Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Sartre-Jean-Paul

La morale dell’autenticità di Jean-Paul Sartre – Parte I

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> di Daniele Baron

L’être et le néant di Jean-Paul Sartre si conclude con breve paragrafo dedicato al problema morale (Cfr. J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 1965, ristampa 1997, pp. 694-696). Qui Sartre dice che l’ontologia occupandosi esclusivamente di ciò che è, ha solo una funzione descrittiva e non prescrittiva, non può fornire degli imperativi dai suoi indicativi, ma lascia intravedere quello che potrebbe essere una morale che si fondi sui risultati della sua indagine. L’ontologia apre a prospettive morali complesse che necessitano di un’approfondita trattazione. Per questo motivo, Sartre qui si limita ad enunciare senza rispondervi alcune questioni che sorgono da questo punto di vista e rimanda la loro soluzione ad una futura opera specificamente dedicata al problema morale.

«Tutti questi problemi, che ci rinviano alla riflessione pura e non “complice”, non possono trovare la loro risposta che sul terreno morale. Vi dedicheremo un’altra opera» (Ibidem, p. 696).

Quest’esplicita promessa non fu poi mantenuta e l’opera annunciata nel 1943 non venne mai pubblicata: il progetto di scrivere un’opera sulla morale dell’autenticità rimase un «tentativo mancato» (J.-P. SARTRE-M. SICARD, Entretien. L’écriture et la publication, in “Obliques”, 1979, nn. 18-19 [numéro special], p. 14).

La fase della riflessione morale di Jean-Paul Sartre su cui qui focalizzo la mia attenzione può essere ricostruita nei suoi concetti filosofici fondamentali solo in base ad opere pubblicate dopo la morte del filosofo (1980), vale a dire mediante i Carnets de la drôle de guerre, scritti nel 1939-40, pubblicati nel 1983 (e nel 1995 in una nuova differente edizione), i Cahiers pour une morale, scritti nel 1947-48, pubblicati nel 1983, Vérité et existence, opera risalente al 1948 e pubblicata nel 1989. Si tratta, dunque, di una morale e di un momento della riflessione di Sartre che, pur risalendo ad un periodo preciso e circoscritto della sua vita e del suo pensiero, è venuto alla luce solo postumo, mentre, fintanto che il filosofo era in vita, si avevano solo alcuni accenni ad esso che ne attestavano l’esistenza.
S’intende qui tentare una ricostruzione storica delle vicende di questa morale e comprendere i motivi che spinsero Sartre ad abbandonare gli appunti scritti.
Risulta subito chiaro che la morale che si può desumere da queste opere postume ha uno statuto particolare rispetto al resto della sua produzione filosofica e letteraria e bisogna aggiungere che, da questo punto di vista, possiede un destino comune alle altre sue fasi della riflessione morale del dopoguerra: anch’esse, pur costituendo un momento importante del suo pensiero, per diversi motivi non sono state da Sartre pubblicate. (Oltre alla morale che prendo in considerazione, si possono individuare altre due fasi nella riflessione morale di Sartre nel dopoguerra: l’“etica dialettica” del 1964-65 e la morale che risale agli ulimi anni della sua vita, scritta insieme a Pierre Victor. A proposito di questa classificazione del pensiero morale: cfr. Ibidem, pp. 14 ss.).
Da questo fatto, fino a poco tempo fa, risultava una conseguenza paradossale: che cioè, per quanto l’intera opera filosofica e letteraria, soprattutto teatrale, di Sartre fosse caratterizzata da un’evidente istanza morale («Non ho mai smesso di essere un filosofo morale». [Ibidem, p. 14]) non si poteva ritrovare nella sua produzione un’opera specificamente dedicata all’argomento e che la morale sartriana era stata più spesso costruita, a partire dalle sue opere letterarie e filosofiche pubblicate, dai commentatori del suo pensiero che non da Sartre stesso. (Tra i numerosi saggi di interpreti pubblicati su questo argomento, alcuni sono diventati veri e propri classici: cfr. ad esempio F. JEANSON, Le problème moral et la pensée de Sartre, ed. Du Myrte, Paris 1947 e P. VERSTRAETEN, Violence et éthique. Esquisse d’une critique de la morale dialectique à partir du théâtre politique de Sartre, Gallimard, Paris 1972.) La pubblicazione di molti inediti permette ora di colmare, soprattutto per la fase della sua riflessione morale di cui io mi occuperò, questa mancanza di fonti dirette.
La morale che ho preso in considerazione abbraccia un periodo che va dal 1939 al 1949 circa ed è legata in buona parte ad un momento particolare del suo pensiero teorico: all’ontologia de L’être et le néant. Questo è dimostrato dal fatto che due delle opere postume succitate, i Cahiers pour une morale e Vérité et existence, sono ciò che ci resta oggi degli appunti che Sartre tenne negli anni successivi alla pubblicazione de L’être et le néant per realizzare il progetto di un’opera sulla morale annunciato nella conclusione come una conseguenza dei principi dell’ontologia ivi elaborata. Anche se, soprattutto nei Cahiers, sono presenti nuovi concetti eterogenei rispetto all’ontologia, concetti che prefigurano in parte il pensiero successivo della Critique de la raison dialectique, si può dire che questa morale sia a grandi linee una morale ontologica.
Tuttavia, come risulta evidente da un’analisi dei Carnets de la drôle de guerre, la scoperta di questa morale risale a prima della scrittura de L’être et le néant, al 1939, e precede anche l’elaborazione dei concetti dell’ontologia. C’è, infatti, nei Carnets un primo abbozzo della morale, la quale nasce prima di tutto come un atteggiamento concreto che Sartre in prima persona cerca di assumere per far fronte allo sconvolgimento della guerra.
Abbracciando complessivamente le vicende di questa morale e considerando insieme le tre opere postume che la concernono direttamente, è possibile individuare, da un punto di vista cronologico, tre momenti successivi e costitutivi.
Il primo momento riguarda l’origine della morale, la nascita nel 1939-40 dell’idea di una nuova morale in contrapposizione alla concezione morale precedente, vale a dire alle morali giovanili di prima della guerra, che in sostanza si fondano sulla teoria della salvezza tramite l’opera d’arte (di questa teoria vi è traccia nelle pagine conclusive de La nausée) e che prescrivono un atteggiamento stoico. Questo momento della scoperta di una nuova morale è testimoniato dai Carnets de la drôle de guerre, nei quali Sartre, riflettendo attraverso un’analisi autobiografica sulla propria personale evoluzione, critica la propria posizione precedente e dà conto della nuova morale che sta vivendo in prima persona.
La riflessione morale viene poi in certo qual modo sospesa, messa per un momento tra parentesi, dall’impegno derivante dall’elaborazione de L’être et le néant, che inizia a scrivere verso la fine del ’41 e che pubblicherà nel ’43. Questo è dimostrato anche dal fatto che nei Carnets si possono individuare due parti: una prima parte maggiormente dedicata alla morale ed una seconda, successiva, più incentrata sullo sviluppo di riflessioni ontologiche che troveranno la loro forma definitiva ne L’être et le néant.
Il secondo momento della morale coincide con la scrittura a partire dal 1945 e soprattutto nel 1947-48 dei quaderni di appunti che avrebbero dovuto permettergli di sviluppare la sua scoperta e di realizzare il progetto di un’opera specificamente dedicata ad essa. I Cahiers pour une morale, scritti negli anni 1947-48, e l’opera Vérité et existence, scritta nel 1948, sono quanto ci resta oggi di quell’intenso lavoro.
Il terzo momento è quello conclusivo dell’abbandono del progetto di scrivere un’opera sulla morale; per alcuni motivi, che cercherò di fare emergere, Sartre alla fine del 1949 decise di abbandonare quegli appunti e la morale in essi abbozzata, di non portare a compimento le sue ricerche, di non pubblicare nulla di quello che aveva scritto, e di dedicarsi ad altri argomenti e lavori.
Nella mia disamina ho definito morale dell’autenticità la morale che emerge dall’analisi complessiva di queste tre opere postume. Anche se, in effetti, Sartre, quando si riferisce ad essa, ne L’être et le néant ed in alcune interviste, non la definisce mai in questo modo e parla semplicemente di morale, mi è sembrato opportuno definirla così, sia per poterla distinguere dalle altre fasi del suo pensiero morale, sia perché il concetto di autenticità, e più in particolare di conversione all’autenticità, è in essa centrale, essenziale e caratterizzante.

