> di Massimo Carloni*
1. L’inquietudine impersonale ovvero la filosofia come professione
«Succede della maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi, come di chi si costruisse un castello e poi se ne andasse a vivere in un fienile: per conto loro essi non vivono in quell’enorme costruzione sistematica. Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un’obiezione capitale. Qui i pensieri, i pensieri di un uomo, devono essere l’abitazione in cui egli vive: altrimenti sono guai» Søren Kierkegaard [1]
1.1 Un insolito professore
Superato l’esame d’abilitazione all’insegnamento, nell’anno scolastico 1936/37 Cioran, allora venticinquenne, ottenne la nomina come professore di filosofia al liceo Andrei Şaguna di Braşov. A quel tempo Cioran era tutt’altro che un ragazzo alle prime armi, timido e sprovveduto. In un’età in cui l’intelletto incomincia appena a balbettare, in pratica aveva già letto tutto. A diciassette anni s’era immerso con avidità nell’universo del pensiero, vivendo nell’ebbrezza dell’astrazione, sotto l’influsso magico del concetto. In soli quattro anni percorse la parabola del sapere filosofico – quella che, secondo Pascal, va dall’ignorance naturelle all’ignorance savante [2] - quando gli altri v’impiegano, se tutto va bene, un’intera vita. Dopo la laurea, ancora giovanissimo, volse le spalle alla filosofia, sperimentandone la vanità e l’inefficacia di fronte alla sofferenza personale. Come scrittore, aveva riversato quindi la sua furiosa malinconia, esacerbata da un’insonnia devastante, in due libri “avvelenati”, di cui il primo – Al culmine della disperazione scritto a soli ventuno anni – intriso d’una saggezza cupa e demolitrice, conteneva in germe gran parte delle intuizioni che svilupperà nelle opere successive.
Forte di queste “credenziali”, Cioran si accingeva a ricoprire il ruolo d’insegnante nel liceo di Brašov. I pessimi rapporti con il preside, i colleghi e gli studenti, renderanno l’esperienza “catastrofica”. Ştefan Baciu (1918-1993), poeta e scrittore romeno, allora allievo al liceo di Braşov, ricorda così il primo giorno di scuola di quello stravagante professore:
«Entrò in classe, posò il registro d’appello con la copertina blu, e si levarono applausi spontanei nel silenzio mattutino. Il nostro nuovo professore, un poco intimidito, inclinò la testa, poi, dopo una pausa, pronunciò queste parole che non ho mai dimenticato: “Invece di applaudirmi, fareste meglio ad intonare la Marcia funebre di Chopin. È una vergogna essere laureati”. Dopo un lungo silenzio, qualcuno dal fondo dell’aula gridò: “Abbasso i laureati!” Cioran, sorridendo, rispose: “Vi ringrazio”» [3].
L’ironia della sorte fece sì che l’unico “mestiere” esercitato in vita da Cioran – «…il solo anno della mia vita in cui mi capitò di lavorare…» [4], ricorderà in seguito – fu proprio quello che più detestava: l’insegnante… di filosofia per giunta! Ora, non sappiamo che cosa lo spinse ad accettare quell’incarico, sta di fatto che si trattava della persona sbagliata nel posto sbagliato. Un misantropo col gusto della provocazione, ricredutosi di tutto, in guerra con Dio, col mondo e con se stesso, che cosa mai c’entrava con la scuola, con la trasmissione del sapere istituzionalizzato, con la formazione dell’uomo courant? Per (s)fortuna degli studenti, e per buona pace del corpo insegnante, resistette solo un anno, prima di svignarsela in Francia.
All’infuori di quello scivolone giovanile, l’abiezione del lavoro non gli avvelenò mai più la vita. Il mondo, forse, avrà perduto un docente, ma i suoi lettori hanno guadagnato un prosatore impareggiabile e un provvidenziale medicatore dell’anima, e il vantaggio, lasciatemelo dire, è inestimabile.
1.2 Il tradimento dei filosofi
Ripercorrere le tappe che scandiscono la formazione intellettuale del giovane Cioran, riveste un interesse che va al di là della pura curiosità biografica. La sua esistenza di “pensatore organico” (nel senso fisiologico del termine e non in quanto “integrato”), diventa ad un certo punto una delle critiche viventi più feroci e beffarde rivolte alla prosopopea filosofica del suo tempo.
Naturalmente, come ogni neofito che si rispetti, anche Cioran visse il suo periodo d’infatuazione, di cieca venerazione nei confronti di quei titani della filosofia particolarmente di moda negli anni ’20, che rispondono ai nomi di Kant, Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Simmel, Bergson, Husserl, Heidegger, ecc,. L’incontro con tali maître à penser generò inevitabilmente, nel giovane studioso affamato d’assoluto, un atteggiamento di boriosa superbia, che lo indusse a disprezzare tutto ciò che esulava da quel dialogo esclusivo tra sapienti, a cui, in qualità d’iniziato, si sentiva chiamato a partecipare.
«Avevo diciassette anni, e credevo alla filosofia. Tutto ciò che non vi si richiamava mi sembrava peccato o porcheria: i poeti? Saltimbanchi adatti al divertimento delle femminucce; l’azione? Delirio dell’imbecillità; l’amore, la morte? Pretesti di basso livello che rifiutano l’onore del concetto. Odore nauseabondo d’un universo indegno del profumo dello spirito… Il concreto, che oltraggio! Rallegrarsi o soffrire, che vergogna! Solo l’astrazione mi sembrava palpitare…» [5].
L’idillio tra Cioran e la filosofia avrà comunque vita breve. L’incanto sarà spezzato brutalmente dall’irruzione di una bestia nera poco propensa a riconoscere l’autorità del sillogismo: l’insonnia. Proprio nel momento di maggior bisogno, quando la sofferenza gli soffocava l’anima, Cioran chiese disperatamente soccorso alla tanto amata filosofia. Quella stessa architettura di concetti a cui prima aveva tributato una devozione quasi religiosa, gli voltò sdegnosamente le spalle. Ora finalmente gli appariva per quello che era: fredda, indifferente, esangue, senza vita e, soprattutto, incapace di alleviare le sue pene: «E fu allora che feci appello alla filosofia: ma non vi è idea che consoli nell’oscurità, nessun sistema resiste alle veglie. Le analisi dell’insonnia sfondano le certezze» [6].
Come una rivelazione fulminante, la sofferenza gli aprì definitivamente gli occhi: d’un tratto comprese tutto. I cosiddetti “grandi filosofi” sistematici – i vari Aristotele, Tommaso, Descartes, Leibniz, Kant, Hegel, Schopenhauer, Heidegger – non furono altro che un manipolo di illustri ingannatori, d’impostori dello spirito: «I grandi sistemi non sono in fondo che brillanti tautologie. Quale vantaggio ricaviamo dal sapere che la natura dell’essere consiste nella ‘volontà di vivere’, piuttosto che nell’’idea’, o nella fantasia di Dio o della Chimica? Semplice proliferazione dei termini, sottile spostamento del senso. Ciò che è ripugna alla stretta verbale e l’esperienza intima non ci svela nulla al di là dell’istante privilegiato e inesprimibile» [7].
