> di Gianfranco Bosio*
Da qualche tempo non si sentiva più tanto parlare di “pensiero debole”, di “postmodernità” e simili, o meglio, tutto quello che se ne diceva e se ne scriveva passava inosservato. La moda che con tanto entusiasmo e con tanta invasività aveva fatto irruzione nella pubblicistica filosofica italiana dei nostri giorni, fino al suo arrivo trionfale sui palcoscenici massmediatici dei vari “festival” della filosofia italiana, sembrava essere entrata in una fase di stanca e di riflusso. Meno male che ci ha pensato Maurizio Ferraris con il suo Manifesto del nuovo realismo, i cui principi sono apparsi per la prima volta sul quotidiano “La Repubblica” (8 agosto 2011). L’esposizione completa è del 2012. E’ stato più di un sasso gettato nello stagno. Ha prodotto un vero sconquasso.
Tutto si è rianimato e i discorsi sui benefici di liberazione e di emancipazione del “postmodernismo” e del “pensiero debole” sono risorti e rifioriti come per incanto. Se fossi un “complottista” mi verrebbe da pensare che le due parti in contesa si siano messe d’accordo, fingendo di litigare per poi spartirsi le glorie della scena editoriale e della ribalta della cultura (un po’ come fanno anche i politici, che però si spartiscono molto di più). Ma cerchiamo di procedere con ordine. Da quando nel 1979 nel suo celebre pamphlet intitolato La condition postmoderne Jean François Lyotard dichiarò che l’epoca più che millenaria delle “grandi narrazioni” è ormai giunta alla fine perché le ultime ideologie, e specialmente il materialismo storico, eredi delle grandi sistematiche filosofiche del passato sono ora definitivamente tramontate. Il presente non riesce a farci assistere ad altro che ad un susseguirsi di “distruzioni” della modernità, dei suoi idoli, delle sue certezze, dei suoi ideali. La filosofia ermeneutica di Gadamer (peraltro del tutto incolpevole delle derive “postmodernistiche”), le “genealogie” di Foucault, il “decostruzionismo” di Derrida, con il robusto appoggio della “svolta linguistica” della filosofia analitica anglosassone e del “pragmatismo edificante” di Richard Rorty, si sono fatti banditori di un nuovo verbo e di una nuova “vulgata”. Prendendo le mosse dalla famosa sentenza di Nietzsche secondo la quale non esistono fatti ma solo interpretazioni (ma propriamente Nietzsche scrive in Al di là del bene e del male: “non esistono fatti morali ma soltanto interpretazioni morali dei fatti” e questo cambia qualcosa). La “Verità”, la “Ragione”, il “Progresso”, ecc., sono soltanto fantasmi e proiezioni “fondazionistiche” della vecchia metafisica, idoli posticci della ricerca di un’oggettività che possa fungere da polo di riferimento obbligato per ogni ricerca seria e per ogni impegno filosofico ispirato agli ideali della conquista del consenso e dell’intesa affrancata da ogni interesse di parte e di dominio (Apel e Habermas, loro sì, poveretti devono ritirarsi del tutto negletti e inascoltati).
