> di Luca Ormelli
La città è il travestimento per eccellenza: in città migliaia di vite simulano senza sosta la vita incessante della natura. Un teatro di gesta. Epperò l’uomo, che è per certo creatura della natura, è altresì la meno naturale tra di esse quanto al vivere e nel suo vivere, più egli si vuole naturale più della natura si fa imitatore. Di modo che nulla vi è di più naturale, di più umano della sua maschera. La città è religio mortis, non avvolge come il borgo solleticando l’illusione dell’appartenenza, della comunità (Gemeinschaft). Nella sua oscenità la solitudine vuole l’atrocità della moltitudine, la sua messinscena.
2 giugno 2014 alle 21:54
Forse potremmo dire che per certi versi la città è l’inconscio del linguaggio? Il suo autenticamente umano? Come un riflesso, nella pozza della materia, della luna della natura?
Di modo che – proprio per questo – assume la forma dell’osceno ed è, in sostanza, irrappresentabile?
Non so, uno spunto che mi hai suggerito.
5 giugno 2014 alle 08:15
Gentile Jacopo, potrei concordare con queste tue interrogazioni: «la città è l’inconscio del linguaggio? Il suo autenticamente umano?» se potessimo intenderci – univocamente – sul significato di “linguaggio”: codice? simulacro? oralità?
Al solito, quando ben poste le interrogazioni non offrono risposte ma ulteriori prospettive d’indagine.
L.
5 giugno 2014 alle 11:31
Bé direi in prima battuta reticolo simbolico (in cui ogni parola determina il proprio referente mancandolo, cioè attraverso definizioni fatte di altre parole) inerte, ma al tempo stesso resto e deposito dell’attività soggettiva di ricerca del senso al suo interno. In merito la mia prospettiva è da lungo tempo wittgensteiniana, ma in questi giorni mi sto ubriacando di Zizek/Lacan, per cui quello che dico è una sorta di “pasticciaccio” fra le due sponde. :)
In questo senso forse quello che intendevo è che la città agirebbe in modo simile al linguaggio ma al livello della storia. In pratica sarebbe il reticolo simbolico-resto rispetto alla soggettività temporale che determina a posteriori la storia stessa. In quel senso sarebbe allora irrappresentabile nello stesso senso in cui non si può rappresentare il linguaggio.
Non so, come tu stesso dici le domande sono in fondo i veri puntelli positivi del nostro processo di comprensione infinita dei meccanismi del senso. Il resto, direbbe Hegel, è speculativo.
5 giugno 2014 alle 21:42
Caro Jacopo, trovo le tue ‘improvvisazioni’ estremamente penetranti. E rinnovo l’invito a recapitarci tuoi contributi. Quanto al linguaggio, esso era in Principio ed era presso il Principio ed era il Principio stesso. Rebus sic stantibus mi accodo a Sgalambro: non in Principio fu il linguaggio ma in Fine.
L.
6 giugno 2014 alle 09:49
Forse perché, in fondo, il principio è sempre costitutivamente “alla fine”? Provocatoriamente potremmo quasi dire che “il linguaggio non esiste”, nel senso che “non è mai finito” ed è sempre da “principiare”.
Comunque ti ringrazio per i complimenti, sei molto gentile! Non appena riuscirò a scrivere qualcosa di consistenza decente ve lo manderò senz’altro.