1. GENESI DELLA MORALE DELL’AUTENTICITÀ

a) Guerra, prigionia e Resistenza

La comparsa di questa nuova riflessione morale deve essere inserita, come ho detto, in un quadro più ampio di riferimento; non è possibile comprenderla a fondo se si astrae dal contesto in cui si è sviluppata. Come testimoniano i Carnets de la drôle de guerre, c’è una grande differenza tra le morali precedenti, quelle giovanili, e quella che sta nascendo, che sta prendendo forma; siamo in presenza di una vera e propria contrapposizione. Questa trasformazione radicale a livello della riflessione morale può essere intesa solo se viene riferita alla cesura che gli avvenimenti di quegli anni e di quelli successivi comportano per la vita e per il pensiero di Sartre.

«Nella mia vita, individuo nettamente una cesura che dà luogo a due momenti quasi completamente separati, al punto che, essendo nel secondo, non mi riconosco più molto bene nel primo: il momento di prima della guerra e quello del dopoguerra» (J.-P. SARTRE, Autoritratto a settant’anni, Il Saggiatore, Milano 1976, p. 50).

Gli anni che vanno all’incirca dal 1939 al 1945, infatti, rappresentano per lui il passaggio dalla giovinezza alla maturità, dall’individualismo anarchico al socialismo, dall’isolamento e distacco dalla società alla necessità dell’impegno concreto e, a fianco di questo, la scoperta della storia e della costitutiva storicità dell’uomo. Sono numerosi i fattori che permettono di spiegare sul piano teorico questa cesura, ma quello che più di tutti ha contato, secondo la testimonianza dello stesso Sartre, è la guerra. Il lungo periodo della sua vita in guerra, in primo luogo con la partecipazione diretta alla prima fase del conflitto, poi con la prigionia, infine con l’esperienza della Resistenza, opera in lui la «conversione decisiva» (S. DE BEAUVOIR, La forza delle cose, Einaudi, Torino 1966, ristampa 1995, p. 11) proprio perché gli fa sperimentare e vivere concretamente alcuni aspetti della realtà che fino ad allora aveva quasi del tutto ignorato.

«Ogni uomo è politico. ma questo l’ho scoperto, per quanto mi riguarda, soltanto con la guerra, e l’ho capito veramente solo a partire dal 1945.
Prima della guerra mi consideravo semplicemente un individuo e non scorgevo assolutamente il legame che c’era fra la mia esistenza individuale e la società nella quale vivevo. Uscito dalla Scuola normale, avevo elaborato tutta una teoria in proposito: ero l’”uomo solo” vale a dire l’individuo che s’oppone alla società con l’indipendenza del suo pensiero, ma che non deve nulla alla società e nei confronti del quale quest’ultima è impotente, perché è libero. Questa è l’evidenza su cui ho fondato tutto quel che pensavo, che scrivevo e che vivevo prima del 1939. Prima della guerra non avevo opinioni politiche e, naturalmente, non votavo» ( J.-P. SARTRE, Autoritratto a settant’anni, cit. p 51).

Come si può vedere, dunque, la guerra comporta la contemporanea scoperta di tre elementi inseparabili tra loro: della società e dei suoi vincoli, della storia e, infine, del fatto che ogni uomo è politico. Questa scoperta comporta l’abbandono delle posizioni opposte che lo caratterizzavano prima della guerra. Mentre prima della guerra si considerava solo un individuo e dava, come vedremo, un significato morale a questa posizione di distacco dalla società, ora scopre l’importanza della vita con gli altri; mentre prima si manteneva sostanzialmente indifferente agli avvenimenti politici e storici, ora, da un lato, avverte la necessità dell’impegno concreto e, dall’altro, percepisce la sua storicità e la sensazione di partecipare ad un avvenimento storico irreparabile.
Per quanto lo choc della guerra sia, come abbiamo visto, fondamentale in questa trasformazione, non bisogna però dimenticare che già prima di essa Sartre cominciò ad avvertire la sostanziale impotenza del proprio individualismo. Se la guerra con la sua drammaticità accelera questo cambiamento, possiamo sicuramente dire che non avviene improvvisamente e senza che ci fossero già delle avvisaglie negli anni precedenti. A questo proposito, Sartre nell’opera Autoportrait à soixante-dix ans fa due esempi molto significativi che rendono conto di questa consapevolezza d’impotenza: la vittoria del Fronte Popolare del ’36 e gli accordi di Monaco del ‘38 ( Cfr. Ibidem, pp. 52 ss. Cfr. anche S. DE BEAUVOIR, L’età forte, Einaudi, Torino 1961, ristampa 1995, pp. 228 ss. e pp. 290 s.). In entrambi i casi la sua posizione morale e politica venne scossa e mostrò la corda. Di fronte alla vittoria del Fronte Popolare, pur simpatizzando per questo successo della sinistra e pur seguendone con appassionato interesse le vicende, non fece nulla di concreto per diventarne un vero e proprio sostenitore. Dall’altro lato, come vedremo meglio più avanti, di fronte al precipitare degli eventi mondiali, alla inquietante diffusione del nazismo ed alla sempre meno remota possibilità di guerra, la sua posizione si limitava ad un pacifismo individualista, che all’atto pratico non era che un’astratta condanna. Gli accordi di Monaco lo videro ancora incerto tra questo non più attuale pacifismo e l’antinazismo militante.
Come risulta chiaro da questi due esempi, Sartre già prima della guerra cominciava ad avvedersi della necessità di un atteggiamento più valido rispetto a quello che lo aveva caratterizzato fino ad allora, della necessità di uscire dall’indifferenza. La sua partecipazione diretta alla guerra, però, facendo precipitare irrimediabilmente nel passato il mondo della pace, stravolgendo completamente le coordinate della sua vita e facendo nascere un mondo nuovo, angosciante, disumano, orrendo, rese urgente e non più rinviabile il cambiamento di posizione.
Il 2 settembre 1939 Sartre riceve un foglio di mobilitazione, deve recarsi a Nancy e raggiungere la settantesima divisione dell’esercito francese. Inizia così la sua partecipazione a questo evento cruciale. Nel periodo che va dal settembre 1939 al giugno 1940, si trova con la sua divisione in Alsazia (spostandosi nei vari mesi tra alcuni paesi della regione), in seconda linea, ed ha come compito quello del metereologo. Questa è una fase molto particolare della guerra, in cui tra Francia e Germania non si combatte ancora e che, proprio per questa sensazione d’incertezza e d’attesa che creò, venne chiamata drôle de guerre, strana guerra. La travolgente offensiva tedesca, infatti, iniziò soltanto il 10 maggio 1940 e durante gli otto mesi precedenti il fronte occindentale, dov’era dislocato l’esercito francese, non era ancora interessato dal conflitto.
Sartre fin da subito, comportando la guerra una forte limitazione della sua libertà e costringendolo ad una vita comunitaria, abbandona il suo individualismo e comprende l’importanza della nozione di “sociale”.