A questo punto la parte del “mattatore” la fa proprio il “pensiero debole”, con la sua tesi capitale “la metafisica è violenza”, imposizione di razionalità o comunque di “assoluti”, di una “volontà di verità” che altro non è, nietzscheanamente, che maschera dissimulata di una “volontà di potenza”. Il pensiero “violento”, “autoritario” della “ragione” tradizionale, fatto ancora valere dall’Illuminismo, dal Romanticismo, e perché no, perfino dal materialismo storico (ma quest’ultimo è trattato con un po’ più di indulgenza), si ancora stabilmente alle “categorie forti” dell’essere, vale a dire “verità”, “unità”, “superamento delle contraddizioni”, movimento verso un fine e un significato della storia, e simili. Ora tutto deve essere rovesciato da cima a fondo. Le vere categorie non saranno più quelle “forti”, ma quelle deboli: transitorietà, divenienza, evenemenzialità (dal francese évenement) del momento, fantasia, liberazione del potenziale simbolico del desiderio (cfr. i vari Deleuze e Guattari), indifferenza e indistinguibilità fra ciò che appartiene alla natura e ciò che è prodotto della cultura. Va perseguito l’”antifondazionalismo” spinto alle estreme conseguenze. Non ci sono più certezze valide cui ancorarsi per salvarsi dai naufragi del pensiero, ma solamente le interpretazioni vincenti del momento, quelle che ottengono il consenso conquistandosi gli spazi editoriali, i dibattiti televisivi, le arene dei festival della filosofia, insomma il mondo dello spettacolo. Una vernice di nobiltà però non può né deve mancare: la pietas per il passato, la conservazione, la cura e il culto delle opere d’arte, dei monumenti e dei documenti che hanno costruito e fatto grande la nostra civiltà occidentale. E questo addolcisce il “declino” e tempera l’amarezza della conclamata “ontologia del declino” (Vattimo), con una vena di rassegnata nostalgia. Il “debolismo” non conosce, anzi rifiuta espressamente ogni “struttura” che stia a fondamento di “interpretazioni”. Vale soltanto la “struttura” che l’”interpretazione” più convincente avrà saputo indicare. E’ un bene che la vita etica e sociale si ispiri e si modelli sul “consumismo” e tenda al godimento senza tante preoccupazioni di tracciare un confine tra il lecito e l’illecito, fra ciò che è naturale e ciò che potrebbe apparire invece perverso. Al massimo i limiti della decenza e della tollerabilità sono posti dal buon gusto e dalla democrazia. Il “debolismo” è la filosofia ideale dell’esteta colto e raffinato che, per quanto riguarda l’etica esorta alla cura dei valori della tolleranza e della solidarietà. Ben a ragione Zygmunt Bauman definisce l’età postmoderna come l’età della “società liquida”, perché in essa tutto si scioglie e si liquefa, tutto si fa inconsistente, dai legami sociali e affettivi all’arte, alla coscienza religiosa e alla filosofia, mentre si ingigantiscono i valori dell’economia e del profitto. Nessuna meraviglia che contro tutto questo culto della décadence si sia levata la voce di qualcuno che ha proclamato la necessità di ritornare a guardare in faccia alla “realtà”, perché c’è una “realtà forte” che “resiste”, e dunque “esistenza” significa “resistenza”; c’è una realtà che non è fatta solo di interpretazioni. In economia è il debito pubblico, in politica l’arroganza, l’incompetenza, la rapacità, la mendacità e la venalità dei politici e dei partiti, tanto di governo quanto di opposizione; nel panorama mondiale l’avvelenamento progressivo del pianeta Terra da parte di una tecnica folle, irresponsabile che crea solo ingordigia del profitto e che è pure sostenuta da una scienza miope e piena di supponenza; nel mondo sociale la realtà è fatta dalla disoccupazione, dai dissesti affettivi ed emozionali delle coppie, dalla stortura, dalla falsità, dalla corruttibilità e dalla fondamentale malvagità dell’egoismo umano, per non parlare dei tanti malanni che affliggono la vita quotidiana ordinaria e di cui abbiamo ogni giorno notizie in abbondanza. La sua proposta potrebbe essere interessante e meritevole di attenzione. Senonché non sembrano proprio essere queste le “realtà” che preoccupano il “nuovo realista”. E così il “nuovo realismo” non va molto lontano; rimastica solo un po’ l’”ontologia” dell’“esistere” e del “non esistere”, di recente provenienza dalla filosofia analitica attuale . L’inconsistenza