Nemico del naufragio, il filosofo ama veleggiare in acque chete; nel suo personale universo – guarda caso – l’essere è sempre in bonaccia. L’orbita disegnata dal suo sistema ideale e quella percorsa dalla vita, sono destinate a non incontrarsi mai. Che i filosofi non si mettano mai in gioco in prima persona, il giovane Cioran l’aveva capito da tempo, rimuginando un’amara considerazione di Georg Simmel: «È terribile pensare che così poche sofferenze dell’umanità sono passate nella sua filosofia» [8]. Chiosando quell’estrema autocritica del filosofo tedesco, Cioran aggiunge: «Non avete notato che tutti i filosofi finiscono bene? Questa cosa deve farci pensare. Ad ogni modo, pochi sono coloro che vogliono comprendere questa sorprendente scoperta. Quelli che lo hanno fatto possono ritornare sui filosofi come sul proprio passato» [9].
È venuto il momento di chiederci, con Cioran, perché mai le problematiche filosofiche non ci sono di nessun aiuto nei momenti d’afflizione? Eppure, a prima vista, sembrano affrontare le questioni essenziali che riguardano il rapporto dell’uomo con se stesso e con il mondo. Per quale motivo dunque, nelle situazioni critiche, da tutto quel sapere non sgorga neanche una stilla di consolazione? La risposta è presto detta: i filosofi scrivono a «sangue freddo» [10]. Sono delle macchine razionali che pensano «per il piacere di pensare» [11], e non perché vi siano costretti dalle circostanze avverse della vita. Si occupano della vita da spettatori, da chirurghi del pensiero: la vivisezionano, la manipolano, protetti dai guanti bianchi delle categorie, senza il minimo coinvolgimento emotivo. Il prototipo del filosofo «senza destino», l’autentico impiegato del concetto – colui che inizia a lavorare una volta sedutosi comodamente alla sua scrivania, al pari d’un notaio o d’un contabile – è Immanuel Kant.
«Mi sono allontanato dalla filosofia nel momento in cui mi diventò impossibile scoprire in Kant alcuna debolezza umana, alcun autentico segno di tristezza; in Kant come in tutti i filosofi. In confronto alla musica, alla mistica e alla poesia, l’attività filosofica evidenzia una mancanza di vigore e una profondità sospette, adatte per i timidi e i tiepidi. D’altronde, la filosofia – inquietudine impersonale, rifugio presso idee anemiche – è la risorsa di tutti coloro che schivano l’esuberanza corruttrice della vita» [12].
Se i filosofi pensano facendo astrazione dalla propria interiorità, come degli intelletti disincarnati che vivono sub specie aeternitatis, non c’è da sorprendersi più di tanto se poi non riescono a toccare l’anima dei loro lettori. Si obietterà che lo scopo è di gettare uno sguardo oggettivo, scientifico, sulle cose. Ma a che serve collocarsi in una dimensione che non è condivisa da nessuno, se non da quei pochi eletti iniziati all’astruso gergo filosofico? Fa riflettere l’affermazione di Cioran secondo cui: «I filosofi scrivono per i professori; i pensatori, per gli scrittori» [13]. Ma è stato sempre così? O quella dell’oggettività è una perversione che si è impadronita della filosofia quando questa, coltivando l’ambizione epistemica, è diventata un sapere puramente teorico e speculativo, abbandonando quella vocazione originaria alla saggezza del vivere che le era connaturale? Per Cicerone, come per l’antichità in genere, la filosofia era essenzialmente animi medicina [14].
Plotino, racconta Porfirio, aveva il dono di leggere nelle anime. Un giorno, senza altro preambolo, disse al suo discepolo, piuttosto sorpreso, di non tentare il suicidio, ma d’intraprendere un viaggio. Porfirio partì per la Sicilia: guarì dalla sua malinconia ma, aggiunge pieno di rimpianto, non fu presente alla morte del suo maestro, sopravvenuta durante la sua assenza.
Da molto tempo i filosofi non leggono più nelle anime. Non è il loro mestiere, si dirà. Forse è così. Ma allora non ci si stupisca se di loro non c’importi più granché [15].
1.3 Gli scrocconi dello spirito
Il declino della filosofia è iniziato quando la Sapienza si è disintegrata definitivamente in una miriade di scienze particolaristiche. È qui che fa la sua comparsa un bizzarro esemplare, un tipo umano del tutto nuovo: lo specialista della materia, il docente, in altri termini, il professore. Questa specie parassitaria che attecchisce e si riproduce nel sottobosco accademico è, a parere di Cioran, una conquista recente dell’involuzione naturale.
«Non si biasimerebbe mai troppo il XIX° secolo per aver favorito quella genia di glossatori, quelle macchine da lettura, quella malformazione dello spirito che incarna il Professore, – simbolo del declino d’una civilizzazione, dell’avvilimento del gusto, della supremazia della fatica sul capriccio. Vedere tutto dall’esterno, ridurre l’ineffabile a sistema, non guardare niente in faccia, fare l’inventario dei punti di vista altrui!… Ogni commentario di un’opera è cattivo o inutile, poiché tutto ciò che non è diretto è privo di valore. Un tempo, i professori si accanivano preferibilmente sulla teologia. Almeno avevano la scusa d’insegnare l’assoluto, di essersi limitati a Dio, mentre nella nostra epoca, nulla sfugge alla loro competenza omicida» [16].
Da allora non fa che perseguitarci, lo ritroviamo dappertutto: in ogni ambito della vita, in ogni pubblico dibattito che si rispetti si erge, in qualità di noleggiatore prezzolato d’opinioni, per tenere la sua lezione, per spiattellare sugli astanti le sue pedanterie accademiche. Formatosi nel silenzio claustrale delle biblioteche, il professore si muove preferibilmente in ambienti chiusi, polverosi e poco illuminati. I monologhi di questo sofista senza genio, si riversano impietosamente sull’auditorio studentesco, imbonito e consenziente, costretto com’è – per un pezzo di carta bollata – a tributargli onori ed onorari che non merita affatto, a rimpinzarsi lo stomaco con i suoi indigeribili tomi.
In quei luoghi angusti dove lo spirito ammuffisce – soffocato com’è dall’aria viziata e consumata – e il corpo si atrofizza, ingobbito sui libri e irreggimentato dalle genuflessioni ossequiose, si dovrebbe parlare di bellezza, del bene, dell’anima, di Dio, ecc.,? Com’è possibile che dall’arida burocrazia universitaria possano sorgere dei pensieri viventi? E soprattutto: a che titolo coloro che vi prosperano possono esser definiti filosofi?
«Nell’antichità, dalla Grecia all’India fino alla Cina, si filosofava all’aria aperta, nell’agorà, in giardino, in un bosco, lungo un fiume o in riva al mare, in mezzo a quella natura che da sempre è stata la metafora vivente, la musa ispiratrice dei versi e dei pensieri più elevati. Se il Fedro si fosse svolto nell’anonima cornice di un’aula universitaria, invece che a mezzogiorno sotto l’ombra d’un platano, nell’incanto naturale del fiume Ilisso, che misero dialogo sull’eros ci avrebbe tramandato Platone! Ci si immagini il Buddha in cerca dell’illuminazione non ai piedi di un albero, ma assiso su una cattedra! L’università, teatro che inscena la farsa del sapere istituzionalizzato, è in realtà la tomba della filosofia e il docente il suo… becchino» [17].
