> di Daniele Baron
2. Usque ad mala
«Quando Nietzsche annuncia che Dio è morto, significa che Nietzsche deve necessariamente perdere la propria identità. Poiché quel che qui viene presentato come catastrofe ontologica corrisponde esattamente al riassorbimento del mondo vero e apparente da parte della favola: nel cuore della favola vi è una pluralità di norme o piuttosto non v’è nessuna norma che sia propriamente tale, poiché il principio stesso dell’identità responsabile è ad essa, in senso proprio, sconosciuto finché l’esistenza non si è esplicata o rivelata nella fisionomia di un Dio unico che, in quanto giudice di un io responsabile, strappa l’individuo ad una pluralità in potenza.
Dio è morto non significa che la divinità cessa di essere una spiegazione dell’esistenza, ma piuttosto che il garante assoluto dell’identità dell’io responsabile svanisce dall’orizzonte della coscienza di Nietzsche il quale, a sua volta, si confonde con questa scomparsa»[1]
Al paradigma del “divenire come Dio” in età contemporanea si sostituisce quello diametralmente opposto della “morte di Dio”, la loro opposizione misura la distanza tra l’epoca passata e quella presente.
La morte di Dio annunciata da Nietzsche in Die fröhliche Wissenschaft[2], se interpretata come fa Pierre Klossowski in questo passo e negli altri suoi scritti come fine dell’Io responsabile identitario, può essere letta sia come possibile spiegazione dell’evento tragico che ha colpito il filosofo tedesco (la sua follia), sia come verità a contrario del mito della Genesi. Dio è dunque la proiezione dell’Io o soggetto e garante della distinzione del bene e del male, la morte di Dio implica la fine dell’Io e un’esistenza al di là del bene e del male. Da qui nasce la vertiginosa condizione dell’uomo contemporaneo, erede di una tradizione nuova che scardina il racconto biblico dell’origine e del peccato. Bisogna concepire dunque la morte di Dio come la fine del soggetto identitario, come la fine della fiducia illuministica nella ragione che può, se ben guidata, rendere l’uomo pari a Dio, fine anche della fiducia nel progresso e nella perfettibilità delle facoltà umane, e come apertura di un’epoca in cui il trascendente sembra svanire. Ogni teleologia non pare più fondata, ogni fine sembra naufragare e parimenti la finitezza non è più decadimento rispetto a una condizione migliore e più o meno raggiungibile, bensì semplice contingenza, presenza senza fondamento, incompiutezza definitiva.
Questa è stata anche battezzata perciò come epoca del nichilismo, perché non più in grado di creare valori e visioni del mondo condivisibili in modo universale.
Dio garante dell’Io, Io che si proietta in Dio. Se l’interpretazione di Klossowski è corretta, come penso che sia, la morte di Dio implica dunque la fine della soggettività moderna. Nietzsche anticipa con questa profetica intuizione l’epoca a lui successiva, nella quale il nuovo compito per il pensiero è di trovare fondamento in una soggettività differente, di creare una nuova soggettività che sia aperta all’alterità del divenire, a tutto ciò che l’identità sostanziale dell’Io aveva messo a tacere. Di conseguenza, anche il rapporto con l’altro e il pensiero sul vivere insieme, sulla comunità, devono costituirsi a partire da un differente presupposto, tutta la teoria dello stato di natura deve essere ripensata radicalmente.
Se l’uomo si ostina a voler essere come Dio, trovando il punto di contatto tra la propria condizione mortale e quella divina proprio nella conoscenza del bene e del male, allora non può essere altro che una passione inutile, come giustamente Sartre rilevava. La passione inutile dell’uomo è parodia della passione di Cristo che si fa vero mediatore, facendosi carne, tra Infinito e finito. Infatti, l’uomo non può essere causa del proprio essere, può solo desiderarlo.
«Ogni realtà umana è una passione, in quanto progetta di perdersi per fondare l’essere e per costruire contemporaneamente l’in-sé che sfugge alla contingenza essendo il proprio fondamento, l’Ens causa sui, che le religioni chiamano Dio. Così la passione dell’uomo è l’inverso di quella di Cristo, perché l’uomo si perde in quanto uomo perché Dio nasca. Ma l’idea di Dio è contradditoria e ci perdiamo inutilmente; l’uomo è una passione inutile»[3].
