[19], la filosofia del linguaggio[20], il costruzionismo[21]. Praticamente tutti.
Ciò equivale a dire che non esistono fatti “puri”, svincolati da ogni interpretazione.
No, per lo stesso motivo per cui non esistono oggetti puri.
Maurizio Ferraris, nelle sue FAQ sul realismo[22], propone quello della valigetta rubata come esempio di un fatto puro, oggettivo, innegabile.
Diciamo subito che sull’innegabilità si può convenire: l’interpretazione non può spingersi fino a dire che Ferraris, di fatto, abbia le sue cose ancora con sé. Mentre già il parlare di “furto” presuppone una realtà sociale e giuridica ben precisa; così come il parlare di “valigia” presuppone una certa concezione di quella cosa. Dunque, per parlare del fatto avvenuto (che non si intende negare) non possiamo fare a meno di riferirci alle cose che sono in gioco e questo riferimento avviene nella realtà che – come dicevamo – non esiste senza le relazioni (relazioni che denominiamo “interpretazioni” quando uno dei due poli della relazione è la mente umana). Oggettivamente, non è accaduto nulla. Proprio perché, oggettivamente, quella valigia non è nulla. Non che la valigia non sia nulla, attenzione: non è nulla oggettivamente. È l’oggettività a non esistere, non la valigia. È infatti una valigia, per Ferraris; è una fonte (illecita, nella nostra società) di reddito, per il ladro; è un piano d’appoggio per chi stia scrivendo in treno (come me in questo momento).
Ma chiunque è in grado di capire, indipendentemente dall’uso che si pensi di farne, che si tratta di una valigetta.
Non chiunque: ad esempio, non qualcuno che non ne abbia mai vista una, che non abbia mai viaggiato o addirittura che non sappia cosa significhi viaggiare. Ma certamente lo capiamo noi che condividiamo una cultura nella quale è facile individuare in quella cosa un esemplare di ciò che si usa di solito per fare viaggi brevi: una valigetta. La nostra è una cultura, che reca una interpretazione: il fatto che noi la diamo per scontata non ci autorizza a dire che sia l’unica possibile né, tanto meno, a dire che non sia affatto un’interpretazione ma una visione diretta (oggettiva). Questo è il motivo per cui i tribunali (altro esempio caro a Ferraris) possono emettere sentenze anche in assenza di fatti puri: essi si basano sull’interpretazione della realtà che la società condivide in un dato momento storico.
Quindi quella valigia, oggettivamente, non è niente e potrebbe, realmente, essere tante cose. Ciò non toglie che essa abbia caratteristiche che la qualificano con evidenza in un certo modo: come il manico o la capacità di contenere oggetti.
Quando si dice “con evidenza” ci si riferisce a caratteristiche che si ritengono oggettive: la presenza del manico e della capacità di contenere farebbe pensare che quella cosa sia stata realizzata ai fini del trasporto di cose da parte di un essere dotato di mani. Ma ciò è soltanto una conseguenza del fatto che siamo abituati a vedere utilizzare oggetti simili (o a farlo in prima persona) in tal modo e a tale scopo. Allora la domanda è: è oggettivo questo modo di considerare la cosa o non si tratta piuttosto di qualcosa cui semplicemente ci siamo abituati e che per noi non è più problematica? Noi fabbrichiamo, in questa società umana che è la nostra, valigette con delle caratteristiche standard in vista di un certo utilizzo. Ma immaginiamo ora un’altra società umana che costruisca oggetti molto simili a un fine completamente diverso: una società, ad esempio, in cui per qualche motivo si ritenga importante camminare con un piano d’appoggio portatile, che sia dunque dotato di manico e, perché no, della facoltà di contenere fogli e penna per prendere appunti, ben poggiati, in qualsiasi luogo. A noi sembrano nient’altro che valigette utilizzate per consuetudine (o forse per stramberia) come piani d’appoggio. Ma loro, come ci vedrebbero? Forse come degli strambi che utilizzano quell’oggetto per trasportare di tutto (telefoni, giornali, vivande, indumenti), ma che poi trascurano di farne l’unico uso sensato: metterci dentro carta e penna da tirar fuori al momento opportuno.
Nessuna oggettività.
Non è cattiva volontà: è che proprio non riusciamo a trovarne. Facciamo un altro esempio. Una tovaglia di pizzo umbro viene trovata da un barbone, che la utilizza come coperta. Il barbone ignora che cosa sia il pizzo umbro, non sa per quale motivo sia stato fabbricato quell’oggetto (lo ha trovato per strada, non lo ha acquistato in una bottega con l’insegna “tovaglie”) e la cosa che ha tra le mani sembra perfettamente adatta allo scopo (almeno, non ha trovato niente di meglio; del resto, siamo prossimi all’estate). Domanda: cos’è veramente quella cosa? Il barbone non vi trova niente di intrinseco per poter stabilire che si tratti di una tovaglia. Dal punto di vista degli oggetti e dei fatti “puri”, nemmeno noi sapremmo cosa dire (a meno di fare il processo alle intenzioni del produttore: ciò che renderebbe però la cosa, una volta di più, “costruita socialmente”). Dal punto di vista dell’essere reale, cioè del barbone che se ne ammanta, quella cosa è una coperta, senza meno. Non avendo motivo per ritenere che il barbone ne stia facendo un uso improprio, non possiamo concludere diversamente. Vorrei fare un altro esempio. Nei nostri viaggi spaziali portiamo sempre con noi della musica registrata: perché? Probabilmente perché speriamo che, ove incontrassimo altri esseri viventi che non parlano come noi, potremmo metterci in contatto con loro tramite la musica. Cioè, speriamo che la nostra musica sia per loro comprensibile. Ma quello che sfugge a quest’impresa è che anche la musica, in sé, oggettivamente, non esiste: la musica, che non è affatto un fenomeno acustico, è una costruzione (ed in buona parte una anticipazione) del nostro cervello (umano)[23]. Siamo prigionieri – altro che del costruzionismo filosofico, contro cui Ferraris si scaglia – della fantascienza degli anni ’70 con i suoi “incontri ravvicinati”. Magari invece incontriamo degli umanoidi e apriamo la bocca nel tentativo di sorridere; al che loro, vedendo i nostri denti scoperti, lo prendono per un gesto aggressivo (come fanno ad esempio le scimmie) e ci sparano con i loro fucili laser. Non c’è via d’uscita dall’ermeneutica: è vero che l’interpretazione non crea la realtà, ma è altrettanto vero che non vi è realtà al di fuori dell’interpretazione[24].