«Ciò che distingue i filosofi antichi dai moderni – differenza così sorprendente e sfavorevole a questi ultimi – deriva dal fatto che questi hanno filosofato sul loro tavolo di lavoro, in ufficio, mentre i primi nei giardini, ai mercati o ai bordi del mare. E gli antichi, più indolenti, restavano per lungo tempo distesi, poiché sapevano che l’ispirazione viene orizzontalmente: in questo modo essi attendevano i pensieri, che i moderni forzano e provocano con la lettura, dando l’impressione di non aver mai conosciuto il piacere dell’irresponsabilità meditativa, ma di aver organizzato le loro idee con un’applicazione da imprenditori. Degli ingegneri intorno a Dio. Molti spiriti scoprirono l’Assoluto perché avevano presso di loro un canapé. Ogni posizione della vita offre una prospettiva diversa: i filosofi concepiscono un altro mondo perché, curvi al loro solito, si sono stancati di contemplare questo» [18].
Un’obiezione fondamentale che Cioran rivolge ai soloni del sapere accademico, è diretta contro l’eccesso di coscienza oggettiva a discapito della tensione soggettiva dell’esistere. In tutti i campi «il mestiere si è sostituito al reale; il procedimento all’esperienza; ovunque una deficienza dell’originale, del vissuto; la riflessione prevale su tutto; il sentimento non ha più rilevanza – come se non ci fosse più niente da provare» [19]. La mancanza di pathos è sin troppo evidente nei loro scritti, soprattutto quando trattano delle componenti emotive della realtà umana. Se dissertano sulla noia e la disperazione, sull’angoscia o il senso del nulla, lo fanno in base ad una competenza meramente didattica, letteraria, senza possederne minimamente l’afflato. Non avendone subito il flagello, non ne portano inferte sulla carne le piaghe, come accadde per tutta la vita ai vari Pascal, Leopardi, Kierkegaard e Baudelaire, i quali finirono per perirne.
Come a Simone di Cirene, capita ai professori di portare la croce per un tratto di strada, ma in modo puramente esteriore, quasi per gioco, ben sapendo che alla fine della via crucis l’agonia vera e propria toccherà a qualcun altro. Un destino benigno, infatti, non ha riservato loro nessun Golgota. Per i docenti l’Intollerabile, debitamente addomesticato sottoforma di categoria, diventa argomento di ricerca, moda filosofica; tutto si risolve alla fine in un paragrafo aggiuntivo al loro sistema e nulla più. Il professore sa bene che l’arte e la filosofia, nell’epoca dei loisirs borghesi, devono riempire il vuoto nelle ore d’ozio economico, quelle ore monotone, «neutre e vacanti» – come ricorda Cioran – «refrattarie all’Antico Testamento, a Bach e a Shakespeare» [20]. Al fine di rendere appetibile la propria mercanzia e per non provocare la “bancarotta” intellettuale, il professore eviterà di spingere l’interrogazione oltre un certo limite. Solleticando magari i «dubbi autorizzati» [21], gli converrà arrestarsi precauzionalmente ad «uno stadio ragionevole d’inquietudine» [22], proporre «un compromesso con l’Impossibile, una visione coerente del Caos» [23], tanto per non turbare i sonni tranquilli della pubblica mediocrità.
Per distogliere l’attenzione dal flagrante contrasto tra la squallida esistenza che conduce e l’elevatezza del pensiero, il professore si lancia volentieri in lambiccate argomentazioni, in ragionamenti senza fine, che finiscono per confondere il lettore il quale, di fronte a tanta pomposità verbale, si convincerà infine della fondatezza delle sue asserzioni. Chi crede in un’idea non si abbassa a dimostrarne la verità in maniera oggettiva, l’autenticità della sua vita dovrebbe esserne già una testimonianza esemplare. Ma l’esistenza del cattedratico, si sa, è d’un grigiore e d’una piattezza a dir poco avvilenti. Tant’è che oggigiorno, un Diogene Laerzio sarebbe condannato allo sbadiglio perpetuo dalla povertà stessa del soggetto, e, qualora non cambiasse mestiere, dovrebbe rassegnarsi a scrivere un libro d’una noia desolante.
«Non si può eludere l’esistenza con delle spiegazioni, la possiamo subire, amare o odiare, adorare o temere, in un’alternanza di felicità ed orrore che esprime il ritmo stesso dell’essere, le sue oscillazioni, le sue dissonanze, le sue veemenze amare o allegre […] Non si discute l’universo; lo si esprime. E la filosofia non lo esprime affatto» [24].
Già Pascal, da scienziato pentito qual’era, colse la vanità delle dimostrazioni con i quali è solito procedere l’“esprit géométrique” – proprio delle scienze oggettive della natura – affidandosi, per lo studio dell’uomo, all’intuizione empatica e alla sensibilità dell’“esprit de finesse” – principio guida delle scienze dell’anima – il solo in grado di penetrare nelle pieghe della sofferenza umana e di accoglierne il grido [25]. Cioran confessa di aver contratto proprio da Pascal quel «disgusto per le scienze» [26] che lo porterà in seguito ad identificare sostanzialmente due tipi di filosofi: «Coloro che riflettono sulle idee, e quelli che riflettono su se stessi» [27]. La distanza che li separa è quella che va «dal sillogismo all’infelicità» [28].
Per il filosofo oggettivo, solo le idee hanno una biografia; per il filosofo soggettivo, solo l’autobiografia ha delle idee; si è predestinati a vivere presso le categorie, o presso di sé. In ultima istanza, la filosofia è una meditazione poetica sull’infelicità [29].
Il primo a porre l’accento sulla differenza abissale che in filosofia separa l’approccio oggettivo da quello soggettivo, è stato Sören Kierkegaard. Al filosofo danese – compulsato in gioventù da Cioran – è bastata una sola parola “esistenza” per mettere a nudo la debolezza e la fallacia delle speculazioni sistematiche. Affidandosi alla sottile arma dell’ironia, ha ridicolizzato la boriosa serietà accademica, donando reviviscenza ad un sapere – quello filosofico – che da due secoli agonizzava rigirandosi su se stesso, aprì nuove prospettive per i secoli a venire. Nella Postilla conclusiva non scientifica Kierkegaard analizza con insuperabile capacità dialettica quello che lui stesso chiama “il problema soggettivo”, giungendo a questa conclusione:
«Ogni conoscere essenziale riguarda l’esistenza, ovvero soltanto il conoscere che ha un rapporto essenziale all’esistenza è conoscere essenziale. Il conoscere che non attinge l’esistenza dall’interno della riflessione dell’interiorizzazione, è dal punto di vista essenziale un conoscere casuale, il cui grado e ambito è essenzialmente indifferente. Che il conoscere essenziale si rapporti essenzialmente all’esistenza non significa quell’identità astratta sopraindicata fra pensiero ed essere, né oggettivamente che la conoscenza si rapporti a qualcosa di esistente come al suo oggetto; ma vuol dire che la conoscenza si rapporta al conoscente ch’è essenzialmente un esistente, e che perciò ogni conoscere essenziale essenzialmente si rapporta all’esistenza e all’esistere» [30].