«E infine mi trovavo sufficientemente ben collocato nella mia situazione di scrittore antiborghese e individualista.
Quel che ha mandato in frantumi tutto questo è stato l’aver ricevuto, un giorno di settembre del 1939, un foglio di mobilitazione; sono così stato obbligato ad andare alla caserma di Nancy ad unirmi a dei ragazzi che non conoscevo e che come me erano mobilitati. È questo che ha introdotto il sociale nella mia testa: ho capito improvvisamente ch’ero un essere sociale quando mi sono visto sradicato dal luogo in cui ero, sottratto alle persone che per me contavano, e condotto in treno da qualche parte dove non avevo nessuna voglia d’andare, con dei ragazzi che non ne avevano più voglia di me e che si chiedevano in che modo si era arrivati là (…). Fino a quel momento mi ero creduto una libertà sovrana ed è stato necessario che m’imbattessi, attraverso la mobilitazione, nella limitazione della mia libertà perché prendessi coscienza dell’importanza della gente e dei miei legami con tutti gli altri e di tutti gli altri con me» ( J.-P. SARTRE, Autoritratto a settant’anni, cit., pp. 54 s).

Dopo questo breve lasso di tempo di vita in guerra, Sartre, senza aver praticamente partecipato ai combattimenti, è fatto prigioniero dai tedeschi il 21 giugno 1940 a Padoux e prima viene diretto a Baccarat, poi viene quasi subito trasferito allo stalag XII D a Treviri. Anche l’esperienza della prigionia si rivela molto importante, facendogli ritrovare una forma di vita collettiva che da tempo non conosceva più e, insieme a ciò, la sensazione positiva di far parte di una comunità in cui è possibile la solidarietà ed un rapporto di comunicazione con gli altri sul piano dell’uguaglianza (Cfr. J.-P. SARTRE, Oeuvres romanesques, édition etablie par M. Contat et M. Rybalka avec la collaboration de G. Idt et de G. H. Bauer, Gallimard, Paris 1981, ristampa 1995, p. LVI). Questo periodo di forzata reclusione accrebbe in lui il desiderio, già nato durante il periodo precedente, d’impegno politico. Questo è testimoniato in modo immediato dall’atteggiamento che mantenne una volta riuscito a liberarsi ed a rimpatriare, facendosi passare per civile. Appena tornato a Parigi, a metà marzo 1941, cercò da subito di prendere dei contatti politici per rompere il suo isolamento ed avere un ruolo attivo nella resistenza contro l’occupante tedesco (Cfr. S. DE BEAUVOIR, L’età forte, cit., pp. 417 ss.). Nella primavera del 1941, insieme a Maurice Merleau-Ponty, Simone de Beauvoir, Jean e Dominique Desanti, François Cuzin, Jacques-Laurent Bost e Jean Pouillon, fondò il movimento “Socialismo e Libertà”. Si trattava di un gruppo di resistenza d’intellettuali e la sua principale attività era di raccogliere informazioni e di diffonderle attraverso opuscoli o bollettini clandestini.
Questo gruppo ebbe, però, un’effimera esistenza: venne già sciolto nell’ottobre dello stesso anno, perché, essendo nato in modo spontaneo, non poteva contare su di un’organizzazione che fosse efficace. Ci si rendeva conto, infatti, di fronte alla difficoltà di dare basi più solide e valide al gruppo, che si correvano dei rischi inutili senza peraltro avere dei risultati pratici. Sartre, nell’estate del 1941, cercò di dare maggiore peso al movimento, dapprima incontrando nella zona libera Kahn, Gide, Mayer, Malraux ed in seguito cercando di contattare dei comunisti (che però diffidavano di lui e fecero circolare la voce che fosse un agente provocatore dei nazisti), ma i suoi tentativi non ebbero successo (Cfr. Ibidem, p. 427 ss.)
Lo scioglimento del gruppo “Socialismo e Libertà” non interruppe, però, l’attività di resistenza di Sartre, anche se la sua azione proseguì per un certo periodo in maniera meno diretta (Attraverso il teatro: nell’opera teatrale Les mouches [messa in scena nella primavera del 1943] è evidente il significato politico della parola libertà. Cfr. Ibidem, pp. 469 ss.). Infine, all’inizio del 1943, invitato da intellettuali comunisti, partecipò alle riunioni del C.N.E. (Comité national des écrivains), collegato al Conseil national de la Résistance, e collaborò alle “Lettres françaises” clandestine (Cfr. Ibidem, p. 467). Inoltre, attraverso la mediazione di Albert Camus da poco conosciuto, ebbe dei legami con il movimento di resistenza Combat.
Come si può vedere, dunque, la sua scoperta del sociale, avvenuta durante il periodo della guerra e della prigionia, si traduce subito in un concreto impegno sul piano politico e dell’azione, impegno che Sartre manterrà, pur con diversa intensità, per tutto il resto della sua vita.