Tornando all’esempio precedente di colui che non ha mai visto una valigetta né ha mai viaggiato in vita sua: afferrando una valigetta potrebbe pensarne quello che vuole, ma non di meno avrebbe tra le mani una ventiquattrore (con un manico, una certa capienza, ecc.).
Si può legittimamente dire così dal punto di vista che è tipicamente nostro (di noi che usiamo le valigette per viaggiare), della nostra società (che fabbrica valigette con il manico anziché con la tracolla), della nostra cultura (che ha consolidato nell’uso il termine e il concetto, al punto che ormai non ci sembra neanche più una cosa che abbiamo costruito – e rettificato – nel tempo, ma qualcosa di dato immediatamente). Tuttavia, resta il fatto che l’essere è nel tempo, non nell’attimo congelato[25] dell’epistemologia che astrae gli oggetti della sua indagine. (Forse al riguardo l’esempio della tovaglia-coperta è più chiaro). Come già detto, continuare a sostenere che quella sia oggettivamente una valigetta, significa dare per scontato il nostro contesto culturale, sociale, personale (che dunque continua a esistere, solo che per noi è trasparente; ma che non di meno continua a non essere l’unico al mondo, né tanto meno oggettivo – nessun contesto lo è). In particolare vuol dire dare per scontata la nostra visione scientifica delle cose come se veramente fosse oggettiva, visione nella quale le cose vengono ridotte (ché di riduzione si tratta: ogni prospettiva parzializza la visione del tutto, come ogni finestra permette la visione della realtà nello stesso momento in cui la limita alla propria cornice) alle proprie caratteristiche fisiche (peso, dimensioni, forma). Trascurando il fatto che la fisica non è l’unica visione del mondo, bensì una di esse[26].
Tuttavia la fisica è l’unica, appunto, visione oggettiva della realtà.
Non esistono visioni oggettive della realtà[27], perché non esiste una mente trasparente. La fisica è la visione del mondo il cui mito è quello dell’oggettività. Come dire: nella convinzione (accettata acriticamente: nessuna prospettiva può dimostrare i propri presupposti, può al più prenderne consapevolezza) che la realtà sia oggettiva, la fisica elabora metodi e strumenti per una analisi quantitativa della realtà (di quegli elementi che possono cioè venir misurati con un alto grado di intersoggettività) e con essi trova… che gli oggetti così misurati possiedono, appunto, aspetti oggettivi. Ma ciò dipende dal presupposto e dai metodi utilizzati, non da qualità intrinseche della realtà. Dunque l’oggettività è un presupposto, una convinzione, in un certo senso un pregiudizio (come, nello stesso senso, tutti i miti lo sono); non un dato d’esperienza.
Ferraris scrive[28]: «soprattutto, per quanto riguarda l’esperienza non scientifica, l’acqua bagna e il fuoco scotta sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, indipendentemente da linguaggi, schemi e categorie. A un certo punto c’è qualcosa che ci resiste. È quello che chiamiamo “inemendabilità”, il carattere saliente del reale».
Dell’acqua e del fuoco abbiamo già parlato. D’altra parte, che ci sia qualcosa che ci resiste, mostrandoci che non lo abbiamo fatto noi (né la nostra mente, né una costruzione sociale condivisa) è evidente[29] (è l’evidenza sulla quale ci poggiamo nel nostro vivere quotidiano: noi ci fidiamo della realtà – anche il più rigoroso degli scettici lo fa; tanto che il maggior critico dello scettico non è il dogmatico, ma l’ansioso, il quale mostra con il proprio comportamento cosa accade a chi davvero non si fida della realtà)[30]. Si può anche chiamarlo con un termine specifico (“inemendabilità”), ma certamente non con le conseguenze che Ferraris vorrebbe trarne: infatti tale concetto non certifica affatto gli oggetti della scienza naturale come immediatamante dati. La scienza è una mediazione come tutte le altre, con i suoi pregi e i suoi difetti peculiari (e della quale non si negano né i grandi successi né i funesti esiti). La scienza è un mito.
Eppure, continua Ferraris, «che l’acqua sia H2O è del tutto indipendente da ogni mia conoscenza, tant’è che l’acqua era H2O anche prima della nascita della chimica e lo sarebbe se tutti noi scomparissimo dalla faccia della terra».
Certo che no[31]. La pretesa di estendere retroattivamente la conoscenza scientifica al tempo passato è un tipico caso di retrocessione indebita del testimone[32] in cui si pensa che, poiché crediamo che l’osservazione scientifica ci dica oggi com’è fatta veramente la realtà – allora tale osservazione avrebbe potuto essere fatta anche 500, 1000, un milione di anni prima della nascita della scienza. Il che è chiaramente falso, per tanti motivi. Innanzitutto perché la scienza contemporanea eredita la sua terminologia, le sue categorie, i suoi concetti e modelli dalla cultura che l’ha prodotta (da cui attinge, pur con tante trasformazioni, ancora adesso). La visione del mondo della fisica di oggi è figlia – non madre, come pretenderebbe il testimone retrocesso – della cultura europea del Rinascimento e di tutta quella che le è seguita. In secondo luogo perché la scienza continua ad evolversi e le rappresentazioni, i paradigmi e tutto ciò che si ritiene valido oggi – anche quando appaia consolidato – potrebbe non esserlo domani: è la croce e la delizia della ricerca scientifica, ciò che le permette di avanzare. Dunque domani potremmo non star parlando più dell’acqua come di H e O combinati in proporzione 2 a 1, ma di tutt’altro[33]. In terzo luogo perché la scienza progredisce, si diceva, ma non è progressiva, come a torto spesso si crede: essa procede sovente tramite la rottura dei paradigmi tradizionali[34], rotture delle quali abbiamo due celeberrimi esempi proprio nel secolo scorso: la relatività generale rispetto alla meccanica newtoniana e la MQ rispetto ai paradigmi classici di località, sostanzialità ecc.
