> di Giuseppe Savarino
Oswald Spengler (1880-1936) è stato saggista tra i più famosi per diversi decenni (a partire dal 1918) come autore di un saggio, Il tramonto dell’Occidente, per poi scomparire nell’anonimato o essere confinato nel mondo accademico.
Il tramonto continua ad avere un suo fascino ancora oggi, ma l’impressione tuttavia è che sia più citato che letto, non fosse altro per il corposo numero di pagine (più di cinquecento).
In Italia non ha giovato senz’altro la stroncatura di Benedetto Croce (non è un caso che da noi comparve solo nel 1957, grazie alla traduzione di Julius Evola) per il quale lo stesso successo del libro avrebbe dovuto impensierire “le sorti del lavoro scientifico” e per il quale Spengler non era nient’altro che “un dilettante”.
Una tesi ribadita da altri eccellenti pensatori del calibro di Karl Popper o Max Weber, sebbene abbiano riconosciuto in lui un certo ingegno, più letterario che scientifico.
Dilettante o no, mattone o meno, ingegno o meno, uno dei prossimi libri che conto di compulsare (e non solo di spiluccare qua e là) sarà proprio Il tramonto dell’Occidente.
Il motivo è semplice: attratto, come sono, dallo stile forse addirittura più che dai contenuti (più correttamente dovrei dire: dai contenuti che possiedono uno stile, perché la sostanza senza metodo è corpo senza abito) ho avuto modo, qualche mese fa, di apprezzare alcuni appunti autobiografici di Oswald Spengler pubblicati da Adelphi nel 1993 con il titolo A me stesso.
Si tratta di un piccolo scorcio sulla personalità complessa e forse “complessata” (Spengler risulta un perfetto soggetto da psicoanalizzare, del resto ebbe anche un esaurimento nervoso nel 1905) di un autore dalle grandi capacità aforistiche che confessa con onestà a se stesso di essere sempre stato “un aristocratico” e che si permetteva di asserire che “perfino Nietzsche era un’ovvietà, prima ancora che sapessi qualcosa di lui”.
Non tragga in inganno questa affermazione: non siamo di fronte a un individuo pieno e sicuro di sé, anzi tutt’altro, visto che ammette più volte di avvertire costantemente una “sensazione avvilente di inferiorità”.
Di sicuro, era molto riservato e costantemente si sentiva “l’ultimo di una serie”, a disagio con la società, chiuso in se stesso: “fuori allegro, beffardo; dentro incerto, pauroso, in lotta con il suicidio”.
Di origini modeste, famiglia di minatori, padre impiegato postale (anche lui – scrive – taciturno, chiuso e con un persistente “odio per ogni genere di distrazioni”, libri inclusi), poté permettersi comunque di vivere di una modesta rendita e perfino di rifiutare una cattedra di filosofia per concentrarsi nella scrittura.
Scrittura però di cui rimase sempre deluso: “io sono fatto per il vedere”, sosteneva, “non sono mai stato soddisfatto di ciò che ho scritto. Stava troppo al di sotto di ciò che avevo visto” (del resto era convinto che “la gioia di scrivere è senza dubbio un segno di mediocrità o per lo meno, indica una carente predisposizione artistica”).
Sentimento che si riversa perfino ne Il tramonto:
«Se devo dire sinceramente quale fosse il sentimento che mi ha dominato soprattutto durante la stesura del Tramonto dell’Occidente – è stata la ripugnanza per il lavoro prosaico di dover rendere comprensibile ad altri, per iscritto, in questo modo indicibilmente pedante e pesante, qualcosa che per me era già stabilito […] Mettere sulla carta i pensieri nell’attimo stesso in cui affiorano, e lasciarli così come sono, anche questo è un piacere. Ci si sente liberati ed elevati. Ma mettere insieme qualcosa di compiuto in base a simili appunti, è un lavoro da schiavi. E – così tutto scade di qualità. Rispetto a quello che volevo io, Il tramonto dell’Occidente rappresenta un risultato estremamente misero. Quando giunsi al termine ero tutt’altro che orgoglioso. Solo un sentimento di gioia – perché finalmente me l’ero gettato alle spalle» (p. 30).