Non provenendo dai bassifondi della coscienza e non essendo il frutto d’un travaglio interiore, le idee del pensatore oggettivo non sono accompagnate da alcun sospiro, da alcun lamento. La loro genesi, puramente cerebrale, è il parto indolore di altre idee.
«Soffrire significa meditare su una sensazione di dolore; filosofare, meditare su quella meditazione. La sofferenza è la rovina del concetto: una valanga di sensazioni che respingono ogni forma. In filosofia tutto è di secondo o terzo ordine… Niente di diretto. Un sistema si costruisce in base a derivazioni successive, essendo lui stesso la derivazione per antonomasia. Il filosofo non è altro che un genio indiretto» [31].
Una cosa, suggerisce Cioran, è avere la coscienza devastata da una sensazione attuale di dolore, e un’altra è filosofare a bocce ferme sul concetto di sofferenza in generale. La febbre, la temperatura d’ebollizione del pensiero, è completamente diversa. Un po’ quello che accade tra il folle e lo psichiatra: l’uno la mania la incarna, la sente bruciare sulla propria pelle; l’altro la studia a distanza, guardandosi bene dal lasciarsi contagiare. Da qui la “freddezza” innata della filosofia accademica – e di tutte le scienze oggettive – la quale non può riflettere che a «bassa temperatura».
«Quando si padroneggia la propria febbre, si dispone dei pensieri come delle marionette, si tirano i fili delle idee e il pubblico non disdegna l’illusione. Ma quando lo sguardo su se stessi diventa incendio o naufragio, quando il paesaggio interiore mostra la sontuosa distruzione delle fiamme danzanti sull’orizzonte dei mari – allora fuoriescono dei pensieri che sono come colonne tormentate dall’epilessia del fuoco interiore» [32].
Accecato spiritualmente, e preso dalla smania di classificare, il professore si lancia in aberranti comparazioni che sconfinano a tratti nell’eresia. Come quando arriva ad accostare spiriti sommi e bruciati dal demone, quali furono Hölderlin e Nietzsche, ad un dotto esegeta come Heidegger; «I tedeschi non si rendono conto che è ridicolo mettere nello stesso sacco un Pascal e un Heidegger. E’ enorme l’intervallo che separa un Schicksal da un Beruf, un destino da una professione» [33].
Sicuramente è più comodo per il professore occuparsi della filosofia da storico, che non viverla da filosofo! Ma, poiché dopotutto l’abito non fa il monaco, allo stesso modo – sostiene provocatoriamente Cioran – «Lo storico della filosofia non è un filosofo. Una portinaia che si pone delle domande lo è molto di più» [34]. Montando sulle spalle robuste del gigante, lo scaltro nano della conoscenza si fa grande a buon mercato, derubandolo inoltre dei suoi tesori più preziosi, conquistati percorrendo strade impervie ed inesplorate, a prezzo di grandi rinunce e solitarie meditazioni. L’aspetto più irritante e paradossale di tutta questa vicenda, è che i vari Kierkegaard e Nietzsche – tanto per fare due nomi tra i più “saccheggiati” dal ‘900 filosofico – consideravano i professori come la più deprecabile delle categorie umane, ben sapendo che, al pari delle iene, si sarebbero avventati sui loro cadaveri per spartirsene le spoglie. L’amaro presentimento di Kierkegaard si è, purtroppo per lui, impietosamente avverato.
«In un inno si parla di quel ricco che ha radunato un tesoro a prezzo di gran fatiche e ‘non sa chi lo erediterà’. Così anch’io lascerò dopo di me un capitale intellettuale non piccolo: ahimè, io so nello stesso tempo chi avrà la mia eredità; lui, quella figura che mi è così immensamente antipatica, proprio lui che fin qui ha ereditato e inoltre erediterà tutto il meglio di me: il docente, il professore» [35].
1.4 Illusionisti del verbo
Lo strumento di cui si serve il filosofo per raffreddare gli animi, per congelare le sensazioni, è il linguaggio impersonale creato in base alle categorie della ragione, il quale, come una rete, ne protegge le acrobazie verbali dall’impatto traumatico con le disavventure dell’esistenza. La moltitudine d’idee e di concetti, coniati nell’arco della sua storia dal pensiero umano, rappresentano l’universo – parallelo a quello reale – all’interno del quale il filosofo incomincia a pensare. La pretesa di muoversi su un piano puramente oggettivo, concettuale, allontanando il professore da se stesso, lo induce, per sbarcare il lunario, ad occuparsi delle idee altrui, a sfruttare il capitale d’autenticità lasciato in eredità dai filosofi del passato, i quali, se non altro, quelle idee ebbero il coraggio di viverle fino in fondo. In questo modo la filosofia si chiude a riccio sulle sue costruzioni intellettuali, diventando un’attività a se stante, priva di qualsiasi riferimento al mondo dell’esperienza.
Le parole che manipolano non sono il riflesso verbale d’un vissuto personale, ma il portato d’una tradizione filosofica o letteraria. La filosofia diventa quindi storia della filosofia. I professori, come dei vampiri dello spirito, si nutrono del pensiero altrui: «non vivono nelle idee ma ne vivono» [36]. Non contenta di limitare le proprie scorribande al solo ambito filosofico, la loro competenza devastatrice, sacrilega, finisce per invadere anche i territori dell’arte, della poesia e della letteratura. Veri e propri «anatomisti del verbo», i professori scompongono e analizzano le idee d’un pensatore o i versi d’un poeta, al fine di ricostruirne il decorso storico e filologico, o per metterne a nudo la genesi psicologica e sociale. Ma tutto ciò distrugge l’autenticità di un’opera, la sua immediatezza, poiché: «Un testo spiegato non è più un testo. Si vive con un’idea, non la si disarticola; vi si lotta, non se ne descrivono le tappe» [37].
Che la filosofia sia diventata una questione essenzialmente linguistica, lo si evince dal fatto che in epoca moderna ogni sistema filosofico ha legato le sue vicissitudini al potere evocativo – per non dire alla fortuna – di una parola simbolo. Le mode filosofiche, si sa, seguono da vicino la «carriera delle parole» [38]. Ogni teoria ha la sua formula-chiave, il suo concetto onnicomprensivo: Descartes il Cogito, Kant la Ragione, Hegel la Dialettica, Marx il Capitale, Schopenhauer la Volontà, Darwin l’Evoluzione, Nietzsche l’Eterno Ritorno, Freud l’Inconscio, Husserl l’Intenzionalità, Bergson l’Intuizione, Heidegger prima maniera il Dasein, dopo la svolta il Sein.