In certi casi si tratta tuttavia di falsi allarmi, spesso eclatanti, come nel recente caso del “neutrino più veloce della luce”, con tutto il polverone che l’ha accompagnato.
In quel caso l’esperimento si è poi rivelato falsato, ma il punto in questione è che tutto il mondo scientifico (e non solo) era già perfettamente preparato ad un nuovo gigantesco cambiamento di paradigma: proprio perché lo si riteneva possibile – è nello statuto stesso della scienza – ed auspicabile – in quanto foriero di progresso scientifico. Che senso ha dunque dire che gli enti fisici che conosciamo oggi sono sempre esistiti? Non ha nessun senso, proprio in quanto non è possibile dire che esisteranno per sempre. Non ha senso nella misura in cui non si tratta che di rappresentazioni metafisiche al pari di tutte le altre[35] (anche quando vi sovrabbonda la matematica, con il suo caratteristico sapore di ineluttabilità)[36], che potrebbero venir sostituite da un momento all’altro.
Che ha a che fare la metafisica con la scienza? L’obiettivo della scienza non dovrebbe essere proprio quello di riuscire infine a fare a meno di qualunque metafisica?
Intanto, c’è chi è convinto, al contrario, che ogni libro di fisica inizi con un trattato di filosofia[37]. Ora, di diritto, l’ineliminabilità del mito (cioè il presupposto di ogni relazione della mente umana con la realtà – e dunque il presupposto di ogni scienza) rende questa pretesa impossibile[38]. Di fatto, la scienza moderna, come dicevamo, eredita tantissimo dalla cultura che l’ha vista nascere[39]. Si pensi ad esempio al principio di inerzia: “un corpo in moto rettilineo uniforme, in assenza di qualunque forza agente su di esso, prosegue nel suo movimento all’infinito”. È forse possibile formularlo facendo a meno di qualunque metafisica[40], rinunciando cioè all’idea di uno spazio e di un tempo infiniti nell’ambito dei quali condurre l’osservazione che lo convalidi? Sono forse queste nozioni traducibili in una forma di pensiero (magari matematica) “asettica”, oggettiva[41]? A causa della sua stessa struttura, il principio d’inerzia (ma non si tratta che di un esempio, estensibile a molti altri casi) richiede necessariamente l’idea di uno spazio infinito (e di un tempo altrettanto infinito): che è tutt’altro che oggettiva, non potendo esser verificata in nessun caso. Questa è metafisica[42].
Cosa dire allora dell’affermazione di Ferraris (p. 62) per la quale «l’essere è indipendente dal sapere»?
Diremo che si tratta di un’astrazione mentale prodotta proprio da quel pensiero che tramite essa si vorrebbe ridimensionare. Essere e Pensiero – che ovviamente non coincidono[43] – sono legati a doppio filo: certamente distinguibili, ma non separabili. Di conseguenza, anche l’ontologia non coincide con l’epistemologia (come abbiamo già detto). Detto questo, appare come una evidente negazione del proposito (di tenere distinte le due sfere) quella di riempire lo spazio dell’ontologia con enti epistemologicamente inconsistenti (come la cosa in sé) inserendo cioè materiale del pensiero nel luogo dell’essere (operazione ineliminabile, abbiamo detto; ma perniciosa quando si spinga al di là dello stretto necessario). L’ontologia dovrebbe accompagnare l’epistemologia, non ignorarla o addirittura negarla: è vero che l’ontologia non è suscettibile di confutazione[44], tuttavia essa è suscettibile di critica, e tanto più un’ontologia è criticabile – a mio avviso – quanto più prende le distanze dall’epistemologia, cioè dalla riflessione filosofica sull’esperienza effettivamente a disposizione.
Che dire infine dell’affermazione di Ferraris secondo la quale «gli oggetti naturali sono indipendenti della epistemologia e rendono vere le scienze naturali» (p. 85)[45]?
È lo specchio che rivela la contraddizione nella quale si avvolge questo tipo di realismo. Il quale, da un lato, vorrebbe rimarcare l’indipendenza dell’essere dal sapere; dall’altro, li cortocircuita nell’atto di schiacciare l’epistemologia scientifica sull’ontologia di una natura trasparente e immediatamente data. È questo tipo di realismo a identificare l’ontologia con l’epistemologia quando non prende consapevolezza del proprio mito (nell’errata convinzione di star facendo a meno di qualunque mito). Essere e sapere vengono così a coincidere nella descrizione di una scienza che si presuppone trasparente (ma che non lo è) e assoluta (ma che è relativa – in relazione – alle cose secondo la propria prospettiva). Detto ciò, per rispondere in maniera diretta alla domanda, quella affermazione mi sembra più che altro una genuflessione non tanto alla scienza (che non ne ha bisogno, perché il suo mito le è già trasparente, non problematico), quanto a quei sistemi di sapere e di potere che traggono giovamento dal possesso esclusivo di una certa verità “spendibile” politicamente, economicamente, militarmente.
In che senso?
Nel senso che a mio avviso non è vero, come sostiene Ferraris, che il potere tragga vantaggio da un pensiero filosofico che propogandi la fine della verità oggettiva, rimpiazzabile prontamente con la verità del più forte: è chiaro che il potere approfitta anche di questo (perché il potere approfitta di qualunque cosa), ma di fatto il potere trae vantaggio in misura grandemente maggiore da quelle verità che si pretendono e si proclamano incontrovertibili e che per ciò stesso sono facilmente universalizzabili (si legga “esportabili”: sistemi economici, democrazie, ecc.), nello stile dei più antichi colonialismi ed imperialismi. Come mostra l’esperienza di tutti i giorni, la legge del più forte fa ben poco uso del relativismo, trovandosi più a suo agio nel maneggiare quei pensieri unici che – guarda caso – sono sempre i pensieri del più forte (cioè dei potentati economici e militari). L’esempio prototipico di quando stiamo affermando è la politica estera degli Stati Uniti, che impone la propria legge (militare, politica, economica) non in virtù della relatività (e dunque della sostanziale parità) delle opinioni, ma al contrario in virtù dell’esistenza di una verità superiore (e unica) di riferimento: la sua. E, ribadiamolo: non perché quella sia la legge del più forte (in tal caso non ci sarebbe bisogno di alcuna giustificazione per il suo esercizio), ma perché quella è la legge “migliore” (ecco perché la gigantesca macchina mediatica è continuamente all’opera per persuadere della bontà di questo o quel convincimento). È la politica della Roma classica, i cui conquistatori propongono sempre una pax: essi non si accontentano di asservire i vinti, pretendono che questi arrivino a pensare che in ciò consista la loro sorte migliore (a differenza dei barbari, che – meno ipocritamente – non avevano simili velleità).