b) I Carnets de la drôle de guerre: dallo stoicismo all’autenticità

I Carnets de la drôle de guerre sono quanto è stato ritrovato del diario che, come dice il titolo stesso dell’opera, Sartre tenne durante la drôle de guerre, la prima fase della Seconda Guerra Mondiale, nel periodo che va dal settembre 1939 al giugno 1940, dalla sua mobilitazione fino all’inizio della prigionia. Dei quindici carnets che egli scrisse durante quel periodo solo sei furono ritrovati (I, III, V, XI, XII, XIV) e vennero pubblicati postumi presso Gallimard nel 1983 con l’esclusione del primo fino ad allora non ancora ritrovato. Nel 1995 si ebbe una seconda edizione, a cui io farò riferimento, arricchita del primo carnet.
Il diario di Sartre è prima di tutto una testimonianza (che Sartre definisce mediocre ma generale) della guerra e della sua vita in guerra (Cfr. J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre. Septembre 1939-mars 1940, nouvelle édition augmentée d’un carnet inédit, texte établi et annoté par A. Elkaïm-Sartre, Gallimard, Paris 19952, pp. 263 ss) Egli cerca di descrivere la situazione assurda per cui la guerra è dappertutto e tuttavia inafferrabile, definendola «guerra fantasma» (Cfr. Ibidem, p. 35 passim) o «guerra introvabile» (Cfr. Ibidem, p. 141 passim) dipingendo l’incertezza che comporta per il destino di molte persone, riportando le reazioni di coloro che vi partecipano, le voci contraddittorie che si rincorrono sul suo possibile svolgimento futuro e dando conto del confronto, che per molti versi è inevitabile, con l’altra guerra totale, quella del ’14-’18. Nel suo diario, poi, traccia un bilancio del periodo precedente, inizia ad abbozzare la morale dell’autenticità ed infine, soprattutto nella seconda parte, redige delle riflessioni filosofiche che troveranno la loro forma definitiva ne L’être et le néant (che inizierà a scrivere verso la fine del ’41).
Queste riflessioni risentono dell’influenza della sua recente rilettura di Heidegger (Se l’influenza di Heidegger è decisiva e fondamentale, non bisogna però dimenticare un’altra importante lettura che influenza l’evoluzione del suo pensiero: mi riferisco a Terre des hommes di St-Exupéry. Cfr. Ibidem, pp. 245 s., pp. 250 s., p. 255, pp. 312 s., pp. 360 ss.). Sartre era a conoscenza del pensiero del filosofo tedesco già dal periodo del suo soggiorno a Berlino, avvenuto nel 1933-34. Durante questo viaggio-studio, intrapreso per approfondire la sua conoscenza della fenomenologia ed in particolare del pensiero di Husserl, aveva già in parte iniziato a leggere Sein und Zeit di Heidegger, che all’epoca era considerato un fenomenologo (sebbene dissidente rispetto alla fenomenologia ortodossa). Ben presto, però, aveva interrotto la sua lettura, perché, essendo abituato ai problemi classici della filosofia ed al linguaggio filosofico tradizionale, aveva avuto grandi difficoltà di fronte all’originalità dei problemi posti ed al linguaggio nuovo. Solo a partire dal 1939, avendo “esaurito” Husserl, si sente pronto per intraprendere lo studio di Heidegger, perché ai suoi occhi gli permette di risolvere problemi che la filosofia di Husserl lascia irrisolti, gli permette di andare oltre Husserl. A partire dal principio del 1939 Sartre legge dapprima lo scritto Was ist Metaphysik? nella traduzione francese di Corbin e poi Sein und Zeit: la terminologia usata nei Carnets si ispira in modo evidente a quelle letture, anche se durante il periodo di tempo in cui li scrive non ha a disposizione i testi di Heidegger. L’approfondimento di questa filosofia continuerà anche durante la prigionia, quando potrà riprenderne la lettura (Cfr. S. DE BEAUVOIR, La cerimonia degli addii, seguita da Conversazioni con Jean-Paul Sartre, Einaudi, Torino 1983, p. 190).
Ci sono anche motivi biografici che lo portano a questa riscoperta, che non a caso ha inizio nel 1939; gli avvenimenti tragici sulla scena mondiale che avvicinavano la minaccia della guerra, l’irrompere della contingenza dei fatti storici, gli facevano desiderare una filosofia che non fosse solo contemplazione (desiderio peraltro già presente prima, ma non con questa urgenza), ma che fosse anche saggezza, eroismo, santità, una filosofia dominata dal pathos, une philosophie “pathétique” (J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, cit., p. 406) che si accordasse con la situazione vissuta e che, soprattutto, desse conto della costitutiva storicità dell’uomo. Quest’ultimo è ai suoi occhi proprio il più grande merito della filosofia di Heidegger, quello di mettere l’accento sulla temporalità dell’uomo e in questo modo di fornirgli alcuni strumenti concettuali utili per cogliere la realtà concreta di ciò che fino ad allora gli era quasi completamente sfuggito: la storia (Per tutte queste informazioni biografiche: cfr. Ibidem, pp. 403-409). È per questo motivo che Sartre nel corso dei Carnets afferma che l’influenza della filosofia di Heidegger è un fattore altrettanto importante che la guerra per comprendere il cambiamento del suo pensiero.
Si può dire che nei Carnets il concetto più importante che Sartre riprende da Heidegger, pur interpretandolo in modo differente, sia quello di esistenza intesa come essere-nel-mondo che egli identifica con l’essere della realtà umana. Questo essere è già qui concepito come lo sarà ne L’être et le néant e cioè come una struttura ek-statica, temporale, come progetto. Come ha ben visto lo studioso Franco Fergnani nel suo saggio La cosa umana, dopo La nausée in Sartre il concetto di esistenza si è modificato ed ha assunto un significato diverso. Mentre nel romanzo pubblicato nel 1938 c’era una sostanziale identità concettuale tra esistenza e contingenza, ora essa si spezza benché permanga tra quelle due nozioni uno stretto collegamento. Il termine di esistenza ora indica la realtà umana e la sua struttura ek-statica (Cfr. FERGNANI, La cosa umana. Esistenza e dialettica nella filosofia di Sartre, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 54-59). La realtà umana, infatti, è costituita da due elementi, la fatticità e la trascendenza, che sono inseparabili tra di loro, per cui la sua contingenza non si rivela mai come semplice dato, ma sempre come dato trasceso e superato (cioè come situazione). Il dato appare come tale solo alla luce di questo superamento che gli conferisce un senso. Questo trascendimento costitutivo del dato non può che essere una temporalizzazione; soltanto una struttura ek-statica e, dunque temporale, ci permette di spiegare la costitutiva progettualità che è il modo d’essere della realtà umana. È, dunque, per la scoperta della temporalità, resa possibile dalla sua ricezione della filosofia di Heidegger, che il concetto d’esistenza si è modificato.
Come ho già accennato, il diario permette di seguire più da vicino l’evoluzione del suo pensiero dal punto di vista morale ed è utile dunque al fine che mi sono proposto, quello di fare una genesi della morale dell’autenticità. Da questo punto di vista la guerra è il fattore di cambiamento più importante; i Carnets ci fanno vedere infatti come lo sconvolgimento della guerra abbia influito, non solo sul piano della sua vita personale, ma anche sul piano del pensiero. Per questo motivo penso sia utile seguire da più vicino la descrizione che Sartre ci dà, soprattutto nelle pagine iniziali, delle caratteristiche essenziali del mondo della guerra: solo così si potrà capire quali fattori di essa abbiano fatto sorgere in lui l’idea di una nuova morale e comprendere in che modo lo abbiano spinto ad abbandonare la posizione morale di prima della guerra che era una specie di stoicismo.
Per cominciare bisogna precisare che, ancor prima di elaborare una morale dell’autenticità, Sartre cerca di essere egli stesso autentico e di dar conto della forma particolare di autenticità che sta vivendo: l’autenticità di fronte alla guerra. Prima di fissare le regole generali della morale dell’autenticità valevoli per tutte le situazioni vuole sapere come si possa essere autentici in questa situazione particolare che è la guerra (Questo è anche dimostrato dal fatto che l’elaborazione teorica della morale dell’autenticità non compare nel primo carnet, ma in quelli successivi).
Che cosa è cambiato con la guerra?
C’è stata una vera e propria trasformazione del mondo e del rapporto della realtà umana con il mondo; la guerra ha stravolto il mondo ed il suo senso. Secondo Sartre la guerra non è un semplice accadimento fortuito che riguardi solo in maniera accidentale l’uomo, ma è sempre stata una delle possibilità della realtà umana (Cfr. J.-P. SARTRE, Carnets de la drôle de guerre, cit., p. 101. La realtà umana che si progetta nel mondo è nel proprio essere possibilità). Ora, essendosi questa possibilità realizzata, essendo sorto con la dichiarazione di guerra il mondo della guerra, non c’è più alcuna differenza tra l’essere uomo e l’essere-in-guerra. L’essere-nel-mondo (être-dans-le-monde) è diventato un essere-in-guerra (être-en-guerre). Da questo si può concludere evidentemente che nessuno può rifiutare il suo essere-in-guerra, è possibile soltanto decidere se fare o no la guerra, decidere del proprio essere-per-la-guerra (être-pour-la-guerre), si è solo liberi di scegliere quale atteggiamento mantenere. Da qui deriva che anche il disertore è in guerra (Cfr. Ibidem, pp. 58 ss.).