Miseria di quel gergo filosofico la cui originalità si riduce «alla tortura dell’aggettivo e ad un’improprietà suggestiva della metafora» [39]. I professori di filosofia si rifugiano volentieri nel tecnicismo linguistico e nel neologismo, per suscitare nel profano la sensazione di profondità e l’illusione dell’inaudito. In campo filosofico l’invenzione, nel migliore dei casi, è dovuta a «dei luoghi comuni rivalutati dal gergo» [40]. In ultima analisi che cosa evidenzia questa estenuazione della parola, questa tortura perpetrata ai danni del linguaggio, se non una profanazione indebita volta a mascherare la meschinità esistenziale del filosofo, piuttosto che l’esaurimento degli argomenti, o se non – addirittura – la totale mancanza di talento?
«Inventare delle parole nuove, sarebbe, secondo Madame de Staël «il sintomo più sicuro della sterilità delle idee». L’osservazione sembra più giusta oggi di quanto non lo fosse all’inizio del secolo scorso. Già nel 1649, Vaugelas aveva decretato: “Non è permesso a chicchessia di formulare nuove parole, nemmeno al sovrano”. Che i filosofi, ancor più degli scrittori, meditino su questa interdizione prima di mettersi a pensare» [41].
Da questo punto di vista, il più grande “incantatore” del ‘900 filosofico è stato indubbiamente Martin Heidegger. Nel 1932 la lettura di Sein und Zeit ebbe sul giovane Cioran l’effetto benefico d’una cura omeopatica: similia similibus curantur. Vale a dire, solo un’opera in cui l’eccesso verbale era spinto ad un livello così parossistico poteva disintossicarlo definitivamente dal linguaggio filosofico a cui era assuefatto al pari d’una droga.
«Tradotto in un linguaggio ordinario, un testo filosofico stranamente si svuota. È una prova alla quale occorrerebbe sottometterli tutti. Il fascino esercitato dal linguaggio spiega a mio avviso il successo di Heidegger. Manipolatore senza pari, egli possiede un autentico genio verbale che spinge tuttavia troppo lontano, accordando al linguaggio un’importanza vertiginosa. Fu proprio questo eccesso a svegliare in me i dubbi, quando, nel 1932, leggevo Sein und Zeit. La vanità d’un tale esercizio mi balzò agli occhi. Come se cercassero d’imbrogliarmi con delle parole. Devo comunque ringraziare Heidegger d’essere riuscito, con la sua prodigiosa inventiva verbale, ad aprirmi gli occhi. Vidi ciò che occorreva ad ogni costo evitare» [42].
Del resto, di fronte a un tale sfoggio di demiurgia verbale, chi non rimarrebbe incantato? Chi, smarrito nell’intricato dedalo di neologismi filosofici, non perderebbe di vista il senso della sua ricerca interiore? Se per il non-addetto la sola lettura di un testo come Essere e Tempo si presenta come un’impresa temeraria, uscirne indenni risulta, per l’uomo comune, addirittura proibitivo. Dopo aver sottoposto le proprie tempie ad una tortura massacrante, infine che cosa ne ricaviamo? Scopriamo di non essere più uomini ma Da-sein (Esser-ci); che la mortalità di omerica memoria è diventata ora un sein-zum-Tode (esser-per-la-morte); che l’Angst (angoscia) ci rivela la nostra condizione di geworfenheit (esser-gettato) in un mondo estraneo, sospesi tra l’essere che non siamo – ma che tuttavia comprendiamo – e il nulla che saremo. Ma è proprio necessario servirsi di questa terminologia lambiccata per andare «verso le cose stesse» – come recitava l’intento programmatico della fenomenologia husserliana a cui Heidegger esplicitamente si richiama? O si da il caso che questo cumulo di astrusità finisca alla fine per spossare il lettore, ottenendo esattamente l’effetto contrario, allontanandolo quindi da se stesso e dalle interrogazioni fondamentali che lo riguardano?
Dal punto di vista dell’autocomprensione umana, nulla di nuovo risplende sotto il sole. Come ha rilevato Hans Jonas il senso di gettatezza, di estraneità al mondo, è una condizione che ritroviamo identica nella caduta descritta dalla Genesi e, soprattutto, nella letteratura gnostica. «L’Angoscia» – ironizza Cioran – «era già un prodotto corrente al tempo delle caverne. Ci si figuri il sorriso dell’uomo di Neanderthal, se avesse previsto che un giorno dei filosofi sarebbero venuti a reclamarne la paternità» [43]. L’intento di Heidegger di donare fluidità e temporalità alle categorie filosofiche (anzi, agli esistenziali come li chiama lui), liberandole dalla fissità sostanziale cartesiana, è senz’altro lodevole, tuttavia, viene da chiedersi, a che prezzo si ottiene tutto ciò?
Un libro di filosofia che non si spiega da sé, che richieda continuamente la consultazione d’un glossario esegetico, per quanto profondo ed innovativo possa essere, rischia di fallire in partenza il suo obiettivo. L’Heidegger della svolta, si metterà definitivamente In cammino verso il linguaggio – come recita una sua raccolta di saggi – sovraccaricando la parola d’attributi ancor più spropositati, sconfinanti a tratti nel divino. Ora, con questo non si vuol certo ridimensionare l’importanza di Heidegger, che è stata comunque notevole, ma l’attenzione eccessiva, a tratti feticistica riservata al linguaggio, rischia di traviare il lettore che, al pari dell’ingenuo allievo di quel saggio cinese, finirà per concentrarsi sul dito del maestro, dimentico della luna che con tale gesto gli si voleva indicare. La cosa peggiore è che Heidegger ha fatto scuola, inaugurando una strada che le generazioni successive hanno imboccato a frotte. Così la filosofia accademica da mezzo secolo non fa che riempirsi la bocca di parole come “totalità”, “ontologia”, “antropologia filosofica”; rifugiandosi in problematiche generali e astratte, a discapito della verità e dell’autenticità che permea la comunicazione diretta d’un vissuto personale.
«Quei filosofi che pensano di dire qualcosa parlando continuamente dell’essere, dell’essente, ecc.,. Questo rimuginare prova all’occorrenza che non si tratta né di veri problemi, né d’esperienze, ma di terminologia. Questi pensatori pensano sulle parole, non attraverso le parole» [44].
«Nel libro di Foucault (Le parole e le cose n.d.t), si parla spesso di ‘finitezza antropologica’. Immagino l’effetto che tali formule possono esercitare sui giovani. Evidentemente tutto ciò appare più complicato rispetto a ‘miseria dell’uomo’, ‘l’uomo come animale condannato ’ o ‘la durata infima della storia umana ’. Di tutte le imposture, quella del linguaggio è senza dubbio la peggiore, perché è la meno percepibile dai cretini del nostro tempo» [45].
1.5 Un piccolo Napoleone della filosofia
Altro mostro sacro della filosofia del ′900, touché dal fioretto cioraniano, è stato Jean-Paul Sartre. Romanziere e filosofo à la mode nella Francia del dopoguerra, Sartre fu il classico intellettuale onnivoro. Non un solo campo del sapere o dell’arte sfuggì alla sua insaziabile bulimia conoscitiva: dal romanzo alla canzone, dal teatro alla psicanalisi, dalla critica letteraria al cinema, dal giornalismo alla politica – teorica e militante. Insomma, un écrivain engagé nel senso più estensivo e invasivo del termine.
