Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Esistere forte di Stefano Scrima

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> di Daniele Baron

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Il libro di Stefano Scrima, da poco edito, Esistere forte. Ha senso esistere? Camus, Sartre e Gide dicono che…, Ed. Il Giardino dei Pensieri, Bologna 2013, ha già nel titolo lo stigma che ci consente di decifrarne la chiave di lettura: la domanda sul senso dell’esistenza ne è al centro. Essa viene affrontata in un percorso che si articola in una serie di piccoli saggi (alcuni già apparsi in rivista) e si concentra principalmente su tre autori: Sartre, Camus e Gide. Si aggiunge ad essi poi la presenza a scopo didattico di brevi biografie degli autori trattati e del riassunto delle loro opere principali: ciò rende fruibile l’opera di Scrima sia a chi conosce già gli autori tematizzati sia a chi li affronta per la prima volta.
L’aspetto apparentemente frammentario, che può risultare dalla forma scelta, cela una coerenza di fondo dell’interrogazione di Scrima sul senso dell’esistere, una sostanziale unitarietà di discorso. Parimenti, pare a prima vista che ci si occupi solo di un periodo circoscritto, di un fenomeno e fermento culturale datato, quello dell’esistenzialismo francese e dei suoi prodromi, di un’epoca ormai superata, mentre la lettura dell’opera ci rende sensibile il fatto che le tematiche affrontate dagli autori francesi sopra citati sono ancora più che mai attuali. Questa sensazione di prossimità all’oggi (confermata giustamente nella Prefazione da Mario Trombino) è tematizzata esplicitamente alla fine del libro, nell’appendice, dove si tenta un raffronto tra La Nausea di Sartre e il romanzo d’esordio di Paolo Sorrentino Hanno tutti ragione, pubblicato nel 2010 (Cfr. Ibidem, pp. 127-133). La scoperta attraverso il sentimento della nausea della contingenza dell’esistenza al centro del romanzo sartriano è ancora sensibile e ancora vissuta oggi; romanzi come Hanno tutti ragione riportano in primo piano il tema della gratuità dell’esistenza, del nostro essere “di troppo”, pur declinandolo in modo nuovo rispetto alla scoperta avvenuta negli anni dell’esistenzialismo, introiettandolo, in un certo senso svelandolo con maggiore distacco e maggiore consapevolezza, rendendolo innocuo.
L’appendice è utile anche perché ci consente di inquadrare meglio il libro: si afferma, con ragione, che il pensiero critico e consapevole, il pensiero autenticamente filosofico, oggi è spesso meglio veicolato da mezzi che potremmo definire meno ortodossi, meno tradizionali, come il cinema, il teatro, l’arte in tutte le sue manifestazioni, rispetto ai trattati canonici; secondo Scrima poi è il romanzo che «si fa portavoce delle esigenze di un’epoca (…) e, contemporaneamente, “educa” i suoi lettori all’interpretazione del loro tempo» (Ibidem, p.128).
Fedele a quest’assunto ci conduce a una rilettura specialmente delle opere letterarie di Sartre, Camus e Gide, tre pensatori e scrittori francesi per certi aspetti differenti, ma accomunati innanzitutto dall’affrontare tematiche filosofiche anche e soprattutto attraverso opere narrative. Il problema del senso dell’esistenza è al centro delle vicende dei loro romanzi; spesso i personaggi che li popolano hanno come principale assillo questa domanda fondamentale.
Nell’introduzione Scrima rileva giustamente che la cogenza di questa tematica è figlia dell’epoca in cui vissero i nostri ed è comprensibile solo se si risale agli albori dell’epoca moderna. L’evento inaugurale della modernità consiste nella dicotomia introdotta da Cartesio tra res cogitans e res extensa e a partire da essa nella sanzione della «superiorità dell’uomo razionale sul resto dell’esistente» (Ibidem, p. 15). Questa dicotomia comporta una diversa valutazione delle due sostanze a tutto vantaggio della prima: perciò è evidente «lo sbilanciamento procurato dalla riflessione cartesiana dalla parte del soggetto, della res cogitans, la sostanza pensante, che prevale così sulla res extensa, il mondo oggettivo (…) il soggetto (umano) si fa praticamente autonomo (…) è la prima sostanza, in termini logici, l’unica che possa costruire il fondamento di tutte le altre sostanze» (Ibidem, p. 16).
Il soggettivismo e l’autonomia del soggetto vennero ulteriormente approfonditi da Kant e dall’idealismo tedesco con la conseguenza di porre il soggetto, inteso come attività pensante, al centro dell’universo e di fornirgli una superiorità ontologica rispetto ad ogni altra realtà. Qui si sottolinea un punto importante: il soggetto, così valorizzato a scapito dell’oggetto, è sì più autonomo, ma anche più solo. La modernità inoltre grazie allo sviluppo delle capacità scientifiche e tecniche dell’uomo, è anche secolarizzazione, emancipazione dalle credenze delle tradizioni religiose e dall’ordine da queste imposto all’esistenza dell’individuo. La metafisica viene sottoposta a dura critica e destituita dalla sua pretesa alla verità. Grazie alla Rivoluzione Francese e all’avanzare dello Stato Liberale viene sancita la separazione tra sfera sociale-politica e sfera religiosa: la fede sempre più relegata alle scelte personali dell’individuo, alla sua intimità, non è più in grado di fornire certezze.
È a questo punto del percorso che si inserisce Nietzsche, vero padre spirituale dei tre autori francesi, con il suo annuncio dirompente della “morte di Dio” e dell’assenza di fondamento dell’esistenza, del suo carattere “assurdo”. Si può dunque dire che la domanda sul senso dell’esistenza che Sartre, Camus e Gide dipanano nei loro scritti si comprende nella sua centralità solo tenendo bene in mente il quadro delineato sullo sviluppo della modernità e avendo presente qual è lo sbocco: il crollo di ogni giustificazione trascendente l’esistenza, di ogni fondamento in senso tradizionale.
«”Dopo Nietzsche” l’uomo contemporaneo acquisì suo malgrado coscienza della fragilità del terreno; il sentimento di vuoto che mina l’esistenza, il nichilismo, penetrò nelle trame della quotidianità ancor prima che nelle pagine dei trattati filosofici, romanzi e poesie. Ma è grazie a questi che la riflessione si fece universale, voce d’una specie – l’umanità – “abbandonata” da Dio» (Ibidem, p. 19)
Sartre, Camus e Gide dunque pensano dopo Nietzsche nel senso sopra precisato; in modi differenti essi cercano di far fronte all’abbandono dell’uomo di fronte al cielo vuoto, alla sua sostanziale gratuità, e in ultima analisi al non-senso che la mancanza di giustificazione conduce con sé. L’assurdità dell’esistenza non li porta però alla disperazione, ma a soluzioni nuove che possano donare senso.