Parla della verità (oggettiva) come di un mezzo del potere.
È l’esperienza storica di sempre che la convinzione di possedere la verità, molto più che lo scetticismo o il relativismo, sfoci nell’imposizione violenta: non è una questione del solo fanatismo, né un fenomeno solo religioso. Infatti, una volta posseduta la verità, non è forse un gesto d’amore verso il prossimo far di tutto per trarlo via dall’errore (se necessario – e beninteso sempre per il suo bene – anche con la forza)? Che poi non è dissimile dallo slancio che Ferraris (ma forse si potrebbe dirlo di ogni realista) mostra nell’affermare: «credo che chi parla della verità oggettiva […] sia servo non del potere […] ma della verità e della umanità […] ossia assolva la funzione più vicina al “servizio divino” che sia concepibile in una visione laica»[46]. Una volta che un tale sacerdote laico abbia creduto di raggiungere il possesso della verità, fin dove potrà arrivare la sua missione? Potrà avere davvero dei limiti?
Come leggere, per contro, il Ferraris che dice: «quelli che secondo me non fanno il proprio mestiere sono i filosofi che invitano a dire addio alla verità, o gli epistemologi che sostengono che le teorie scientifiche sono delle specie delle “visioni del mondo” senza una particolare pretesa di verità»?[47]
Fortunatamente non siamo fra quelli: crediamo infatti proprio che le scienze ce l’abbiano eccome una pretesa di verità particolare, cioè relativa alla loro prospettiva, al loro mito (e ogni scienza ha il proprio: ricordiamo che esistono le scienze, ma non la scienza)[48]. Proprio perché le scienze sono, al pari delle altre (ma non di meno con le loro caratteristiche peculiari) delle visioni del mondo. C’è forse bisogno di ripeterlo? Ogni prospettiva è limitata, per definizione (l’espressione “prospettiva assoluta” è una contraddizione in termini). Non vi sono eccezioni. La scienza che rivendichi per sé questa esclusività è come il rabbino che dice di parlare tutte le sere con Dio. E la filosofia che la difenda è come quell’uomo – di buon cuore, ma sciocco – che all’obiezione dell’amico scettico circa la sincerità del rabbino che parla per sé in quei termini, ribatte: “come potrebbe star mentendo un uomo che tutte le sere parla con Dio!”[49].
Ferraris dice che l’opzione per il realismo è una scelta morale[50], concludendo che chi abbandona la verità oggettiva non fa altro che lasciare «il monopolio della verità e della realtà ad altre agenzie»[51].
Monopolio che invece il realista intende tenersi ben stretto. Un atteggiamento ancora una volta da colonialista, da dominatore, che – nell’epoca globale in cui il pensiero altro dal nostro lo si incontra sotto casa, in fila allo sportello, alla fermata dell’autobus – lascia un retrogusto di qualcosa d’altri tempi[52].
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NOTE:
[1] Per comodità di espressione ho immaginato qui un dialogo fra due filosofi: un sostenitore dell’ontologia realista (nel solco del cosiddetto “nuovo realismo”, movimento che in Italia fa oggi capo principalmente a Maurizio Ferraris) e un sostenitore dell’ontologia relazionale (inquadrata nella cornice metafisica di Raimon Panikkar). Per una autopresentazione del “nuovo realismo”, cfr. De Caro e Ferraris 2012; Ferraris 2011 e 2012. Per una versione del realismo ontologico particolarmente vicina alla filosofia di Panikkar (vicinanza che qui non è possibile indagare e che ci si riserva di approfondire altrove), cfr. Gabriel 2012.
[2] Nella realtà, ogni cosa è legata ad ogni altra: non esistono oggetti ma simboli, i poli delle relazioni. Così Panikkar: «è questa relatività radicale che sta sullo sfondo della coscienza cosmoteandrica: non possiamo chiudere la comunicazione fra le sfere del reale. Inoltre, questa comunicazione non può essere solo un legame morale o una vaga conoscenza del fatto che le cose sono in relazione. In termini aristotelici, le relazioni devono essere reali al pari degli elementi che pongono in relazione. In altre parole, lo status ontologico della coscienza che unisce le diverse sfere dell’esistenza deve avere almeno la stessa consistenza delle sfere che unisce. In tal modo l’universo o è costituito di relazioni così forti (e così reali) come le cose relazionate, o queste si dissolvono in un universo caotico, disgregato e solipsista. E c’è ancora di più, come dice l’advaita: le relazioni sono la vera realtà; i poli sono in quanto sono poli della realtà: un polo solo non esiste; è una astrazione» (Panikkar 2004, 90). Non è dunque eccessivo, in questa prospettiva, affermare che siano le relazioni i costituenti primi della realtà; le quali, in seconda battuta (ma ben vedere i due momenti sono uno, come vedremo meglio in seguito), permettono alle cose di essere “al loro interno”.
[3] Questione che ho già affrontato in Calabrò 2012, qui ripresa e approfondita.