«Questo non significa altro che, finché la guerra è possibile, c’è – persino e soprattutto durante la pace – un essere-per-la-guerra dell’uomo fin da quando è nato (…). Quello che penso è che è dell’ordine dei grandi irrazionali, la nascita, la morte, la miseria, la sofferenza, in mezzo ai quali ogni uomo è gettato e di fronte ai quali astenersi è ancora impegnarsi» (Ibidem, p. 136).

La possibilità della guerra non è, dunque, una possibilità qualsiasi, è costitutiva della condizione umana ed esiste come tale anche se non è stata realizzata. Anche e soprattutto in pace, infatti, noi decidiamo del nostro essere-per-la-guerra.
Da quanto detto risulta che la guerra, in quanto costitutivo essere ontologico, non è soltanto l’oggetto del pensiero dell’uomo, ma la stoffa stessa del pensiero e dell’uomo che si trova in guerra. Non a caso Sartre stesso è consapevole fin dall’inizio che le sue riflessioni vengono dopo che il cambiamento si è prodotto e cercano soltanto di concettualizzarlo; non a caso, quando Sartre inizia a scrivere, vuole dare conto di qualcosa che è accaduto. È cambiato il suo essere-nel-mondo e quello dei suoi contemporanei e solo dopo può venire l’analisi di come è stato vissuto questo cambiamento.

«La guerra non costituisce solo l’oggetto dei miei pensieri, ne costituisce anche la stoffa. Attraverso ciò che percepisco, questo tavolo o questa pipa, io penso la guerra; il modo in cui io penso e in cui percepisco questo tavolo e questa pipa è “di guerra” – infine il modo in cui questo tavolo e questa pipa si danno a me è di guerra. E non si tratta soltanto di giudizi e comprensioni chiare: la mia comprensione preontologica, il mio essere più immediato faccia a faccia con le mie possibilità più immediate sono di guerra» (Ibidem, p. 60)

Da che cosa è caratterizzato questo mondo nuovo “di guerra”? Sartre nel primo carnet ne dà una descrizione lucida e precisa, fa una fenomenologia dell’essere-in-guerra che chiama “il mondo della guerra” (Ibidem, p. 21 e p. 27). Cercherò qui di seguirla nei suoi tratti essenziali.
Innanzitutto, rispetto alla pace, essendo cambiato l’essere-nel-mondo e di conseguenza il mondo, è cambiato il senso delle cose. In generale la realtà umana, in quanto essere-nel-mondo, progettandosi in un mondo, fa sì che un mondo esista e che gli oggetti si dispongano e si rivelino in questa disposizione come dei complessi di utensili corrispondenti alle sue possibilità. Gli oggetti, insomma, servono per…, sono dei mezzi, degli utensili per realizzare un fine, una possibilità della realtà umana. Nel complesso degli oggetti-utensili ogni fine serve da mezzo per un altro fine e questo per un altro e così via, fino al fine ultimo a cui tutto il sistema rinvia che è, in ultima analisi, l’uomo. Si può dire, quindi, che il complesso degli utensili rinvia da ultimo ad un senso primo che, mentre in pace era la conservazione della vita umana, ora è la distruzione (Cfr. Ibidem, pp. 22 s.). Essa riguarda tanto le vite umane che gli utensili e cioè tutto ciò che è organizzato. Nel passaggio alla guerra tutti gli utensili perdono il senso umano che li accompagnava durante la pace diventando degli utensili puri: Sartre fa l’esempio della locanda in cui viene ospitato, che ora serve solo al necessario, ha perso il lusso da cui era adornata durante la pace, quando rappresentava una libertà borghese che si poteva acquistare (Cfr. Ibidem, pp. 21 s.). Ad un certo punto della sua trattazione del mondo della guerra, poi, Sartre divide gli utensili in due categorie ben precise: distruttibili e distruttori-distruttibili. Nel primo caso, gli oggetti-utensili vengono colti nella loro utilizzabilità soltanto per negarla. Appartengono, invece, alla seconda categoria i mezzi che vengono direttamente utilizzati per la distruzione e che a loro volta possono essere distrutti. I cannoni e gli aerei, ad esempio, servono per distruggere, ma sono a loro volta distruttibili di solito da oggetti dello stesso tipo. L’uomo stesso può, in quanto viene trattato da mezzo, appartenere a questa seconda categoria. Da questo punto di vista, infatti, la condizione dell’uomo in guerra diventa quella di un essere-per-distruggere e per diventare tale deve spogliarsi di tutte le altre possibilità, mantenendo soltanto quella di farsi cosa, diventando utensile distruttore-distruttibile (Cfr. Ibidem, pp. 141-145).

«Così sono io che, in guerra, nel minimo dei miei respiri, nel più insignificante dei miei gesti, marciando, aprendo gli occhi e guardando, distruggo il mondo, è al di là di un mondo-da-distruggere che ritrovo me stesso come colui per il quale questo mondo-da-distruggere esiste» (Ibidem, p. 144).

«In questa distruzione l’uomo è anche un utensile distruttore-distruttibile. Cessa di essere realtà-umana perché perde le sue possibilità proprie (materiale umano). Ma – ed è ciò che c’è di più delicato da comprendere – questa perdita di tutte le sue possibilità è ancora una delle sue possibilità. Il suo essere-per-distruggere si progetta verso la possibilità della distruzione di tutte le possibilità umane in lui. Questo distruttore è per-distruggere distruggendosi in un mondo-da-distruggere, il che vuol dire che la sua condizione è di farsi cosa» (Ibidem, p. 145).