filosofica della sua proposta è palese, visto che il “nuovo realismo” non intende di certo anelare ad una restaurazione della metafisica. Esso in fondo continua a condividere molte convinzioni fondamentali del debolismo filosofico e del “postmodernismo”, contro i quali si scaglia accusandoli di essersi messi a servizio del “populismo”, senza però preoccuparsi di distinguere bene tra ciò che può considerarsi legittima aspettativa di innalzamento della qualità e del tenore di vita di vasti ceti sociali con la più becera propaganda egualitaria e demagogica. Ed ecco che puntualmente l’accusa di “populismo” viene ribaltata e ritorta proprio contro il “nuovo realismo” da un recente libretto composto da ben sei filosofi e saggisti di fama: Il nuovo realismo è un populismo (Il Melangolo ed., Genova 2012). Ritengo sia un contributo assolutamente immeritato ed eccessivamente generosa la feroce stroncatura con la quale gli articolisti (D. Di Cesare, F. Milazzo, L. Cervellione, C. Ocone, L. Magnani e S. Regazzoni) si scagliano contro il “nuovo realismo” di Ferraris. Non si può prendere sul serio quella che in fondo si riduce ad una bega di fazioni di aspiranti maitres à penser, allievo e maestro, accomunati dalla stessa smania di notorietà e di spettacolarità (ancora una volta va detto su questo punto che la filosofia italiana segue l’esempio dei nostri politici). A parte alcune pagine di alcuni dei sei autori non immeritevoli di attenzione non mancano qua e là vistosi segnali di approssimazione e di disinformazione, come si vede nella disinvolta riduzione di ogni “liberalismo” a puro e semplice “liberismo”. E non è poi del tutto vero che il “nuovo realismo” non abbia trovato qualche attenzione ed un consenso, sia pur moderato, in autori di un certo spessore (Umberto Eco o John Searle, in un convegno organizzato dallo stesso Ferraris a Bonn nel marzo 2012 e al quale ha fatto seguito il libro Bentornata Realtà). E’ ben vero che gli autori hanno buon gioco nel dimostrare come da un punto di vista concettuale il “pensiero debole” e il “postmodernismo” siano filosoficamente più critici e più radicati nella tradizione del pensiero occidentale rispetto al loro oppositore, e però certo di un autentico, più serio e più robusto “nuovo realismo” si sente oggi la mancanza. In fondo la contesa tra le due parti si riduce a questo: il debolista afferma “non ci sono fatti, ma soltanto interpretazioni”; al che il “nuovo realista” gli può ribattere “ma anche la tua interpretazione diventa un fatto”. E di qui non si esce più, ma si può andare avanti all’infinito.
La filosofia italiana ha proprio perso il senso della realtà che una volta per lo meno aveva dimostrato di tenere in un certo conto.
INDICAZIONI BIBLIOGRAFICHE ESSENZIALI
– Zygmunt Bauman, Modernità liquida, trad. it., Laterza ed., Roma-Bari 2002.
– Zygmunt Bauman, La vita liquida, trad. it., Laterza ed., Roma-Bari 2006.
– Maurizio Ferraris, Manifesto del nuovo realismo, Laterza ed., Roma-Bari 2012.
– Maurizio Ferraris, Umberto Eco, John Searle e altri, Bentornata Realtà, Einaudi, Torino 2012.
– Jean François Lyotard, La condizione postmoderna, trad. it., Feltrinelli ed., Milano 2002.
– Richard Rorty, La filosofia e lo specchio della natura, trad. it., Bompiani, Milano 1986.
– Gianni Vattimo, La fine della modernità, Garzanti ed., Milano 2011.
– Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli ed., Milano 2010.
* Gianfranco Bosio (Venezia 8 maggio 1938), si è laureato in filosofia nel 1961 con il massimo dei voti e la lode presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Statale di Milano. Libero docente in Filosofia Teoretica, dopo 7 anni di assistentato straordinario alla cattedra di Filosofia Teoretica presso la stessa Università, tenuta da Enzo Paci. Ha insegnato per incarico “Filosofia” presso la facoltà di Magistero dell’Università di Parma; è stato nominato professore straordinario di “Filosofia” presso la facoltà di Magistero dell’Università di Bari, dal 1976 a tutto il 1982; successivamente è passato alla Cattedra di Storia della Filosofia presso l’Università di Perugia, alla facoltà di Magistero fino al 1990, e infine alla Cattedra di Storia della Filosofia dell’Università di Verona, fino al termine del servizio, nell’anno 2009. E’ stato nominato “Professore Emerito” dal Ministro dell’Università e Ricerca nel 2011.