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In Sartre l’esistenza si palesa in tutta la sua gratuità, assenza di fondamento, attraverso un sentimento, la nausea, rivelatore del concetto filosofico di contingenza. E’ questa la scoperta che fa il protagonista de La nausea, Antoine Roquentin, e poco per volta concettualizza attraverso la consapevolezza dell’essere “di troppo” di tutte le cose. Le cose esistono, si affermano nella loro presenza, ma non c’è alcuna ragione per cui debbano essere così e non altrimenti ed esistere in tutta la loro pienezza. «Le cose “esistono forte”, troppo perché ci si possa non pensare e troppo per credere che morire possa risolvere qualcosa. Il proprio cadavere sarebbe anch’esso di troppo, tutto è di troppo, l’esistenza è di troppo, noi siamo di troppo come gli alberi e i ciottoli» (Ibidem, p. 26). Sartre in conclusione a La nausea propone una soluzione per ritrovare la pace rispetto alla malattia della nausea: ci si può salvare dalla contingenza dell’esistenza tramite l’opera d’arte (Antoine Roquentin progetta di scrivere un libro). Si tratta di un esito solo provvisorio e ancora legato alla sua concezione giovanile dell’arte, che venne infatti superata poco dopo; una concezione idealistica, religiosa, che considera l’arte il luogo dell’essere e della verità, non toccato dalla contingenza dell’esistenza. Furono prima il trauma della Seconda Guerra Mondiale, che lo strappò dal suo ambiente intellettuale per gettarlo impreparato nella dura vita al fronte, poi la sua partecipazione alla Resistenza, a fargli mutare avviso su molti aspetti e a permettergli di scoprire l’importanza della politica, del vivere insieme, e della nozione di “sociale”; si trattò di una vera e propria svolta che lo portò a teorizzare la necessità dell’impegno della letteratura, l’engagement, e a sviluppare un concetto di libertà affatto differente rispetto a prima. Se perciò nel Sartre maturo del dopoguerra la scoperta dell’esistenza nella sua assurdità e nel suo essere “di troppo” rimane valida, come un dato di fatto assodato, e può essere fatta valere come consapevolezza contro i salauds, gli sporcaccioni, quelli che con la nozione di “diritto” vogliono nascondere a sé e agli altri il fatto che tutto è di troppo, differenti ora sono le modalità per farvi fronte; Sartre non intende più affidarsi alla speranza nelle doti salvifiche dell’arte. Questa differenza è resa palpabile dalle opere narrative del dopoguerra, mi riferisco al progetto della tetralogia romanzesca che va sotto il nome de I cammini della libertà. Sartre pubblicò solo tre delle quattro opere progettate: L’età della ragione, Il rinvio e La morte nell’anima. Le opere sono incentrate sulle vicende del protagonista Mathieu e come arco temporale coprono gli anni della guerra, dunque narrano un’esperienza ancora fresca; l’impressione che si ha leggendole è che considerate nell’insieme sono una specie di romanzo di formazione, in cui si vuole mostrare la crescita del protagonista, il quale scopre, sia a partire dalle sue vicende individuali sia perché sopraffatto dagli eventi esterni, che la libertà autentica sta nello scegliersi responsabilmente. «Il suo è un lungo processo che dalla confusione approda alla lucidità. Non è la solitudine, il bastare a se stessi, la libertà; non è fare tutto quel che si vuole quando lo si vuole, ma progettarsi responsabilmente soppesando azioni e conseguenze» (Ibidem, pp. 35-36).