[4] Nel senso utilizzato da Raimon Panikkar, cioè di quel sostrato indispensabile al pensiero per evitare il regresso all’infinito nell’ambito della ricerca dei fondamenti di ogni cosa: «il mito che si vive comprende l’insieme dei contesti che si danno per scontati. Il mito ci dà il punto di riferimento che ci orienta nella realtà; […] è sempre l’orizzonte accettato entro cui si situa la nostra esperienza della verità. Io sono immerso nel mio mito così come altri lo sono nel loro. Non ho coscienza critica del mio mito, così come gli altri non sono consapevoli del loro. È sempre l’altro che, alle mie orecchie, parla con un certo accento. È sempre l’altro che io sorprendo a parlare muovendo da preconcetti infondati» (Panikkar 2000, 34-35).
[5] «Il simbolo non è né un’entità puramente oggettiva presente nel mondo (quella cosa “laggiù”), né un’entità meramente soggettiva presente nella mente (in noi “quaggiù”). Non vi è simbolo che non sia dentro e per un soggetto, così come non vi è simbolo che sia privo di un contenuto specifico rivendicante oggettività. Il simbolo abbraccia e lega costitutivamente i due poli del reale: l’oggetto e il soggetto»: Panikkar 2000, 23.
[6] Cfr. ad es. Bachelard 2006, 54-55: «nel mondo sconosciuto che è l’atomo, vi sarebbe dunque una sorta di fusione tra l’atto e l’essere, tra l’onda e il corpuscolo? Bisogna parlare di aspetti complementari, o di realtà complementari? […] Poiché questi fenomeni ambigui non designano mai le nostre cose, diventa un problema di grande portata filosofica chiedersi se in generale designino delle cose. Da cui un rovesciamento totale dei principi realisti della sintassi dell’infinitamente piccolo. […] Non è dunque più la cosa che potrà istruirci direttamente, come voleva la fede empirica. Non si accrescerà la conoscenza di un oggetto ultramicroscopico isolandolo. […] La sostanza dell’infinitamente piccolo è contemporanea alla relazione».
[7] In particolare, si utilizza in inglese il termine “theory-laden” per esprimere il fatto che non esiste osservazione che prescinda da qualsiasi teoria. Così ad esempio, sul fronte della filosofia della scienza, P.K. Feyerabend (commentato in Cenedese s.d.): «non esiste una qualche base osservativa neutrale che funga da pietra di paragone tra sistemi cosmologici in competizione tra loro e che renda possibile la scelta tra paradigmi diversi, i cosiddetti ‘dati osservativi’ sono, in realtà, teorici, sono essi stessi delle interpretazioni» e Kuhn: “la percezione è carica di teoria” (T. Kuhn, citato in Dorato 2007, 186). Dal versante della fisica fondazionale, si legge del resto che «Einstein diceva che è la teoria a decidere ciò che è “osservabile”. Penso che avesse ragione – l’“osservazione” è una faccenda complicata e condizionata dalla teoria»: Bell 2010, 289. Il termine “theory-laden” risale a Hanson 1978 (citato in Polanyi 2007, 34).
[8] Nessuna delle descrizioni della fisica può aspirare all’onnicomprensività, né tanto meno alla validità “universale” (cioè in qualunque luogo, in qualunque tempo, indipendentemente dalle circostanze). Cfr. al riguardo l’opinione di Margenau, per il quale se ci si fosse limitati a studiare, per quanto esaustivamente, il comportamento delle particelle singole, il principio di esclusione di Pauli non avrebbe mai potuto essere previsto; anzi «dal punto di vista del problema del corpo singolo il principio non ha significato»: Margenau 1987, 26.
[9] Lo spiega molto bene Ekeland 2010, 25-26: «due posizioni iniziali identiche riprodurranno la stessa traiettoria: si tratta del principio fondamentale del determinismo. Il guaio è che è impossibile riportare un sistema fisico esattamente nella stessa posizione; ci sarà sempre una differenza, anche se solo delle dimensioni di un atomo. Già cinque secoli prima della nostra era Eraclito aveva osservato che non si può attraversare due volte lo stesso fiume. […] Si ottengono così fenomeni macroscopici che verranno attribuiti al caso poiché le loro origini si basano su differenze impercettibili». Negli stessi termini, ma nel diverso ambito della filosofia della musica, lo spiega Ball 2011: «la musica è straordinariamente ripetitiva. […] Può suonare noioso? Leonard Meyer, tuttavia, afferma che la ripetizione in musica “non esiste mai psicologicamente”, che non udiamo mai due volte la stessa cosa. Ad esempio, è chiaramente un’esperienza diversa udire un tema per la prima volta e sentirlo poi ripetersi successivamente». Il che, unito alle sue ulteriori riflessioni circa il fatto che la musica non sia un mero fenomeno acustico bensì un fenomeno squisitamente umano in cui l’attività cerebrale è preponderante rispetto al materiale sonoro, dà luogo alla conclusione che la musica non è mai ripetibile tout court. Non sorprende: anche la musica, come tutto l’essere, è un’azione (“essere è un verbo”, dicevamo prima); la partitura non è la musica, la musica esiste solo nell’esecuzione e nell’ascolto.
[10] Cfr. Panikkar 1992, 183, dove l’autore afferma che, per il buddhismo, essere è un verbo e non un sostantivo. Che questa sia anche la sua personale posizione filosofica, è riscontrabile in Panikkar 1998, 86. Cfr. inoltre Panikkar 2005, 172.
[11] Riportata in Ferraris 2011.