Si può comprendere meglio questo senso di insoddisfazione e di disgusto, se si tiene conto della prodigiosa memoria che lui stesso riconosceva di avere: “possiedo una memoria portentosa, ma l’ho sempre avvertita come un peso, una tensione sgradevole, e in determinati momenti […] è stata per me un’autentica liberazione potere accantonare la memoria e parlare in qualità di sognatore, di uomo del momento” (p. 35).
Colpisce, in questi appunti autobiografici (che a volte sembrano scritti – per alcuni frammenti che oscillano tra l’incompletezza e la sagacia – da Georg Lichtenberg), la grande capacità di conoscere i propri pregi e difetti, una profonda capacità introspettiva, dove l’autore appare qua e là scettico, confuso, crudo.
La sensazione che si avverte è di trovarsi di fronte un individuo intelligente, sarcastico ma debole, la cui vita è dominata dal sentimento della paura e quindi dalla menzogna, sua fedele compagna.
Si lamenta appunto di avere il “grande vizio” del mentire, “per mille motivi, e più spesso ancora, senza alcun motivo”, per istinto o “solo perché in quell’attimo mi sembrava noioso e banale dire una verità”.
Proprio così, ecco un altro tratto distintivo di Spengler: la ricerca costante dell’originalità anche a scapito della verità che lo rende un pensatore piacevole alla lettura e ancora attuale, soprattutto in questo (lungo) periodo di crisi.
La tesi di fondo del suo Tramonto è infatti che l’Europa fosse all’ultimo stadio, in estrema decadenza spirituale e intellettuale. Ebbe la fortuna di essere pubblicato pochi anni prima della crisi del 1929, da cui nacquero i regimi totalitari e a cui si può far risalire l’origine della Seconda Guerra mondiale.
Facilmente quindi poté dare voce e razionalità al diffuso sentimento dell’inesorabile declino della Germania e dell’Europa e quasi spontaneamente viene da fare il parallelo con la nostra situazione attuale.
Di profeti ne abbiamo avuto a sufficienza e non ne avvertiamo onestamente la necessità («in ogni uomo sonnecchia un profeta e quando si sveglia c’è un po’ più di male nel mondo», gongola Emil Cioran nel suo Sommario di decomposizione), ma non bisogna lasciarsi ingannare da Spengler: non era un profeta; anzi era più di un profeta, era un sociologo con il gusto della provocazione psicologica ovvero uno storico.
Nel senso che vide nella storia umana un processo, in una prospettiva opposta rispetto a quella illuministica/positivistica e non solo per le conclusioni (processo di decadenza al posto della tensione continua verso il miglioramento, quindi al progresso) ma anche per il metodo.
Per Spengler l’uomo non è il protagonista (pur in negativo) della storia ma lo è la Kultur piuttosto che la Zivilisation: «l’uomo non è che un episodio, un momento nel destino universale».
Solo per gli illuministi (da Voltaire a Condorcet) l’uomo sarà l’agente e il fine stesso della storia (in questo caso in positivo).
Non è un caso che Kant nella celebre (ormai scolastica) definizione di Illuminismo parli di «uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso».
Una differenza che non mi impedisce, leggendo questi brevi e incompleti appunti autobiografici, di nutrire nei confronti di Oswald Spengler un sentimento di simpatia, a volte perfino di empatia:
«Prendo parte a un’allegra conversazione, sorrido, mentre dentro di me infuria una tempesta e il mio cuore cessa di battere. Proprio in questi momenti mi sforzo di apparire indifferente. Ma quando sono solo, allora queste battaglie sono terribili».
E’ proprio vero, come sosteneva il già citato Cioran, che si comprende più dalle autobiografie che dalle grandi mole di studi rigorosi, perfettamente accurate, ma privi di passione.
E ciò è ancora più evidente quando, come in questa sorta di diario intimo, si mira a produrre «un nuovo genere di biografia puramente spirituale» e quando si avverte, istintivamente, che non è del tutto ingiustificata una delle sue tante azzardate conclusioni: «interiormente ho vissuto forse più esperienze di qualsiasi altro uomo del mio tempo».
Un richiamo, nemmeno tanto velato, al (suo) maestro spirituale Friedrich Nietzsche.
D’altronde, siamo o no tutti dei nani sulle spalle dei giganti?
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