camus per scrima

In Camus la fatticità dell’esistenza si esprime tramite il sentimento dell’assurdo, che sorge quando si palesa la discrasia insanabile tra l’irrazionalità del mondo e il bisogno di senso dell’uomo. Le nostre aspirazioni, i nostri progetti, i nostri ideali, s’infrangono come onde sullo scoglio dell’indifferenza del mondo, sul suo silenzio, il mondo è sordo di fronte alla nostra richiesta di giustizia, e la morte è la distruttrice di ogni nostra pretesa di libertà. Ne Il mito di Sisifo viene delineata con lucidità la condizione, a prima vista, disperata dell’uomo, vengono acclarate le contraddizioni costitutive la sua essenza. Tuttavia, Scrima sottolinea come già ne Il mito di Sisifo venga evocata una speranza, venga dischiuso un possibile senso e venga preannunciato il tema della rivolta che troverà pieno compimento nell’opera L’uomo in rivolta. «La rivolta è un no all’assurdità della vita e contemporaneamente un al senso di positività, di bene, di giustizia, col quale l’uomo accetta l’esistenza e la sua finitudine» (Ibidem, p. 51).
Camus mette poi in campo una dicotomia tra rivolta e rivoluzione che va di pari passo con il suo rifiuto dei dettami della filosofia della storia di matrice hegeliana elaborata dal marxismo: la messianica speranza in un futuro di pace predicata dai fautori di quella dottrina, di fatto giustifica la violenza e il dispotismo nel presente, cosa che a giudizio di Camus non è accettabile in alcun modo. La rivolta è la scoperta di un valore che nasce dalla consapevolezza della finitezza umana e dal suo bisogno di giustizia; la rivoluzione, invece, è generatrice di disvalori, è un pervertimento dei valori scoperti mediante la rivolta. «Mentre il gesto del rivoltoso nasce dalla difesa della “natura” umana, procedendo dall’esperienza al valore, il rivoluzionario traspone l’idea nella concretezza storica, rinunciando a quegli stessi valori per cui combatte; così facendo, però, la sua rivoluzione non rispetterà la natura umana, giacché mira ad edificarne una nuova in un nuovo sviluppo storico» (Ivi).
Al di là di questa dicotomia sviluppata ne L’uomo in rivolta è importante sottolineare come per Camus l’assurdo sia solo un momento di presa di coscienza da parte dell’uomo e come esso porti alla riaffermazione del senso dell’esistenza a condizione che non si abbandoni ciò che si è svelato in esso: il legame profondo dell’uomo con la natura, con la terra, che esclude ogni rifugio nel trascendente; si tratta di un fecondo equilibrio tra ragione e natura, un insieme armonico di natura, storia e mito, presente in modo compiuto per Camus solo presso la cultura mediterranea. I suoi primi scritti filosofici Nozze a Tipasa, Il vento a Djemila, Il deserto, caratterizzati da un edonismo e panteismo solari, sono lì a testimoniare quella che lui battezza la misura mediterranea. Questo equilibrio può essere sempre spezzato dall’irrompere della storia con i suoi eventi irrimediabili (nelle vicende della vita di Camus venne spezzato dall’esperienza della guerra e dalla necessità della lotta contro i totalitarismi), ma permane come valore da preservare e come ideale per l’azione nel presente.
Scrive a questo proposito Scrima riuscendo con grande abilità a sintetizzare la posizione di Camus:
«Se per Camus, al di là e per mezzo della consapevolezza dell’assurdo, lo scopo dell’uomo consiste in una “fedeltà alla terra” di stampo nietzscheano, nell’esaltazione della nostra relazione privilegiata, perché cosciente, con la natura, e dunque, per concludere, nella salvaguardia della nostra misura propria – quella che ci rende propriamente uomini – che non può essere considerata a prescindere dal rapporto con gli altri, il nostro impegno dovrà essere volto al mantenimento di questa misura, nel non oltrepassare il limite superato il quale un atto negherebbe se stesso» (Ibidem, p. 77).