[12] In estrema sintesi, la visione cosmoteandrica di Raimon Panikkar può essere così riassunta: la realtà presenta tre dimensioni, che non sono parti rimovibili senza pregiudizio per le rimanenti, e che sono il divino, l’umano e il terrestre; nessuna di esse esaurisce il Tutto, e al contempo nessuna di esse può venir separata dalle altre due senza che tutto precipiti nel nulla. Panikkar utilizza il mandala (disegno, di forme diverse, tipico dell’induismo e del buddhismo, utilizzato per rappresentare simbolicamente il cosmo) del cerchio per semplificare la visualizzazione di questa intuizione. Non vi è cerchio senza centro e circonferenza. I tre non sono la stessa cosa (sono dunque distinguibili), eppure sono inseparabili. La circonferenza non è il centro, ma senza il centro non esisterebbe la circonferenza. Il cerchio, in se stesso invisibile, non è né il punto centrale né la circonferenza, eppure è circoscritto dall’una e comprende l’altro. Il centro non dipende dal cerchio o dalla circonferenza, perché è un punto senza dimensioni, eppure non sarebbe il centro – non sarebbe proprio nulla in questo contesto – senza gli altri due. Il cerchio, visibile soltanto dalla circonferenza, è materia, energia, è il mondo. E questo avviene in quanto la circonferenza, l’uomo, la coscienza lo comprendono. Entrambi sono quello che sono perché vi è un Dio, un centro, che da solo, cioè in quanto Dio, è, come amavano dire gli antichi, una sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è in nessun luogo (Anonimo 1996, 28. L’esempio del mandala è tratto da Panikkar 1993, 60-61). La visione cosmoteandrica, tramite la quale Panikkar cerca di svincolare la realtà tanto dai monismi quanto dai dualismi, è il caposaldo dell’intera sua filosofia; oltre ad aver trattato la nozione in quasi tutti i suoi libri, l’ha esaminata approfonditamente in Panikkar 2004.In estrema sintesi, la visione cosmoteandrica di Raimon Panikkar può essere così riassunta: la realtà presenta tre dimensioni, che non sono parti rimovibili senza pregiudizio per le rimanenti, e che sono il divino, l’umano e il terrestre; nessuna di esse esaurisce il Tutto, e al contempo nessuna di esse può venir separata dalle altre due senza che tutto precipiti nel nulla. Panikkar utilizza il mandala (disegno, di forme diverse, tipico dell’induismo e del buddhismo, utilizzato per rappresentare simbolicamente il cosmo) del cerchio per semplificare la visualizzazione di questa intuizione. Non vi è cerchio senza centro e circonferenza. I tre non sono la stessa cosa (sono dunque distinguibili), eppure sono inseparabili. La circonferenza non è il centro, ma senza il centro non esisterebbe la circonferenza. Il cerchio, in se stesso invisibile, non è né il punto centrale né la circonferenza, eppure è circoscritto dall’una e comprende l’altro. Il centro non dipende dal cerchio o dalla circonferenza, perché è un punto senza dimensioni, eppure non sarebbe il centro – non sarebbe proprio nulla in questo contesto – senza gli altri due. Il cerchio, visibile soltanto dalla circonferenza, è materia, energia, è il mondo. E questo avviene in quanto la circonferenza, l’uomo, la coscienza lo comprendono. Entrambi sono quello che sono perché vi è un Dio, un centro, che da solo, cioè in quanto Dio, è, come amavano dire gli antichi, una sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è in nessun luogo (Anonimo 1996, 28. L’esempio del mandala è tratto da Panikkar 1993, 60-61). La visione cosmoteandrica, tramite la quale Panikkar cerca di svincolare la realtà tanto dai monismi quanto dai dualismi, è il caposaldo dell’intera sua filosofia; oltre ad aver trattato la nozione in quasi tutti i suoi libri, l’ha esaminata approfonditamente in Panikkar 2004.
[13] Ho approfondito questo tema nel capitolo sulla libertà della materia in Calabrò 2011, 110-111.
[14] Panikkar 2000, 337.
[15] «Se si riscontrano delle differenze tra quanto viene stabilito vero o falso nelle varie situazioni culturali, linguistiche, sociali e/o storiche, esse devono venire accuratamente preservate, poiché non si dà alcuna situazione “superiore” che possieda un accesso privilegiato alla verità (in altre parole, non esiste quello che è stato variamente definito come lo “sguardo da nessun luogo”, la prospettiva “dell’Occhio di Dio” o la “concezione assoluta del mondo”, rispettivamente da Thomas Nagel, Hilary Putnam e Bernard Williams)»: Amoretti e Vassallo 2010, 26-27.
[16] «Per poter funzionare, la scienza necessita di una cornice di riferimento, di un’impalcatura di principi e di leggi. Non può spiegare tutto, perché ha bisogno di partire da qualcosa che va dato per scontato, come premessa. Un esempio di punto di partenza sono gli assiomi dei teoremi matematici – asserzioni non dimostrate che vengono accettate come ovvie e perciò si presumono vere – oppure, nelle teorie della fisica, alcune leggi della Natura, come la conservazione dell’energia e della carica elettrica, la cui validità è spesso estesa ben oltre l’ambito entro cui possono essere verificate sperimentalmente»: Gleiser 2011, 23. Cfr. Bohr 1979, 146, a proposito della meccanica quantistica: «la lezione che ne abbiamo ricevuto sembra averci fatto compiere un passo decisivo in avanti, nella lotta incessante per l’armonia fra contenuto e forma, e averci insegnato una volta di più che nessun contenuto si può afferrare senza uno schema formale, e che qualsiasi forma, per quanto utile si sia dimostrata in passato, può rivelarsi troppo ristretta per comprendere nuove esperienze». Cfr. inoltre Planck 1993, 249-253: «non ci sono grandezze fisiche immediatamente misurabili. Al contrario, ogni misura non acquista senso che attraverso l’interpretazione datale dalla teoria. […] Non si creda infatti di poter giudicare il significato fisico di una questione senza servirsi di una teoria. Succede anzi abbastanza spesso che un certo problema abbia un senso fisico secondo una teoria e non lo abbia secondo un’altra». Sulla stessa lunghezza d’onda Max Born (citato in Gembillo 1987, 4): «dobbiamo accettare il fatto che anche nella fisica, come in tutte le altre attività umane, le convinzioni fondamentali vengono prima del ragionamento», nonché Werner Heisenberg (ivi citato, 9): «ogni lavoro scientifico si sviluppa infatti, consciamente o inconsciamente, a partire da un’impostazione filosofica, da una determinata struttura mentale, che fornisce al pensiero un fondamento stabile. Senza una simile impostazione, difficilmente i concetti e i nessi concettuali potrebbero conseguire quel grado di chiarezza e di univocità che è il presupposto di ogni lavoro scientifico».