In che senso e in che modo il mito dell’origine può farci comprendere la nostra epoca, che per molti versi sembra contrapporsi ad esso? Possiamo oggi fare a meno del mito dell’origine o esso ha ancora qualcosa da insegnarci?
Poiché il concetto della morte di Dio (per essere esatti, la constatazione che “Dio è morto”) esprime il significato inverso rispetto al biblico “diventare come Dio”, poiché, nello specifico, un tempo era l’uomo a divenire come Dio, a innalzarsi al di sopra di sé verso un trascendente dato, mentre oggi Dio, sparendo dall’orizzonte, consegna il mondo alla immanenza e forzando un po’ il senso dell’avvenimento si può giungere ad asserire che Dio morendo diviene mortale come un uomo, si fa uomo perdendo, a differenza di Cristo, la natura divina; poiché in ultima analisi origine e fine si rapportano come due opposti, allora io penso che le interpretazioni dell’origine siano ancora importanti per la nostra epoca e che non possiamo prescindere da esse.
Se pretendiamo di fare tabula rasa di tutte le esegesi passate riguardanti l’origine, siamo ingenui e dimentichiamo colpevolmente che, se Dio è morto oggi, ciò non toglie che per lungo tempo “è esistito”, imponendo la propria norma. Corriamo il rischio anche di presentare come nuove concezioni vecchie come la storia del mondo o di cadere in trappole che la consapevolezza del mito dell’origine ci avrebbe evitato.
«Dopo che Buddha fu morto, si continuò per secoli ad additare la sua ombra in una caverna – un’immensa orribile ombra. Dio è morto: ma stando alla natura degli uomini, ci saranno forse ancora per millenni caverne nelle quali si additerà la sua ombra. – E noi – noi dobbiamo vincere anche la sua ombra!»[4].
Ha ragione Nietzsche nel rilevare che se Dio è morto gli uomini devono ancora fare i conti con la sua ombra che impedisce alla luce radiosa della nuova aurora di splendere. La consapevolezza dell’origine, di cosa ha comportato il momento genetico dell’Io e dunque di Dio (essendo i due termini in stretta e necessaria correlazione) può guidarci per intendere appieno il movimento opposto della disgregazione dell’identità dell’Io e della declinazione al passato del divino.
L’interpretazione dell’origine ci permette di mostrare come l’ombra si proietti in innumerevoli modi, di additare l’ombra come tale e perciò smascherarla. Se ne possono individuare essenzialmente tre.
In primo luogo, l’ombra si proietta mediante la sopravvivenza di categorie teologiche, che continuano ad agire nonostante manchi loro il fondamento, difetti la loro giustificazione ultima, il loro senso: si tratta di tracce, impronte, del trascendente nell’immanente, che permangono in assenza ormai di Colui che le ha lasciate. Si rischia di utilizzare questi concetti come un dato di fatto, significativo di per sé, senza più comprendere da dove derivino, senza più tentare la loro genealogia, senza conoscere più la loro storia, senza più comprendere che, se in passato avevano un senso preciso in rapporto al trascendente, ora perdendo tale rapporto, perdono anche il loro senso e la loro giustificazione. Un esempio tra tanti che si potrebbero proporre: il concetto di colpa collegato alla nostra finitezza, di colpa innata pertanto. Se non crediamo più al peccato originale, se consideriamo impossibile l’ereditarietà della trasgressione all’ordine divino del primo uomo, se la reputiamo una sorpassata concezione metafisica, allora non ha più senso l’utilizzo – oggi assai frequente, nonostante tutto – di tale nozione in riferimento alla condizione umana.
In generale, ogni pensiero che riproponga acriticamente concetti di chiara ascendenza teologica si configura come una teologia senza Dio che gioca più o meno in malafede sul fatto che le categorie che tratta vengono percepite dai lettori come importanti, interessanti, senza che si riesca più a comprendere il motivo della loro importanza, vale a dire il fondamento trascendente. Nell’immanenza le categorie teologiche continuano a funzionare, ma solo al prezzo di occultare le loro radici.