I suoi principali interessi si sono concentrati sulla fenomenologia tedesca contemporanea, senza trascurare i maggiori pensatori della tradizione occidentale. Ha pubblicato Fondazione della Logica in Husserl (Milano 1966), Le antinomie kantiane della totalità cosmologica e la loro critica in Hegel (Il Pensiero, 1964, rivista di cui ha fatto parte quale membro del Comitato Scientifico) e successivamente il lavoro Coscienza storica e problema dell’uomo (Roma 1973); ha studiato in modo particolare il pensiero di Max Scheler, su cui ha pubblicato l’importante lavoro L’idea dell’uomo e la filosofia nel pensiero di Max Scheler (Roma 1976), cui hanno fatto seguito Invito al pensiero di Max Scheler (Mursia, Milano 1995) e nel 2002 Filosofia e scienza della natura nel pensiero di Max Scheler (Il Poligrafo, Padova); ha lavorato anche su Heidegger con il libro Martin Heidegger. Prospettive e itinerari (Franco Angeli ed., Milano 1992). Ha espresso le proprie personali prospettive teoretiche in Trascendenza e mondanità della filosofia (Morano ed, Napoli 1986). Ha collaborato a numerose riviste italiane e straniere con articoli, saggi minori e recensioni e ha pubblicato inoltre vari contributi a volumi collettanei e di commemorazione; ha tenuto conferenze in prestigiose Università in Italia e all’estero (Sorbona di Parigi, Università Libera di Bruxelles, Università di Santiago de Compostela e di Salamanca in Spagna, Università di Colonia e di Jena in Germania) e ha partecipato a numerosi Convegni Nazionali e Internazionali. Il suo ultimo libro è stato Natura, mente e persona. La sfida dell’intelligenza artificiale (Il Poligrafo, Padova 2006).
Si diletta di scrittura creativa e di recente ha pubblicato vari racconti di argomento fantastico, con soggetti di carattere metafisico-religioso, sulla rivista “Osservatorio Letterario” e in alcuni siti online. Attualmente li sta raccogliendo per un e-pub da destinare all’editrice “Youcanprint”.
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9 marzo 2014 alle 09:42
Sarebbe meglio non cadere nel cerebralismo, solita mania propria della filosofia. Tutto è molto più semplice: la scienza dimostra che l’assoluto non è possibile, cioè che il finalismo è una pretesa dell’intelligenza pratica umana. Lyotard teme la robotizzazione forzata, Derrida (per quel poco che si capisce) va verso un possibilismo tutto da riconsiderare. Il resto sono chiacchiere noiose e superciliose.
9 marzo 2014 alle 18:25
Caro Maestro, grazie per queste riflessioni. Tu porti l’attenzione sul “pensiero debole”, che sembra oggi pregiudicare ogni sforzo della filosofia. Giustamente riconosci meno importanza alla reazione non meno debole del “nuovo realismo”. Confesso che nel sentir parlare di “pensiero debole” mi corre il pensiero al dizionario dei sinonimi e in particolare ai termini “oligofrenia” e “terapia di appoggio”. Ma voglio prenderlo sul serio e lo inquadro sotto due profili: quello psicologico e quello filosofico.
1) Tu noti che il “pensiero debole” è in sintonia con “la società liquida” dove “tutto si fa inconsistente”. Il tratto caratteristico della modernità è il rifiuto di ogni imposizione. Per uno psicoanalista è banale che ogni concezione abbia un movente psicologico ed è evidente quale sia la radice della modernità e del “pensiero debole”. Si manifesta il connotato nevrotico e regressivo della ribellione ai genitori e, insieme a ciò, la colpa e la riconoscenza per quanto i genitori fecero per noi. Ed ecco il senso delle parole che tu riporti in riferimento al “pensiero debole”: il genitore fu “autoritario” e “violento”, non gli ubbidisco più, ma conservo la “pietas per il passato”. Questa logica è un ritorno alla dialettica dell’infanzia perché l’adulto si propone come protagonista della propria vita e della comprensione del mondo.