[17] Così ad es. Sini 2000, 219: «in effetti, se ci rifletti lettore, non vi è legittimità logica nel pensare che, per il fatto che qualcosa accade, è accaduto, continua ad accadere, sempre accadrà, ciò ci autorizzi a identificare quello che accade con l’area dei significati che noi, nei nostri caratteristici e caratterizzanti intrecci di pratiche, ora incarniamo e siamo e frequentiamo, e quindi, per esempio, con le ipotesi “realistiche” del nostro senso comune o con la mentalità “obiettivistica” dei nostri scienziati». Il mito è trasparente a chi lo vive: «il senso comune è così il motore oscuro delle figure della storia e del sapere ed è null’altro che il movimento continuo del “lavoro”, nel suo verum-factum (Marx ne intese ben qualcosa). Chiedere di “vedere” o di “mostrare” questo movimento è un puro non senso: si vede dalla prospettiva, non si vede la prospettiva (se non da un’altra prospettiva)»: Sini 2008, 51.
[18] Cfr. ad es. Dorato 2007, 62: «qualunque richiesta di spiegazione parte sempre da un insieme di credenze di sfondo – che si considerano come non problematiche, o ben comprese – alle quali la spiegazione riconduce il fatto da spiegare».
[19] «La catena delle dimostrazioni e deduzioni non può risalire all’infinito: bisogna partire da qualcosa di non dimostrato, o non dimostreremo mai nulla»: Berto 2008, 16.
[20] «È segno di impreparazione il non saper riconoscere di quali cose si debba cercare dimostrazione e di quali no; difatti, è senz’altro impossibile che si dia dimostrazione di tutte quante le cose (in tal caso, infatti, si andrebbe all’infinito e, quindi, neppure così si produrrebbe dimostrazione» (Ludwig Wittgenstein, citato in Berto 2008, 205).
[21] «Nella costruzione di un sistema non si comincia mai da zero. È inevitabile partire da alcune concezioni degli elementi presenti nel dominio e da convinzioni su di essi che ne avviano la costruzione»: Goodman 2011, 20. Ed anche: «non si può avere un’idea del movimento (né di nessun’altra cosa) se non relativamente a una cornice di riferimento» (ivi, 56).
[22] Citate in una nota precedente.
[23] Cfr. al riguardo l’ottimo studio di Ball 2011.
[24] Ciò vale, detto in questi termini, per l’uomo così come lo intendiamo oggi. In generale (ed anche in riferimento agli esseri non umani) diremo più correttamente che non si dà realtà al di fuori delle relazioni (di cui le interpretazioni sono un caso particolare inerente alla mente), come specificato in un passaggio precedente.
[25] L’espressione è di Burroughs 1993.
[26] Questione che ho approfondito in Calabrò 2011, 74-97.
[27] «È peraltro assai facile provare che il pensiero scientifico è essenzialmente un pensiero in corso di assimilazione, un pensiero che tenta delle trascendenze, che assume la realtà prima di conoscerla e che la conosce solo come una realizzazione della propria supposizione»: Bachelard 2006, 104.
[28] Ferraris 2012, 30.
[29] Panikkar ha parlato del “potere corrosivo” del pensiero: cfr. Panikkar s.d., 69, nonché Panikkar 1990, 114. Cfr. inoltre Margenau 1979, 154, per il quale «c’è qualcosa di ineffabile nel reale, che a volte ci viene descritto come qualcosa di misterioso, e che suscita timore e reverenza».
[30] Cfr. Bellet 2000, 72.
[31] Quella della scomparsa dell’umanità dalla faccia della terra rimane una questione molto interessante: vi ho accennato in Calabrò 2012.
[32] Cfr. al riguardo l’esauriente analisi di Sini 2000, 215 ss.
[33] La scienza non deduce le sue teorie dall’esperienza, ma le costruisce: cfr. l’opinione di Einstein al riguardo, per il quale «anche studiosi dallo spirito audace e dall’intuito sottile possono essere ostacolati da pregiudizi filosofici nell’interpretazione dei fatti. Il pregiudizio, che a tutt’oggi non è affatto sparito, consiste nella convinzione che i fatti possano e debbano tradursi in conoscenza scientifica di per sé, senza libera costruzione concettuale. Un tale errore è possibile solo perché è difficile rendersi conto dell’arbitrarietà di tali concetti, che, attraverso la verifica e il lungo uso, sembrano invece essere collegati con il materiale empirico» (citato in Laudisa 2009, 39). Cfr. altresì il parere di Werner Heisenberg, che chiamava “pitture verbali” le affermazioni formulate matematicamente dalla fisica, «con le quali cerchiamo di rendere comprensibili a noi e agli altri le nostre esperienze sulla natura» (Heisenberg 1978, 65).
[34] Posizione solitamente ascritta al celeberrimo Kuhn 2009.
[35] «La vera difficoltà sta nel fatto che la fisica è un tipo di metafisica; la fisica descrive “la realtà”. Ma noi non sappiamo cosa sia “la realtà” se non attraverso la descrizione fisica che ne diamo»: così Einstein in una sua lettera a Schrondinger (citato in Allori-Dorato-Laudisa-Zanghì 2006, 13).
[36] Per quanto inoltrepassabile possa sembrare la soglia della matematica, la novità, la libertà e il ripensamento hanno sempre l’ultima parola: si legga il gustoso aneddoto di Hawking 2004, in cui l’autore racconta come – dopo aver costretto i riluttanti colleghi ad accettare la sua teoria tramite l’“inoppugnabile” dimostrazione del suo teorema – cambia idea e prova a convincere gli stessi della teoria opposta.
[37] Così Koyré 2003, 38: «non si tratta di preferenze soggettive o di abitudini di pensiero, sono filosofie quelle che si oppongono, e questo spiega perché, oggi come all’epoca di Descartes, un libro di fisica inizia con un trattato di filosofia». Cfr. al riguardo Panikkar 2005, 109: «è altresì significativo osservare come buona parte dei grandi fisici non resistano alla tentazione di scrivere il loro libro di filosofia».
[38] «Non si possono accogliere gli strumenti della fisica moderna senza dover presto o tardi accettare anche la mentalità filosofica che ne è il presupposto»: Gembillo 1987, 11.