In secondo luogo, l’ombra di Dio continua a proiettarsi nel momento in cui il trascendente risorge come totalità, assumendo nuovi nomi. Dio nella nostra epoca è stato semplicemente spodestato, ma altri idoli con nomi differenti prendono il posto vacante nella coscienza umana: l’Uomo, l’Umanità, la Storia, la Scienza, la Tecnica, il Mercato, ecc. A conti fatti, il divenire come Dio non è venuto meno, Dio ha cambiato unicamente nome, sono state innalzate nuove divinità trascendenti come ideali da raggiungere e come garanzie dell’identità dell’Io.
Infine, l’ombra di Dio e la dimenticanza dell’origine possono agire in questo terzo modo: può accadere che la liberazione dal trascendente causi un facile entusiasmo e che venga tratteggiato un nuovo stato di natura con condizioni ideali di vita che ricordano da vicino l’Eden; si può arrivare a pensare, ingenuamente, che la semplice scoperta della morte di Dio sia sufficiente a far ritornare l’uomo in una condizione di armonia, di pace, con sé e con gli altri, che l’uomo possa tornare magicamente innocente e vivere in condizioni essenzialmente buone e felici, affidandosi all’istinto o a sentimenti non più sotto la sorveglianza della ragione, perché ritenuti intimamente buoni. In questa occorrenza, si riprende senza saperlo l’origine, si immagina di poter tornare ad una vita prima della conoscenza del bene e del male, prima del peccato originale. Oggi dunque non siamo affatto immuni dalla nostalgia dello stato di innocenza che coincide con l’infanzia nello sviluppo evolutivo dell’uomo e con lo stato di natura dal punto di vista dei rapporti sociali. L’entusiasmo per la liberazione dal trascendente è comprensibile: l’innocenza del divenire esplica tutta la propria potenza una volta superata la tradizionale separazione tra essere e non-essere; tuttavia, non bisogna essere ingenui e pensare che tale liberazione si traduca immediatamente e per incanto in una condizione reale di vita per l’uomo; non bisogna dimenticare che questo è solo un inizio di un lungo cammino per il pensiero.
In conclusione, “Dio è morto” significa, dunque, che l’Io tradizionalmente concepito come identità sostanziale è venuto meno e che s’impone la necessità di creare una nuova soggettività, aperta al divenire, che si emancipi finalmente dall’ombra di Dio attraverso la contezza di ciò che lascia alle spalle, forse in modo definitivo.
NOTE:
[1] P. KLOSSOWSKI, Nietzsche, il politeismo e la parodia, SE, 1999 Milano, pp. 46-47.
[2] Cfr. F. NIETZSCHE, La giaia scienza e gli idilli di Messina, Adelphi, 1999 Milano. In particolare viene annunciata in questi tre aforismi: 108 (Nuove battaglie), 125 (L’uomo folle), 343 (Quel che significa la nostra serenità). Cfr. F. NIETZSCHE, op. cit. p. 148, pp. 162-164, pp. 251-252.
[3] J.-P. SARTRE, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, 1997 Milano, p. 682.
[4] F. NIETZSCHE, op. cit. p. 148.
[Fine]
[Clicca qui per il pdf]
5 gennaio 2014 alle 10:22
Leggere, riportare le cose alla lettera, fare citazioni, sono tutte cose, ai miei poveri occhi, che creano solo tanta retorica. Portano ad un processo cervellotico grazie al quale si perde di vista la sostanza. Questo perché la sostanza si conosce poco. L’errore di base sta nella mancanza di interdisciplinarità del sapere umano. Scrivere di filosofia conoscendo poco la storia – specie la storia religiosa nella sua sostanza (Vico diceva che la vera conoscenza sta nel “sentire” le cose e vivere con esse) – porta a risultati zoppi o semivuoti riempiti alla bell’e meglio di chiacchiere, pur sontuose. Le cose, per la loro lunga storia psicologica, sono molto più complicate di quel che possa sembrare. Parlare della morte di Dio e non accennare al fenomeno borghese e materialista prodotto dalla rivoluzione industriale e dalla rivoluzione francese, con tanto di religione in crisi, come riferimento di massima, non può che causare un flatus voci, un arrampicarsi sugli specchi, evidentemente con tanta voglia di farlo, dati i risultati di questi articoli assai vicini alla logorrea. Dico tutto questo per rispetto del pensiero umano, una cosa grande miniaturizzata dalla scuola (ovvero da chi la manipola per “innocente” protagonismo). Se le mie osservazioni vi irritano, evitate pure di reiterare gli invii. Che Dio, pur da morto, ve la mandi buona!