Nel 1944, durante l’ultimo anno di guerra, Cioran fu un assiduo frequentatore del Café de Flore a Saint-Germain des-Prés – covo per esistenzialisti ed artisti in cerca di fortuna – dove vi si recava quotidianamente come un impiegato «Dalle otto alle dodici, poi dalle due alle otto, e dalle nove alle undici» [46], non tanto per incontrare femmes fatales o intellettuali di grido, quanto, più prosaicamente, «per approfittare del riscaldamento» [47]. Incrociò spesso Sartre, a quel tempo già scrittore affermato, ma, a quanto pare, non si parlarono mai. Certo è che non si possono immaginare due spiriti più antitetici: l’uno impegnato su tutti i fronti, a suo agio in ogni luogo, ideologo à la page e fedele al progresso storico; l’altro flâneur blasé, esule gnostico sulla terra, imbevuto d’amare certezze metafisiche, solitario e squattrinato, ai margini della storia e della società.
Quando Sartre era ancora all’apice della popolarità e pontificava, al pari di Democrito, su tutto lo scibile umano, Cioran gli dedicò – pur senza nominarlo mai – una caustica pagina del suo Précis. Il paragrafo in questione, intitolato sardonicamente Su un impresario d’idee, è un piccolo capolavoro del genere ritrattistico, il cui interesse, tuttavia, va al di là della semplice querelle personale, poiché il brano diventa per Cioran un pretesto per regolare i conti con la filosofia del suo tempo. Sotto il suo sguardo clinico, Sartre diventa un vero e proprio caso [48]:
«Abbraccia tutto, e tutto gli riesce; non vi è nulla di cui non sia contemporaneo. Tanto vigore negli artifici dell’intelletto, tanta facilità nell’abbordare tutti i settori del sapere e della moda – dalla metafisica al cinema – abbaglia, deve abbagliare. Nessun problema gli resiste, nessun fenomeno gli è estraneo, non c’è tentazione che lo lasci indifferente. È un conquistatore, con un solo segreto: la sua mancanza di emozione; non gli costa nulla affrontare qualsiasi cosa, poiché non vi pone alcun accento. Le sue costruzioni sono magnifiche, ma senza sale: poche categorie vi rinserrano delle esperienze intime, ordinate come in uno schedario di disastri o un catalogo d’inquietudini. Vi sono classificate le tribolazioni dell’uomo, così come la poesia della sua lacerazione. L’Irrimediabile è diventato sistema, anzi è passato in rassegna, esposto come un articolo in commercio, vera e propria fabbrica di angosce. Il pubblico lo reclama; il nichilismo da boulevard e l’amarezza degli sfaccendati se ne pascono. Pensatore senza destino, infinitamente vuoto e meravigliosamente ampio, sfrutta il suo pensiero, lo vuole sulle labbra di tutti. Nessuna fatalità sembra perseguitarlo» [49].
Se si occupa del néant o della nausée, Sartre lo fa da teorico, o tutt’al più da romanziere, senza il brivido della vertigine dinanzi a quel gouffre che inghiottiva Pascal e Baudelaire. Privo di tormenti interiori, egli li maneggia tutti, producendoli in serie in laboratorio. Come dire, una fenomenologia in provetta…Qualcuno osò addirittura intitolare un articolo Da Leopardi a Sartre, accostando il tormento autentico d’un poeta di fronte alla transitorietà delle cose, al néant di seconda mano d’un «falsario dotato» [50] come Sartre! Cioran ne rimase letteralmente sconvolto: «Come avesse detto da Gesù a Mauriac» [51]!
A ben guardare, la tanto decantata competenza filosofica – di cui Sartre rimproverava la mancanza a Camus e che egli, evidentemente, riteneva di possedere in abbondanza – diventa agli occhi di Cioran l’ostacolo principale sulla via della realizzazione spirituale. L’eccesso di competenza, la tracotanza epistemologica, diretti come sono verso l’accumulo d’un sapere puramente estensivo e privo di profondità, finiscono per trascurare l’essenziale, vale a dire la formazione umana del sapiente. Tipica di queste machines à penser è la loro natura proteiforme, la mancanza di tenue o di «innere form» [52], come la chiama Cioran, rispolverando il suo tedesco giovanile.
«Il dramma delle persone troppo dotate (Sartre) è che possono abbordare a piacimento qualsiasi genere, che producono per deliberazione, per decisione, che possono diventare qualsiasi cosa, perché in fondo non sono niente» [53].
Annacquando nel marxismo quella summa di «terrori intimi, prossimi all’apocalisse e alla psichiatria» [54], refrattari alla «salute e alla storia» che fu la filosofia dell’esistenza, Sartre tradì la lezione più autentica di Kierkegaard. Grazie all’opuscolo L’esistenzialismo è un umanismo, vero e proprio Vangelo ad uso delle masse scontente, «le néant circule» [55], è sulla bocca di tutti, diventa un articolo corrente.
A dir poco sconcertante fu d’altro canto il presunto “umanismo” di Sartre, che prevedeva l’uso deliberato della menzogna politica. Una gaffe storica, a tal proposito, fu la sua presa di posizione nei confronti delle prime testimonianze dirette sui Gulag sovietici. Sartre, rinverdendo la figura del Grande Inquisitore di Dostoevskij, sostenne che del terrore staliniano non si doveva parlare agli operai francesi – «Il ne faut pas désespérer Bilancourt» – per non far perdere loro la speranza nella rivoluzione comunista.
O l’ingratitudine e la mauvais foi di Sartre nei confronti di Louis Ferdinand Céline: ammirato e adulato prima della guerra – in esergo alla Nausea compare infatti una citazione tratta da l’Eglise, e alla prima di Les mouches, «sotto lo stivale nazista», ne aveva implorato l’applauso al termine della pièce – preso a sassate, vilipeso e calunniato a mezzo stampa durante la caccia alle streghe collaborazioniste [56], quando Céline era recluso in Danimarca. A Sartre, commenta ironicamente Cioran, è riuscita l’imitazione di Heidegger, ma non quella di Céline: «la contraffazione è più facile in filosofia che in letteratura» [57].
Come si evince da questi episodi i dardi avvelenati di Cioran avevano ancora una volta colto nel segno. Tuttavia, col passare degli anni, il destino si divertirà a ribaltare in parte le sorti. Cioran conoscerà in tarda età – e suo malgrado – quello che ebbe a definire «un successo umiliante» mentre Sartre, dopo aver accumulato una sconfitta dietro l’altra, sparirà lentamente dalle scene, trascurato e messo in naftalina come un abito démodé, da quello stesso pubblico che un tempo lo osannava. La disfatta esemplare di Sartre stemperò in Cioran l’acredine e i rancori d’un tempo, muovendolo addirittura ad una certa compassione nei confronti di quel vecchio filosofo semicieco che, al pari d’un generale decaduto, si avviava ormai verso un mesto esilio, circondato dai fantasmi delle idee che aveva suscitato. In qualità di raté, Sartre non poteva che conquistarsi la benevolenza postuma di Cioran.