Da questa descrizione deriva con tutta evidenza che la guerra è la disumanizzazione dell’uomo e di conseguenza del mondo.
Il soldato in guerra viene trattato in due modi: come una macchina, da un lato, e come un essere cerimonioso, dall’altro. Il primo trattamento è una conseguenza della disumanizzazione, del fatto che l’uomo è un essere-per-distruggere ed un utensile distruttore-distruttibile, che è ridotto a quest’unica funzione: è per questo che viene equipaggiato dello stretto necessario e non si pensa che possa avere altri bisogni e desideri. Dall’altro lato, vengono mantenute delle cerimonie che esulano da questo stretto necessario; si insiste, ad esempio, sull’alto significato del saluto militare. Da questo ambiguo trattamento nascono sei importanti conseguenze.
1) La perdita di ogni dignità umana. L’uomo perde valore, si abbassa e si umilia nella misura in cui si fa trattare e viene trattato come una macchina. Non c’è più alcuna dignità e valore, infatti, nel lavoro che svolge. C’è la tendenza a lasciarsi andare, si è portati quasi a somatizzare questa perdita di dignità, assumendo comportamenti degradanti ed osceni.
2) Solitudine senza isolamento. Si è soli, perché ciascuno ha una propria vita civile che ha da poco abbandonato, a cui è fortemente legato e da cui gli altri sono esclusi, ma è impossibile isolarsi, perché c’è la proprietà collettiva di tutte le cose. «La guerra è un socialismo. Riduce la proprietà individuale dell’uomo a nulla e la rimpiazza con la proprietà collettiva. (Ibidem, p. 22).
3) L’attesa e la perdita di possibilità proprie. Il soldato non ha più possibilità proprie, è una semplice attesa passiva che dipende dagli altri e dagli ordini degli altri.
4) La noncuranza. Visto che la cura (souci) è ciò che accompagna, in generale, le possibilità proprie, l’uomo, spogliandosi in quanto macchina di esse, diventa noncurante. La vita precedente passata, quella della pace, perde senso, le preoccupazioni passate sono diventate assurde e si cade in un presente noncurante.
5) Il sacro. Le possibilità staccate dalla libertà non hanno smesso per questo di esistere, ma hanno assunto un’esistenza autonoma ed indipendente dall’uomo, sono divente possibilità-cose, fluttuano davanti a lui inaccessibili. Allo stesso tempo, però, vengono incarnate dagli ufficiali, da coloro che hanno il comando, i quali, proprio per questo motivo, perdono le loro caratteristiche individuali per diventare semplice incarnazione delle possibilità. Da qui nascono naturalmente il fatalismo e l’idolatria.
6) Un cameratismo molto particolare. Non esistono quasi più simpatie individuali, come accadeva durante la pace, c’è solo più simpatia per l’uomo ed in particolare per ciò che accade all’uomo in guerra. (Per la precedente dettagliata descrizione fenomenologica del mondo della guerra: cfr. Ibidem, pp. 27-32).
Un altro tema della riflessione di Sartre sulla guerra è la morte. La morte viene qui già descritta nel modo in cui lo sarà ne L’être et le néant come la perdita, la nullificazione di tutte le possibiltà, che trasforma la coscienza individuale in cosa (Cfr. Ibidem pp. 45 s.): già qui si differenzia dalla nozione che ne ha Heidegger e cioè quella di una possibilità dell’essere-nel-mondo. A proposito di questo tema, qui parla di un punto di vista della morte che sarebbe reso possibile dalla guerra. Non solo in guerra l’eventualità di morire è molto più concreta, ma poiché ogni elemento della vita (pensieri, percezioni, desideri) è un’attesa, è per essere stato, conta cioè sul passaggio al passato per consolidarsi, la guerra, gettandoci in un presente sradicato, annullando il passato ed il futuro, assomiglia molto alla morte come annullamento di tutte le possibilità umane e ci fa sperimentare in un certo senso il suo punto di vista (Cfr. Ibidem, pp. 47 s.). «Il presente diventa un non importa-dove, non importa quando, vissuto da un non importa chi» (Ibidem, p. 47).
Da questo deriva che la vita precedente, la vita civile della pace, sprofonda irrimediabilmente nel passato e che può essere compresa nella sua storicità, perché si può prendere un punto di vista su di essa, cosa che non era possibile mentre veniva vissuta. Ciò è rafforzato dal fatto che la durata della guerra non è prevedibile e che pertanto non si sa quando sarà possibile tornare indietro. È del tutto illusorio poi pensare di poterne ritornare senza esserne profondamente segnati e trasformati. Questo significa che, anche se la pace tornerà, il mondo non sarà più quello di prima. Sartre può a questo punto affermare e realizzare di essere fino ad allora appartenuto ad un’epoca ben precisa e dunque ad una generazione ben precisa, caratterizzata da determinate scelte e preferenze: la generazione tra le due guerre (Cfr. Ibidem, pp. 160 ss)
Dalla consapevolezza di questo senso dell’irrimediabile, dalla situazione di sospensione creata dalla guerra e dal pericolo costante di morte, nascono l’angoscia e la disperazione, condizioni indispensabili per accedere all’autenticità.
Tirando le somme di questo discorso, quali sono gli elementi del mondo di guerra che permettono di comprendere meglio il passaggio di Sartre dallo stoicismo all’autenticità? Sono essenzialmente tre: la disumanizzazione, la storicità ed il socialismo.
Innanzitutto, la guerra ci getta in un presente senza speranza e pieno d’incertezza. È proprio perché la guerra è una situazione angosciante, in cui l’uomo perde tutte le sue possibilità e dunque la sua libertà che è la fonte di queste possibilità, in cui c’è una disumanizzazione dell’uomo e del mondo (che diventa un universo popolato di oggetti distruttibili e distruttori-distruttibili), che l’uomo può rendersi conto della sua condizione in maniera concreta e del valore che aveva ed ha la sua libertà. La guerra, prima di tutto proprio per le sue caratteristiche negative, diventa il punto di vista privilegiato che può far sentire all’uomo la sua condizione, a patto che sappia viverla ed analizzarla autenticamente.

«Credo che comincio a comprendere ora: la natura della guerra è di essere odiosa e gli uomini che la scatenano sono dei criminali. Peraltro è un accidente storico, una contingenza sempre evitabile. Ma una volta giunta questa contingenza diventa un punto di vista privilegiato perché l’uomo realizzi e comprenda il suo essere-nel-mondo (perché il suo essere-nel-mondo è in pericolo)» (Ibidem, p. 90).