5 gennaio 2014 alle 14:49
Gentile sig. Lodi purtroppo le mie povere forze non sono in grado di raggiungere le menti eccelse che hanno in testa tutta la storia universale umana, ivi compresa la storia delle religioni, della Patristica e della Scolastica, della filosofia, della psicologia, della storia della rivoluzione industriale e materialista, della Rivoluzione Francese e perciò ahimé mi devo limitare a quello che conosco bene. Povero me, io credevo che si potesse decidere di parlare dell’inizio e della fine, dando per assodate alcune cose, prendere spunto dalla storia del pensiero filosofico per fare delle considerazioni concettuali specifiche e non potevo immaginare che per parlare della “morte di Dio” si dovessero produrre le prove della propria conoscenza della storia generale, della rivoluzione industriale, del taylorismo e della Rivoluzione Francese! Non pensavo, povero me, che la scuola che ho seguito fosse una semplice ricreazione, una retorica, rispetto alle sue lezioni ex cathedra. Ignoravo che fosse un delitto “leggere, fare citazioni”, ma ho le mie scusanti perché ancora non sapevo che “le cose sono molto più complicate di quanto possa sembrare”!
Purtroppo lei non ha ascoltato il mio consiglio della scorsa volta di non leggere la mia seconda parte che sapevo già in anticipo l’avrebbe delusa. Se non desidera più ricevere “invii” la invito a cancellare l’abbonamento al nostro sito, o esclusivamente ai miei articoli, come preferisce, di modo che con grande rispetto, per riprendere il suo finale, io possa dirle di andarsene con Dio!
6 gennaio 2014 alle 09:17
Grazie Daniele, letto con molto piacere.
“L’entusiasmo per la liberazione dal trascendente è comprensibile: l’innocenza del divenire esplica tutta la propria potenza una volta superata la tradizionale separazione tra essere e non-essere; tuttavia, non bisogna essere ingenui e pensare che tale liberazione si traduca immediatamente e per incanto in una condizioni reali di vita per l’uomo; non bisogna dimenticare che questo è solo un inizio di un lungo cammino per il pensiero.”
Pare che sia proprio il secolo d’una filosofia deleuziana, come ha profetizzato Foucault.
6 gennaio 2014 alle 13:51
Grazie Michele per la tua lettura e per l’apprezzamento.
Penso anche io che il pensiero di Deleuze abbia aperto nuovi orizzonti per la riflessione e per la filosofia e che la profezia di Foucault sia sostanzialmente esatta.
Anche se non ne ho parlato nell’articolo (potrebbe essere un’idea per un possibile ulteriore sviluppo) il concetto della morte di Dio legato alla fine dell’Io responsabile teorizzato da Klossowski ed apertura al divenire è ripreso e presente nell’opera di Deleuze (ad esempio in “Logica del senso”, in “Nietzsche e la filosofia”, ma non solo).
Un caro saluto
25 gennaio 2014 alle 21:59
Scusa per il ritardo, la seconda parte mi era sfuggita. Testo molto bello, ricco di spunti. Alle spalle, immancabile, Dostoevskij. Grazie
25 gennaio 2014 alle 22:47
Grazie a te Valeria per la lettura, sono davvero molto felice che il testo ti sia piaciuto e che tu lo abbia trovato stimolante.
L’immenso Dostoevskij, anche se qui non viene tematizzato, è di certo un presupposto indispensabile per questo tema. E’ colui che meglio di tutti ha saputo sentirlo e rappresentarlo.
Un caro saluto