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Gide appartiene alla generazione precedente rispetto a Camus e a Sartre; ha avuto un influsso diretto e palpabile sulla loro produzione letteraria e su buona parte della letteratura francese. Occorre sottolineare una prima differenza rispetto a Sartre e Camus: propriamente Gide non è un filosofo, poiché non ha scritto opere che possiamo definire filosofiche, non ha elaborato una propria visione del mondo autonoma concettualmente. Però, come sottolinea efficamente Scrima, se per filosofo intendiamo colui che «attraverso qualunque genere di letteratura (o arte in generale), veicola uno sguardo coerente e personale sul valore dell’esistenza, allora anche Gide (…) è ascrivibile all’ambito filosofico» (Ibidem, p. 87).

In Gide vita, pensiero e pratica letteraria si fondono e i suoi scritti sono una testimonianza di ciò che ha vissuto in prima persona: Gide vuole dare conto della liberazione dalla tradizione e dalla morale repressiva che aveva soffocato la sua formazione. Il percorso esistenziale di Gide, che lo porta alla liberazione dalla educazione repressiva ricevuta, alla accettazione della propria omosessualità, all’affermazione di un edonismo non più soffocato dal senso di colpa, alla liberazione degli istinti, è profondamente influenzato dall’insegnamento di Nietzsche, dalla sua trasvalutazione dei valori, dalla sua critica alla morale cristiana. Gide rivaluta le gioie del corpo, della sensualità, ritrova il legame con i valori terrestri, sperimenta la gioia dell’innocenza degli istinti. I nutrimenti terrestri e L’immoralista sono i due scritti che maggiormente raccontano questa esperienza di vita, che diventa insegnamento per gli altri e spunto per invenzione narrativa. Il rovescio della medaglia di questa liberazione dell’esistenza dalle pastoie del trascendente, liberazione che si può riassumere nel concetto della “morte di Dio”, è che l’esistenza non ha più fondamento. C’è un aspetto negativo nella trasvalutazione di cui Gide è consapevole. A tal proposito ne I sotterranei del Vaticano tramite un personaggio (Julius de Baraglioul) elabora la teoria dell’atto gratuito. La liberazione dalla morale tradizionale provoca uno spaesamento vertiginoso: se un atto deve essere totalmente libero, disinteressato, colui che lo compie può sia fare il bene che fare il male indifferentemente; salvare una persona dalla morte e commettere un omicidio possono avere lo stesso valore, essendo atti privi di interesse e perciò immotivati, gratuiti. «L’atto gratuito è la conseguenza dell’assurdo che invade la nostra quotidianità, quella dell’individuo che confronta con la “morte di Dio”. Non è detto che questa conduca all’accettazione “misurata” della propria condizione come per il Gide de I nutrimenti terrestri o il Michel de L’immoralista; può invece portare all’eccesso, all’esperimento estremo, all’anarco-individualismo come esemplificato nella figura di Lafcadio» (Ibidem, pp. 99-100).

In sostanza, Gide vuole dare conto delle differenti possibilità che si dischiudono per l’uomo in seguito alla scoperta della contingenza dell’esistenza: da un lato, risultano effetti benefici di liberazione dalla tradizione, nasce un edonismo libero dal senso di colpa, ma dall’altro lato si afferma anche una libertà non più controllabile che può agire per capriccio.
Voglio concludere la mia disamina di questo interessante libro con una citazione che esprime bene e il senso dell’opera e l’esito ultimo che il raffronto in essa operato produce.
Riferendosi agli autori tematizzati fino a qui Scrima scrive: «Tutti e tre questi autori, nonostante il loro personale riconoscimento di una sostanziale assurdità della vita, propongono, attraverso le loro opere (romanzi e non) un senso che renda degno il loro – il nostro – tempo d’esser vissuto, e amato. Vivere è sì assurdo, ma solo se non prendiamo in mano la nostra vita (…). La libertà che segue al non-senso dell’esistere è, invero, il dono più prezioso che il caso (o chi per lui) potesse farci. Scopriamo così di non essere obbligati o destinati, bensì i creatori, gli artefici del nostro mondo. E come ci giocheremo quest’unica chance di esistere? Perché non capiterà mai più, in tutta l’eternità, una cosa del genere. Come gestiremo la responsabilità di un tale privilegio? Cosa ci impedirà di non sentirci di troppo, straripanti da quest’esistenza?» (Ibidem, pp. 20-21).

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