Inoltre, la guerra, facendo di colpo scivolare il mondo della pace nel passato, fa sentire concretamente la storicità all’uomo. Non solo fa nascere in lui la sensazione di partecipare ad un evento storico, ma gli fa comprendere anche il fatto che lui stesso è un essere costitutivamente storico, che è storicità. La storicità, o forse ancor meglio il senso di storicità, è uno degli insegnamenti fondamentali che Sartre trarrà dalla guerra, anche grazie al contributo della sua concomitante riscoperta di Heidegger, di cui ho già parlato.
Infine, la guerra per la prima volta gli fa sentire il peso della vita sociale, della vita con gli altri. Mentre prima della guerra si considerava solo un individuo e non coglieva, se non minimamente, il legame con la società in cui viveva, ora, con la sparizione dell’importanza delle differenze individuali, avverte il fatto che ogni individuo è un essere sociale e politico. Sartre, poi, per il fatto stesso di poter riconsiderare ed esaminare la sua vita di pace, può guardare tutto in prospettiva e collocare se stesso in una precisa classe sociale caratterizzata da precise scelte. Ciò non vuol dire che il suo comportamento e le sue scelte durante la pace fossero determinate dalla sua collocazione sociale e che egli fosse solo apparentemente libero; non significa che la libertà che sentiva fosse apparente e coprisse un determinismo assoluto. Tuttavia, ora si rende conto che la sua libertà non era, come lui pretendeva prima, del tutto incondizionata, ma condizionata dalle caratteristiche, contingenti ma determinate, della sua epoca e della sua classe che aveva ripreso liberamente; si accorge, in poche parole, che la libertà non può essere se non radicata in una situazione storica e sociale concreta e con ciò si modifica radicalmente il suo concetto di libertà (Cfr. Ibidem, pp. 537-539)
Queste tre componenti essenziali del mondo della guerra che ho descritto spingono Sartre ad un radicale cambiamento di atteggiamento, ad abbandonare completamente il suo stoicismo per accedere all’autenticità. Quando Sartre scrive le prime pagine del suo diario, ha già fatto sua la posizione che definisce autentica e sta sconfessando quella precedente, ha già compiuto la sua personale conversione e vuole darne conto. Per questo motivo intitola ironicamente alcuni paragrafi del suo primo carnet “le tribolazioni di uno stoico” (Ibidem, p. 20 e p. 98). Con il termine stoicismo Sartre vuole indicare, in questo particolare contesto, l’atteggiamento, assunto negli anni precedenti e abbandonato in parte solo pochi mesi prima della scrittura dei Carnets, di astratta condanna e rifiuto della guerra, di vago antimilitarismo fondato più su ragioni di ordine morale che politico e sociale. (Sartre, indagando l’origine del suo pacifismo di prima della guerra, fa spesso riferimento nel corso dei Carnets all’influenza del libro di Alain Mars ou la guerre jugée, letto nel 1924: cfr. Ibidem, p. 28 passim). Si trattava di un pacifismo che non si traduceva in nessun atto concreto e che gli eventi rendevano sempre più inattuale e superato. Sartre stesso nel 1938-39 cominciava a rendersi conto di ciò: mentre prima desiderava la pace ad ogni costo e non credeva alla possibilità di una guerra (come buona parte degli intellettuali e dell’opinione pubblica francese), poco alla volta il precipitare degli eventi lo aveva convinto che la guerra fosse inevitabile e gli aveva fatto vedere quanto il suo pacifismo fosse astratto; perciò egli aveva cominciato a mettere in discussione la sua posizione, anche se il suo abbandono definitivo avvenne solo all’inizio della guerra. (Nei Carnets Sartre fa la storia del suo atteggiamento di fronte alla guerra dall’infanzia fino al 1939: cfr. Ibidem, pp. 78-91.)
Che cosa comportava l’atteggiamento stoico di fronte alla guerra per Sartre?
Innanzitutto lo portava a considerare la guerra come una malattia da sopportare, come un semplice incidente del tutto indipendente dalla sua volontà, come qualcosa che non aveva voluto e di fronte al quale non era possibile altro che la rassegnazione. Questo atteggiamento stoico portava con sé anche un certo ottimismo e una soggezione all’autorità, all’ordine costituito.
Ora si rende conto che lo stoicismo e l’autenticità sono addirittura antitetici tra loro; si può infatti dire che lo stoicismo è inautentico perché, anziché assumere la situazione, la vuole sopportare. In un certo senso, quindi, porta a ricercare delle scuse, è un tentativo per non assumere le proprie responsabilità. Essere autentici di fronte alla guerra significa, invece, scegliere mediante la propria libertà la situazione in cui si è gettati. Ciò non vuol dire accettare la guerra, ma considerarla come un fatto umano, di cui gli uomini sono responsabili, perché l’hanno dichiarata e la fanno. Sartre si sente, poi, personalmente responsabile di fronte alle nuove generazioni, perché, come abbiamo visto, durante la pace, al di là dell’astratta condanna e del vago antimilitarismo, non ha fatto nulla di concreto perché non scoppiasse questo conflitto.
Secondo Sartre, pertanto, nessuno può chiamarsi fuori, nessuno può, se non in malafede, considerarsi innocente mentre fa la guerra, nessuno può accampare scuse. Ecco perché Sartre può giungere ad affermare che in guerra non ci sono vittime innocenti.
È dunque chiaro che la guerra, dal punto di vista dell’atteggiamento autentico, è qualcosa che deve essere con tutte le forze rifiutato e che bisogna con tutti i nostri mezzi evitare, ma quando si è in pace. Una volta scoppiata, bisogna immergervisi, farla e farsi in essa, viverla in maniera autentica, abbandonando lo stoicismo che non è altro che un atteggiamento importato dalla pace (Cfr. Ibidem, pp. 124 s.).
L’atteggiamento particolare di stoicismo che Sartre ha assunto di fronte alla guerra deve essere considerato come la concretizzazione in un caso specifico di una scelta morale più vasta. Esso rimanda insomma ad uno stoicismo più generale che è in un certo senso la consacrazione sul piano morale della sua posizione di disimpegno e di sostanziale estraneità alla società ed agli eventi storico-politici. Da questo punto di vista più generale e formale possiamo dire, infatti, che lo stoicismo per Sartre consisteva nella ricerca della libertà come distacco dalle passioni e dai beni, dunque di una libertà intesa da un lato come dominio su di sé e dall’altro come separazione dalla società e critica dei suoi costumi e della sua morale; solo così lo stoico poteva raggiungere una specie di autosufficienza ed autonomia che portava con sé la vera felicità.
Lo stoicismo era un atteggiamento pratico ideale che Sartre aveva cercato di far proprio. Nelle lettere inviate a Simone Jolivet nel 1926 aveva già delineato i tratti specifici dell’uomo stoico, indicandoli come un ideale di carattere che stava cercando di raggiungere. Aveva inoltre definito santé morale, salute morale, lo stato di assoluta libertà e di vera gioia che derivava dal raggiungimento di questo ideale (Cfr. J.-P. SARTRE, Lettres au Castor et à quelques autres, vol. I: 1926-1939, édition établie, présentée et annotée par S. de Beauvoir, Gallimard, Paris 1983, ristampa 1990, pp. 9-31). La libertà stoica era pertanto una libertà astratta, disincarnata, sradicata e propria di un individuo considerato soltanto nella sua singolarità, di un singolo separato da tutti gli altri, di un “uomo solo” che faceva della sua solitudine il suo punto di forza. (Sartre nell’opera La légende de la vérité aveva elaborato una vera e propria teoria dell’uomo solo. Nel 1931 sulla rivista “Bifur” ne aveva pubblicato solo un frammento intitolato Légende de la vérité, frammento che è stato poi ripubblicato in appendice all’opera bibliografica: M. CONTAT-M. RYBALKA, Les écrits de Sartre. Chronologie, bibliographie commentée, Gallimard, Paris 1970, ristampa 1980, pp. 531-545)
Quest’atteggiamento stoico non può essere compreso se non viene riferito alle teorie morali che Sartre aveva elaborato prima della guerra. Sebbene la loro analisi non rientri nei limiti che ho assegnato alla mia ricerca, qui voglio accennare ad alcuni loro elementi che possono spiegare il suo stoicismo.
Innanzitutto, si può dire che il comune denominatore che stava alla loro base fosse la ricerca dell’assoluto. Avendo posto come principio della sua concezione la teoria della contingenza, che afferma che l’esistenza delle cose e degli uomini è senza giustificazione, che non c’è nessuna ragione che possa spiegare la loro presenza al mondo, che sono “di troppo” per l’eternità, avendo risposto pertanto in modo negativo all’esigenza di senso sul piano dell’esistenza, inevitabilmente sorgeva in lui il desiderio di una giustificazione assoluta su di un piano affatto diverso, quello dell’essere e della necessità. Conviene poi affermare che le morali giovanili non erano affatto separate dalla sua attività di scrittore: non avevano e non potevano avere perciò una validità generale, perché si occupavano soltanto dei rapporti tra arte e vita ed in particolare definivano il modo in cui l’artista doveva comportarsi nella sua vita e nel suo rapporto con gli altri. Inoltre, occorre precisare che Sartre all’epoca aveva una concezione specifica dell’attività letteraria, antitetica a quella della letteratura impegnata, engagée, che assumerà in seguito; la considerava come il vero luogo del sacro: la nascita dell’opera d’arte era per lui un evento metafisico che riguardava l’intero universo e vedeva nella figura dell’intellettuale una specie di eletto che, producendo delle opere (considerate come oggetti sacri, come reliquie), salvava l’umanità irrimediabilmente affondata nel male (Cfr. J.-P. SARTRE, Le parole, Il Saggiatore, Milano 1964, ristampa 1994, pp. 108-127) L’opera d’arte diventava in questo modo uno strumento di salvezza per l’intellettuale stesso e per gli altri, poiché si poneva sul piano dell’essere, inteso come assoluto, necessario e non esistente, contrapposto alla contingenza del mondo e dell’esistenza.
Quella della salvezza tramite l’opera d’arte è una delle teorie morali giovanili di Sartre. Di essa abbiamo una traccia più che evidente nella conclusione de La nausée, dove il protagonista Antoine Roquentin intravvede la possibilità di salvarsi dal peccato di esistere, dalla irrimediabile contingenza della sua esistenza, grazie alla scrittura di un libro (Cfr. J.-P. SARTRE, La nausea, Einaudi, Torino 1948, ristampa 1990, pp. 226-238). Questa concezione “religiosa” dell’arte, che come mostra bene l’opera autobiografica Les mots risaliva alla sua infanzia, aveva una forte influenza sulla sua posizione morale: lo stoicismo ne era una delle conseguenze più importanti.
Con la guerra, però, sia lo stoicismo, sia le morali giovanili che ne stanno a fondamento, sia infine la concezione sacra dell’attività letteraria, vengono del tutto superati e considerati inattuali ed inautenticiti. Sartre, infatti, inizia ad elaborare la morale dell’autenticità, una morale affatto nuova che comporta il completo abbandono delle posizioni precedenti.