2) Il “pensiero debole” può sembrare una espressione di pessimismo per la molteplicità di “verità” che ci propone la storia della filosofia. Ma è davvero così? Per concludere che una concezione, per esempio quella di Eckhart, non è quella corretta e accettabile si deve avere dentro sé un criterio di verità che però il “pensiero debole” ha licenziato. Ma c’è di più. Avere avuto cento risposte sbagliate non esclude che ci sia una risposta giusta e occorre piuttosto svelare la fonte di errore. Ma c’è di più. Il “pensiero debole” toglie valore a ogni teoria generale, come sono la teoria dei quanti o la teoria della relatività, perché queste appartengono allo stesso genere della teoria massimamente generale della filosofia. Anche la filosofia cerca di combinare i dati sempre più numerosi che abbiamo e si presta in molti punti alla smentita sperimentale. Ma c’è di più. La filosofia “forte”, quella che costruisce una visione del mondo e ci indirizza nel modo di vivere, realizza una esigenza primaria dell’uomo. Si può dire, con una similitudine, che alla nascita mi ritrovo in un luogo che non conosco. Cosa posso fare se non raccogliere notizie del territorio e infine sintetizzarle nell’unità di una mappa? Cosa faccio se ignoro la geografia e le risorse del territorio? Sia pure una mappa imperfetta o anche sbagliata ma è meglio traslocare se non ho fra le mani un criterio per vivere.
Sono considerazioni superficiali, improvvisate nel sole della domenica, e mi correggerai se sbaglio…
Giuseppe Roncoroni
9 marzo 2014 alle 19:00
PS: Ho notato la foto e ho capito che Maurizio Ferraris è quello che conduce Zettel. Allora faccio il tifo per lui. Almeno non ha le arie del chiarissimo professore o di un mammifero da palcoscenico. Sembra una persona introversa e sofferta e poi ama Nietzsche…
10 marzo 2014 alle 13:00
Nonostante la palese conoscenza della materia da parte dell’articolista, emerge una posizione di pregiudizio verso il “pensiero debole” che ne inficia la capacità di coglierlo autenticamente. Un esempio è la seguente interpretazione del pensiero debole: «E’ un bene che la vita etica e sociale si ispiri e si modelli sul “consumismo” e tenda al godimento senza tante preoccupazioni di tracciare un confine tra il lecito e l’illecito, fra ciò che è naturale e ciò che potrebbe apparire invece perverso». Il pensiero debole non propugna soluzioni senza “confine tra il lecito e l’illecito”, ma propone di tracciare questo confine in modo non assoluto, cioè di ridiscuterli continuamente in base alle necessità che si presentano. In sostanza, propone di non presentarsi con la presunzione di avere la verità, ma essere nella continua disposizione d’animo di rimettersi in gioco.
10 marzo 2014 alle 16:19
Quest’ultimo commento mi sembra equilibrato e centrato. Mi permetto di fare una precisazione. Finché si suggerisce una disposizione d’animo che sia aperta, contro la presunzione di avere una verità suprema e intoccabile, o si constata che c’è un confine mobile fra lecito e illecito, dove vacilla ogni tavola dei comandamenti, fino a quel punto direi che si parla di legittime norme di igiene. È chiaro che mi riferivo, nelle note sopra, a un diverso aspetto della filosofia. Quella filosofia per cui Hawking afferma: «Un tempo i filosofi consideravano di loro competenza l’intero sapere umano. Oggi i filosofi, incapaci di tenere il passo, hanno rinunciato al loro compito. La filosofia è morta e ha lasciato un vuoto. Così la scienza ha preso il suo posto. Oggi i veri filosofi sono gli scienziati i quali sviluppano le teorie sul “che cosa” e sul “perché”». In questo senso, pur nella mia voluta ignoranza sul “pensiero debole” (capita di essere allergici a certi prodotti già per l’etichetta e sarebbe anche giusto che evitassi di parlarne), mi sono sentito di accomunare la filosofia alla scienza e di azzardare che il “pensiero debole” sia un altro certificato di suicidio della filosofia.