«Un piccolo Napoleone del pensiero. Credeva di dominare il mondo coi suoi concetti. Ma il mondo seguiva il proprio corso, senza preoccuparsi di lui. Provo tuttavia una certa simpatia nei suoi confronti – non fosse altro che per lo scacco grandioso dei suoi sogni di potenza» [58].
1.6 Addio alla filosofia
Una volta smaltita la sbornia filosofica, ci si allontana dalle sue menzogne e dai suoi imbonitori con la competenza del disgusto e l’irreversibilità della delusione, forti della convinzione che non vi si ricadrà mai più. Se un sottile piacere si accompagna sempre alla consapevolezza di non essere più filosofi [59], è altrettanto vero che negli spiriti più raffinati, – e Cioran è tra questi – all’abbandono d’un sapere così esclusivo si accompagna sempre un rimpianto particolare, dal sapore vagamente parigino: la filosofia, rispetto ad esempio alla letteratura, gode infatti, per sua natura, dell’indubbio privilegio di sfuggire alla banalità del pettegolezzo mondano, ovvero «di non essere accessibile ai giornalisti e alle casalinghe» [60].
Dopotutto l’essersi abbandonati alle «bassezze del concetto» – quantunque dal punto di vista spirituale non abbia comportato alcun progresso – ha contribuito perlomeno ad affinare il nostro fiuto, ad acuire la nostra diffidenza. Senza questa discesa agli inferi accademici, avremmo mai potuto liberarci dall’illusione del sapere? Ora, se non altro, siamo consapevoli che nei momenti critici non dovremo fermarci a bussare alla porta della filosofia, ma potremo passare tranquillamente oltre, cercando magari conforto presso «un vecchio appestato, un poeta istruito su tutti i deliri e un musicista di cui il sublime trascende la sfera del cuore» [61].
«Il mondo dei pensieri, in confronto a quello dei sospiri, non è che illusione. Nessun filosofo può consolarci poiché non possiede abbastanza destino per comprenderci. E tuttavia gli uomini cercano la loro compagnia perché s’immaginano, per un’illusione sospetta, di poter essere consolati dalla conoscenza. Sapere e consolazione non si incontrano mai. A coloro che hanno bisogno di consolazione, i filosofi non hanno niente da proporre. In una parola: ogni filosofia è un’attesa delusa» [62].
Se Heidegger poteva, da parte sua, accusare la scienza di non pensare – «Die wissenschaft denkt nicht» -, Cioran, altrettanto giustamente, rinviene nella stessa filosofia, intesa come professione, una desolante assenza di vita: «Incominciamo a vivere realmente solo alla fine della filosofia, sulla sua rovina, quando abbiamo compreso la sua terribile nullità, e quanto inutile sia stato ricorrere ad essa, poiché non ci è di alcun aiuto» [63].
Insomma, la filosofia? «Un trucco prestigioso» [64].
NOTE:
[1] Søren Kierkegaard, Diario 1840-1847, vol. III, Morcelliana, Brescia, 1980, n. 1192, p. 185.
[2] Blaise Pascal, Frammenti, Bur, Milano, 1983, p. 154.
[3] Ştefan Baciu, Un professeur de l’enseignement secondaire nommé Emil Cioran, in Cahier L’Herne Cioran, Éditions de l’Herne, 2009, pp. 145-149. La parentesi scolastica è rievocata in E. M. Cioran, Entretiens, Gallimard coll. Arcades, Paris, 1995, pp. 135 e 292.
[4] E. M. Cioran, Entretien avec Michael Jakob, in Entretiens, Paris, Gallimard coll. Arcades, 1995, p. 292.
[5] E. M. Cioran, Précis de décomposition, in Oeuvres, Paris, Gallimard, coll. «Quarto», p. 726. Tutti i riferimenti alle opere di Cioran sono tratti da questa edizione, salvo dove diversamente riportato. Le traduzioni sono dell’Autore.
[6] Ibidem, p. 727.
[7] Ibidem, p. 623.
[8] E. M. Cioran, Livre des leurres, p. 230.
[9] Ibidem. Nel Précis de décomposition del 1949 – per certi versi un compendio in lingua francese, rielaborato stilisticamente, dei suoi libri romeni – ritroviamo, quasi nei medesimi termini, l’identico discorso: «Più o meno tutti i filosofi sono finiti bene: è l’argomento supremo contro la filosofia. La fine stessa di Socrate non ha niente di tragico: è un malinteso, la fine d’un pedagogo, – e se Nietzsche è sprofondato, è stato come poeta e visionario: ha espiato le sue estasi e non i suoi ragionamenti […] Si è sempre impunemente filosofi» in Précis de décomposition, pp. 622-623.
[10] E. M. Cioran, Des larmes et des saints, p. 299.
[11] E. M. Cioran, Sur les cimes du désespoir, p. 32.
[12] E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 622.
[13] E. M. Cioran, Écartèlement, p. 1443.
[14] Cicerone, Tuscolane, III, 6, Bur, Milano, 1997, p. 267.
[15] E. M. Cioran, De l’inconvénient d’être né, p. 1294.
[16] E. M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, p. 751.
[17] «La cattedra è lo spirito in lutto», E. M. Cioran in De l’inconvénient d’être né, p. 1384.
[18] E. M. Cioran, Crépuscule des pensées, pp. 360-361.
[19] E. M. Cioran, Cahiers 1957-1972, Gallimard, 1997, p. 348.
[20] E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 623.
[21] E. M. Cioran, Livre des leurres, p. 234.
[22] E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 652.
[23] E. M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, p. 749.
[24] E. M. Cioran, Précis de décomposition, pp. 622-623.
[25] Blaise Pascal, Frammenti, p. 113: «La scienza delle cose esteriori non mi consolerà dell’ignoranza della morale nel tempo dell’afflizione, ma la scienza dei moti del cuore mi consolerà sempre dell’ignoranza delle scienze esteriori».
[26] E. M. Cioran, Cahiers, p. 296.
[27] E. M. Cioran, Crépuscule des pensées, p. 374.
[28] Ivi.
[29] Ibidem, p. 375.
[30] Søren Kierkeegaard, Postilla conclusiva non scientifica in Opere, Sansoni, Firenze, 1993, p. 365.
[31] E. M. Cioran, Crépuscule des pensées, p. 348. In Écartélement ribadirà: «Non si saprà mai se, in ciò che scrive sul Dolore, quel filosofo tratti d’un problema di sintassi o della prima, della regina delle sensazioni», Op. cit., p. 1473.
[32] E. M. Cioran, Crépuscule des pensées, pp. 346-347.
[33] E. M. Cioran, Aveux et anathèmes, p. 1656.
[34] E. M. Cioran, Cahiers, p. 48.
[35] Søren Kierkeegaard, Opere, p. LIV.
[36] E. M. Cioran, Livre des leurres, p. 230.
[37] E. M. Cioran, De l’inconvenient d’être né, p. 1364.
[38] E. M. Cioran, La tentation d’exister, pp. 925-926.
[39] E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 663.
[40] E. M. Cioran, Écartélement, p. 1488.
[41] E. M. Cioran, Aveux et Anathèmes, p. 1647.
[42] E. M. Cioran, Entretiens, p. 216.
[43] E. M. Cioran, Syllogismes de l’amertume, p. 757.