[39] «È inevitabile utilizzare un linguaggio che deriva dalla filosofia tradizionale. Ci si chiede: “Di che cosa consiste il protone? L’elettrone si può suddividere o no? Il quanto di luce è semplice o composto?” E così via» (così Heisenberg citato in Gembillo 1987, 41).
[40] «Ammettiamo dunque con Burtt che le considerazioni filosofiche non sono che delle impalcature… Ora, come raramente si vedono costruire delle case senza impalcature, il paragone di Burtt potrebbe condurci ad una conclusione diametralmente opposta alla sua, cioè a quella della necessità assoluta delle impalcature che sostengono la costruzione e la rendono possibile. Il pensiero scientifico può, senza alcun dubbio, rifiutarle post factum. Ma forse soltanto per rimpiazzarle con altre. O anche per lasciarle scivolare nell’oblio, nell’inconsapevolezza delle cose alle quali non si pensa più – come alle regole di grammatica che si dimenticano man mano che si apprende una lingua, e che scompaiono dalla coscienza proprio nel momento in cui la dominano maggiormente»: Koyré 2003, 27.
[41] «Il caposaldo di ogni teoria [fisica] dell’unificazione è l’idea secondo cui una descrizione più profonda della Natura debba possedere un grado maggiore di simmetria matematica. Facendo risuonare le dottrine di Pitagora e di Platone, quest’idea porta con sé un giudizio estetico implicito, ovvero che tali teorie siano più belle e che, come scrisse il poeta John Keats nel 1819, “bellezza è verità”»: Gleiser 2011, 11.
[42] «Sono, in effetti profondamente convinto […] che l’influenza delle concezioni filosofiche sullo sviluppo della scienza sia stata altrettanto grande di quello delle concezioni scientifiche sullo sviluppo della filosofia»: Koyré 2003, 25. Il quale non può certo venir tacciato di antirealismo filosofico: «l’atteggiamento filosofico che alla lunga si rivela buono non è quello dell’empirismo positivista o pragmatista, ma, al contrario, quello del realismo matematico. In breve, non quello di Bacon o di Comte, ma quello di Descartes, Galilei e Platone»: ivi, 37.
[43] Ho analizzato questa questione in Calabrò 2011, 64-68.
[44] Cfr. al riguardo la posizione di Margenau 1987, 53, per il quale “l’ontologia è una questione di fede”.
[45] Le scienze naturali sono le prime a non credere a un simile concetto di verità: cfr. ad es. Gleiser 2011, 24, per il quale «dobbiamo quindi essere estremamente accorti: faremo bene a ricordarci a dispetto di tutti i successi ottenuti, […] di non inseguire la verità assoluta ma la comprensione. […] Per quanto meravigliosa sia, la scienza è una costruzione umana, un racconto che creiamo per dare un senso al mondo intorno a noi».
[46] Ferraris 2011, 4. In Calabrò 2011 (un estratto è leggibile online in Calabrò 2010) ho esaminato la curiosa propensione degli uomini di scienza a divinizzare il proprio lavoro di ricerca (o in ogni caso a parlarne con un linguaggio di stampo religioso, perfino teologico, fino al messianico). Atteggiamento che a quanto pare non è loro prerogativa e che probabilmente, trova la sua radice proprio nella devozione laica tributata all’oggettività.
[47] Ferraris 2011, 9.
[48] «Definire “la scienza” è un’impresa disperata, e forse nemmeno desiderabile. L’approccio più consigliabile ai suoi “misteri” sembra essere quello di lavorare su esempi paradigmatici e cercare di illustrarne il funzionamento (o, se si preferisce un termine meno “ingegneristico”, la razionalità immanente). Qualcosa come “la scienza” appare interrogabile solo attraverso lo smontaggio di esperimenti, teorie, leggi, difficilmente riconducibili ad unità, cioè difficilmente considerabili in termini di specie di un unico genere sommo, ma piuttosto come paradigmi di realizzazioni particolari di un telos ideale: la ragione scientifica, appunto» (Cavazzini 2003, 9). Sul punto cfr. altresì Amoretti e Vassallo 2010, 21: «“la” scienza si compone di numerose discipline eterogenee, le quali, oltre a presentare certo continue intersezioni e precisi punti di contatto, manifestano altresì contenuti e problemi specifici, che si rapportano in modi caratteristici con l’epistemologia, sollevando questioni conoscitive peculiari».
[49] Il brillante aneddoto è raccontato da Kolakowski 1997, 201.
[50] Ferraris 2011, p. 63.
[51] Ivi, p. 9.
[52] Così ancora Sini 2008, pp. 109-110: «l’assurdo sta nel non vedere che questa pretesa di verità assoluta è il tratto tipicamente prospettico, relativo e “in errore” dell’uomo della conoscenza [di Nietzsche], il suo concreto e a suo modo fecondo errare. Infatti egli dice di volere la conoscenza disinteressata e la verità pura, ma questa è solo una maschera del suo reale volere: l’uomo della conoscenza vuole la potenza; la sua asserita volontà di verità non è altro che volontà di potenza: negazione e appropriazione dell’ente e infine null’altro che nichilismo dispiegato».
* Paolo Calabrò, laureato in Scienze dell’informazione e in Filosofia, è vicedirettore del mensile «ReF-Recensioni Filosofiche», redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta e del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello e collaboratore delle riviste «Lo Straniero», «Testimonianze», «Galileo», «Sapere», «Pagina3». Dal 2009 gestisce il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano. Ha pubblicato Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sulla filosofia di Raimon Panikkar e Maurice Bellet. Il suo secondo libro, La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet, è in corso di pubblicazione (febbraio 2014).
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15 dicembre 2013 alle 10:07
Mi sembra che il pensiero di Panikkar sia molto intriso di religione, con la quale il Nostro pasticcia non poco – pur in ottima fede. La sua filosofia risulta una forzatura determinata da varie contaminazioni speculative per una sorta di operazione da “embrassons nous”. Tutto questo per giungere ad una ipotesi relativista (divenire e non essere è la realtà) che non è sicuramente nuova. Ciò da cui ci salva Panikkar è la drammaticità della scoperta, ma non dimentichiamo che questa salvazione sa di incenso, viene dalla sua formazione religiosa buddhista versione buonista.