17 marzo 2014 alle 16:52
Bé, penso sia comunque nostro dovere contestare un pressappochismo come quello di Hawking. In altre parole: il fatto che gran parte dei rappresentanti della filosofia accademica, specialmente nel nostro paese, siano indegni della disciplina che studiano, non toglie che oggi più che mai – proprio a cagione della congerie estremamente confusa in cui la moderna umanità si sforza di uscire dall’adolescenza – vi sia necessità di una filosofia; certo, parlo qui di una filosofia che, tramite la capacità di continuare indefessamente l’opera di tracciare le genealogie delle “ragioni” e lanciare la sfida di trovare loro un senso, sappia al tempo stesso relativizzare gli umori feticistici e para-ideologici di scienziati troppo ingenui (o troppo furbi) e castigare la mancanza di serietà di chi nel nome del “relativismo” pretende di sdoganare qualsiasi cazzata.
Perché è chiaro che la scienza come sapere sul “che cosa” e il “perché” è, ancor più che fallace, tremendamente fuorviante. Presentarla in quel modo è simile a presentare la teologia sacramentale o testamentaria come fondazionale rispetto al sapere: ha senso all’interno di un certo paradigma culturale, ma non avanza di un millimetro lo spirito umano, e anzi tende a farlo ristagnare nelle sue stesse proiezioni.
Poi condivido con te il senso di una crisi, solo che per me è una crisi soprattutto sociale e culturale: crisi del lavoro-capitale, parossismo della quantificazione fine a sè stessa, meccanizzazione della scienza proprio lì dove aveva qualche chance di recuperare un senso dei propri limiti, ma anche deflagrazione della società dei mass media, che per quanto riguarda la filosofia significa un livello mostruoso di dispersione. D’altro canto al tempo stesso sempre più ho la sensazione che dietro le macerie e la confusione si nascondano tracciati di senso e opportunità che altre epoche non potevano conoscere. E’ solo, forse, che essere filosofi oggi – filosofi veri – è tremendamente difficile.
10 marzo 2014 alle 21:59
Comunque, una tristezza. Trovo imbarazzante il panorama filosofico-mediatico italiano. C’è molta disperazione, non si sa più come brandizzare il pensiero, bucare lo schermo. Condivido sulla malafede e sulla disinformazione, infatti anche gli stessi riferimenti a Foucault e come ben detto a Nietzsche sono, per usare un eufemismo, “disinvolti”. L’onestà intellettuale questa sconosciuta. Triste che la filosofia, per uscire dall’accademia, debba riproporre il ricatto che prometteva di superare, cioè il ricatto dello schemino banalizzante della “cultura di massa” o simili. Paradossalmente, tutto questo ce la dice lunga.
Ma infatti si tratta di un’operazione disonesta alla radice: facciamo una corrente filosofica per festival, così vendiamo i libri.
Ad ogni modo, la “salvezza”, se c’è, sta nell’anacronismo, che pratico ormai da anni, e cioè nel sottrarsi al presunto o preteso “ordine del giorno” del mercato filosofico (l’ossimoro è voluto).
Denise
17 marzo 2014 alle 16:53
Quale filosofo d’altronde – filosofo vero – non è stato “inattuale”?
(Condivido, ovviamente – con l’appunto che, forse forse, è proprio questo anacronismo estremo a rendere quei filosofi molto più vivi e contemporanei di tanti morti viventi).
16 marzo 2014 alle 19:35
Condivido parola per parola. Quando lessi il Manifesto e Bentornata realtà, mi immaginai il dibattito asfittico e il gioco delle parti che tra debolisti e realisti (all’italiana) ne sarebbe sortito. Ho trovato un po’ più interessanti le tesi di Ferraris su anima, scrittura e dintorni.
Ci sarà pure dell’altro – al di là di slogan e festival – sulla scena filosofica italiana. A meno che, appunto, sia solo scena.