[Fine prima parte – continua]

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2 thoughts on “La morale dell’autenticità di Jean-Paul Sartre – Parte I

  1. Non me la prendo ovviamente con l’estensore dell’articolo ma col contenuto, con quel Sartre che mi affascinava da giovane e di cui ho imparato, presto l’inconsistenza. Naturalmente a mio avviso. Di Heidegger, di Sartre (ma anche di Fichte) non capisco l’involuzione del discorso che spesso nasconde banalità. Ma almeno Sartre ricorre spesso ad esempi per farsi capire.
    Sputato il rospo passo alla sostanza.
    Non la disgusta signor Baron, non le sembra banale il ricorso a concetti quali distruttibili e distruttori-distruttibili per concludere con la disumanizzazione dell’uomo? Che vuol dire disumanizzazione dell’uomo? Che l’uomo si può disumanizzare? Che l’umanità è una camicia che si può togliere o che qualcuno ci può togliere? In che consiste questa disumanizzazione? Forse si fa riferimento alla concettualità dell’umanesimo?
    Hannah Arendt, mi pare, nella Vita della mente, arriva ad asserire che la miglior opera filosofica di Sartre è il suo romanzo La Nausea. Per quel poco che ho letto da giovane condivido il giudizio. Anche Heidegger proprio sull’umanesimo in relazione al rapporto fra essere ed esistere, fu severo critico di Sarte. Non mi spingo oltre.
    Signor BARON scriva qualcosa di suo. La filosofia italiana soffre di mancanza di pensiero e non esprime più da tempo immemorabile un filosofo, una scuola, un pensiero di respiro internazionale. Ciò che dicono i nostri filosofi non interessa i loro colleghi francesi, tedeschi, americani, inglesi. La filosofia che esprimono è priva di ossigeno, di originalità, di pensiero. I nostri cattedratici forse fanno storia della filosofia, forse criticano il pensiero altrui ma certamente, a parte poche eccezioni, non partono dai problemi per cercare nuovi paradigmi di comprensione.
    I nostri filosofi non pensano. Non pensano oggi e non pensano da generazioni. Nell’Ottanta e nel Novanta, mi accadde di constatare tanto al Pompidou di Parigi che al Barbican di Londra, come nei testi, presenti in biblioteca che raccontavano la filosofia del novecento, accanto ai numerosi nomi francesi, tedeschi, inglesi, americani, comparissero a stento i nomi italiani di Croce, di Gramsci e di Peano. Ma è inutile fare elenchi di nomi e movimenti di pensiero che qualsiasi cultore di filosofia conosce.

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  2. Caro signor Saia, sono in totale disaccordo con il suo giudizio così severo sul pensiero di Sartre. Quanto al fatto di cosa ne pensassero altri filosofi del suo pensiero mi interessa relativamente. Che Hannah Arendt asserisca questo, può anche essere inteso come un complimento, poiché a mio avviso La nausea è una grande romanzo filosofico. Preferisco formarmi un giudizio autonomo leggendo direttamente gli scritti.
    Ma lei mi scrive che il suo è un discorso di una persona delusa dopo un iniziale fascino per Sartre. Tuttavia non mi indica il punto che le pare inefficace, non indica se e dove il suo pensiero possa presentare delle lacune e aggiunge che ne ha letto poco. A questo punto il suo è un rifiuto generale e generalizzato con motivazioni affettive.
    Affermo con decisione che il pensiero di Sartre in tutta la sua opera filosofica è interessante e da approfondire e che l’influenza di certi suoi scritti è a mio avviso fondamentale sulla cultura francese e non solo e che occupa un posto importante nella storia della filosofia.
    Quanto al concetto di “disumanizzazione”, che le pare banale, deve essere inserito nel contesto del discorso in cui compare: uno scenario di guerra. Con le conseguenze esistenziali che esso porta con sé per la vita e per il pensiero di Sartre.

    Per quanto concerne la seconda parte del suo intervento, accolgo ben volentieri il suo invito a scrivere qualcosa di mio (una delle sezioni della nostra rivista è dedicata proprio alla teoresi autonoma) e posso condividere il suo rammarico per il fatto che la nostra filosofia non venga considerata a livello internazionale. Ciò non significa a mio avviso che la filosofia italiana sia inconsistente. I nostri filosofi pensano. Forse pensano “a partire da”, il loro pensiero è spesso troppo legato a un pensiero estero e non saprei indicarle con la dovuta precisione le cause per la difficoltà in cui versa il nostro pensiero: forse sono da rintracciare in generale nella situazione pessima, economica e non, della nostra cultura in generale; forse nell’assenza di scuole di pensiero, forse per la chiusura di certi ambienti accademici, forse per una certa esterofilia ecc.

    La ringrazio per la lettura e per gli spunti di dibattito.
    Un caro saluto

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