[44] E. M. Cioran, Cahiers, p. 159.
[45] Ibidem, p. 502.
[46] E. M. Cioran, Entretiens, p. 183.
[47] P. Bollon, Cioran. L’hérétique, Gallimard, p. 126.
[48] Nella prima stesura del Précis, Le cas Sartre era appunto il titolo del brano in questione, ora in E. M. Cioran, Exercices négatifs. En marge du Précis de décomposition, Édition, avec postface, établie et annotée par Ingrid Aster, Éditions Gallimard, 2005, pp. 14-17.
[49] E. M. Cioran, Précis de décomposition, pp. 731-732.
[50] E. M. Cioran, Cahiers, p. 498.
[51] Ibidem, p. 973.
[52] Ibidem, p. 592.
[53] Ibidem, p. 328.
[54] E. M. Cioran, Exercices négatifs, p. 15.
[55] Ibidem, p. 17.
[56] «Se Céline ha potuto sostenere le tesi socialiste dei nazisti, lo ha fatto perché pagato» cit. in Jean-Paul Sartre, Reflexions sur la question juive, 1954, Gallimard, 1954, p. 48.
[57] E. M. Cioran, Cahiers, p. 634.
[58] P. Bollon, Cioran. L’hérétique, pp. 22-23.
[59] E. M. Cioran, Crépuscule des pensées, p. 348.
[60] Lettera ad Aurel Cioran del 25 novembre 1979.
[61] Vale a dire: Giobbe, Shakespeare e Bach, cit. in E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 623.
[62] E. M. Cioran, Livre des leurres, p. 231.
[63] E. M. Cioran, Précis de décomposition, p. 623.
[64] E. M. Cioran, Écartélement, p. 1488.
* Massimo Carloni, studi in scienze politiche e filosofia all’Università di Urbino. Ha dedicato diversi studi a Cioran, pubblicati in volumi collettanei e in riviste internazionali. Ha realizzato il progetto editoriale per la traduzione italiana del libro di Friedgard Thoma, Per nulla al mondo. Un amore di Cioran (éd. l’Orecchio di Van Gogh, 2009). Libri di prossima pubblicazione: edizione italiana delle lettere di Cioran al fratello (con H.- C. Cicortaş, Archinto, Milano, 2014), a Wolfgang Kraus (con Pierpaolo Trillini, Bietti, Milano, 2014), e la corrispondenza Eliade-Cioran (con H.- C. Cicortaş, 2015).
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14 novembre 2013 alle 18:11
Ho apprezzato questi pensieri. La descrizione del “professore” mi è giunta come una eco di Nietzsche: “Sono uscito dalla casa dei dotti e ho sbattuto la porta alle mie spalle. Io son reso ardente dai miei pensieri e allora bisogna che fugga via dal chiuso di stanze polverose. Voi invece sedete freddi nell’ombra fredda e vi guardate bene dal posarvi dove il sole arde i gradini. Come chi in mezzo alla strada guarda i passanti così voi, a bocca spalancata, aspettate e guardate pensieri che altri hanno pensato. Alle vostre voci è mischiato un odore che sembra venir dalla palude, e in verità udii gracidar le rane!”. Quanto alla filosofia per conto mio sono ingenuo e ne ho fiducia. Tanta è la fede da farmi dubitare sulla bella metafora di Kierkegaard in apertura dell’articolo: che razza di filosofo è uno che non “abita” la propria visione del mondo considerando per di più che ha dedicato la sua vita nel metterla a punto? Non valeva, in quel caso, adattarsi al fienile di tutti, senza innalzare castelli o cattedrali, e utilizzare il tempo per spassarsela? D’altra parte, per capire la condanna che dà Cioran, occorre mettersi d’accordo su cosa sia la filosofia. Cioran respinge le nostre fantasie teoriche ma lo fa da filosofo, come si dimostrerà nella “pars costruens”, nel senso che lo fa alla luce di una chiara intuizione sulla vita. O no? Grazie e un saluto
15 novembre 2013 alle 19:28
Grazie per l’apprezzamento e per la bella citazione di Nietzsche. Certo, occorre intendersi sul significato di filosofo e di filosofia, tuttavia è innegabile che, da un certo punto in poi, diciamo da Cartesio, la filosofia è diventata essenzialmente speculativa, tralasciando l’aspetto esistenziale e della saggezza del vivere. Senza i vari Pascal, Kierkegaard, Nietzsche e Cioran, penso che il problema non sarebbe stato posto. Tuttavia, l’uso invalso del termine filosofia è relegato a un ambito specialistico del sapere, con tanto di linguaggio tecnico, laurea, e via dicendo. E’ questa istituzionalizzazione accademica ad essere contestata e demolita, tanto fredda da apparire fine a se stessa e pressoché inutilizzabile. Nei Cahiers di Cioran a un certo punto si legge (traduco dal francese): “Si dice di Heidegger: ‘Ha fatto questo e quest’altro. E’ imperdonabile da parte di un filosofo’ – “Di un saggio”, occorrerebbe dire. Ora Heidegger non è un saggio, né pretende di esserlo”. Ecco direi che per intenderci, dovremmo iniziare ad usare termini diversi. Filosofia e saggezza, purtroppo e sottolineo purtroppo, da diversi secoli hanno preso strade diverse. Nello spazio che si è venuto a creare si sono inserite a frotte le psicoterapie. Per la Grecia antica e per l’Oriente in genere, ciò è inconcepibile. Anticipo che nella “pars costruens”, si fa per dire, Cioran parte da una saggezza antica riconducibile in sostanza a quel “tò pàthei mathos”di eschilea memoria, ma confermata anche dal Buddha. Grazie ancora e ricambio il saluto. Alla prossima.
15 novembre 2013 alle 23:23
Condivido tutto ma vorrei cincischiare un po’ su quel dettaglio che mi pare ancora più chiaro. Questo è il dettaglio: mi lascia perplesso che si divida filosofia e saggezza (“purtroppo”) spezzando l’antico vincolo fra filosofia teoretica e filosofia morale.
La Stoa dava un senso al suo eroismo adottando la fisica di Eraclito mentre a Epicuro faceva comodo la fisica di Democrito
per dare forza al suo ideale. Insomma mi lascia perplesso una saggezza che abbia radice solo nel pathos e non in una
conoscenza seppur intuitiva del mondo. Il principe Siddharta, qui accanto, fa cenno di sì. Ma anche Cioran mi sembra d’accordo quando, con un atto supremo di verità, sancisce il privilegio degli attimi della vita rispetto alle nostre parole e alle nostre teorie. Oppure quando fonda la mistica sui significati dicendo così: “La morte è il principio che dà senso alla vita e ci dà la vertigine
per sollevarci al di sopra di noi stessi. Tutto è niente. Questa è la grande scoperta se mai ve ne furono. Così comincia la mistica.
Tra il niente e Dio c’è meno di un passo perché Dio è l’espressione positiva del niente.”. Ma mi sto trastullando con le parole.
Basta dire che anche questo appartiene alla Saggezza anziché alla Filosofia ed ecco che per incanto diciamo la stessa cosa. Arrivederci.
Giuseppe Roncoroni