> di Pietro Piro
«Siete liberi di non pensare come me;
la vostra vita, i vostri beni, tutto resta a voi;
ma d’ora in poi sarete stranieri fra noi»
Tocqueville, Dell’onnipotenza della maggioranza
negli Stati Uniti e dei suoi effetti.
Da qualche tempo non si fa altro che ripetere quanto sia importante la cultura, quanto faccia bene leggere, scrivere, informarsi. Campagne ministeriali – non prive di qualità estetiche ed efficacia comunicativa – ci dicono che grazie alla lettura riusciremo ad arrivare molto più lontano degli altri. Tuttavia, tra i nuovi poveri si trovano giovani istruiti, forti lettori, con molti anni di studi universitari alle spalle. Recenti ricerche sul precariato cognitivo c’informano che proprio il cosiddetto “mondo della cultura” produce sfruttamento, marginalizzazione, precarietà. La cultura è importante – si dice nei salotti buoni – ma a patto che essa tessa l’elogio della struttura del dominio, che si faccia portavoce del discorso neoliberista, che sia a servizio della persuasione e della manipolazione generalizzata e collettiva. Fuori da questa schiavitù volontaria e non necessariamente salariata, il destino della cultura non stipendiata è il ghetto.
Lo denuncia – ma troppo debolmente a mio avviso – Gustavo Zagrebelsky nel suo Fondata sulla cultura. Arte, scienza e Costituzione, Einaudi, Torino 2014, quando elenca le insidie alla libertà di cultura: il servizio al potere dominate (nelle forme più varie del consulente, del consigliere, del ghostwriter, del portavoce, dell’addetto stampa, dell’apologeta e del mistificatore); la strumentalità (utilizzare il successo ottenuto in una sfera d’influenza sociale per farsi strada in un’altra); il conformismo.
Zagrebelsky mi pare troppo fiducioso nella capacità delle idee di fornire una strada di accesso al benessere e ripone troppa fiducia in “coloro che non sanno” ritenuti: «coloro dai quali possiamo aspettarci la ricomposizione di un quadro d’insieme, dotato di senso, in cui gli specialismi si integrano entro le compatibilità, la complessità, l’interesse generale» (p. 106).
L’intero modo di argomentare e di giungere a conclusioni condivisibili ma prive di potere di trasformazione sociale – che potremmo inserire in quella tradizione borghese che tesse l’elogio di una cultura libera e autonoma senza però voler agire a livello dei rapporti di produzione e quindi, senza intaccare minimamente le dinamiche del potere reale – non tiene conto della struttura dinamica della società messa in evidenza dall’autore nelle prime pagine del suo libro. Secondo Zagrebelsky, infatti: «La libertà, intesa come situazione di assenza di limiti all’espansione della potenza individuale, introduce nella vita collettiva pulsioni egocentriche ed egoistiche rivolte all’autoaffermazione; l’uguaglianza, come aspirazione che fa da molla alla scalata sociale da parte dei «meno uguali», produce e diffonde nella società rivalità, risentimento e invidia; la libertà e l’uguaglianza, combinate insieme, scuotono le basi della vita sociale. Il loro effetto è la liberazione degli impulsi particolari, aggressivi e difensivi, non mediati da una visione comune di ciò che è bene e di ciò che è male per tutti: il contrario, dunque dell’ideale di una società pacificata d’individui benevolmente e spontaneamente cooperanti in vista di scopi comuni o, almeno, in competizione ma entro un quadro di compatibilità accettato. Le società basate sulla libertà e sull’uguaglianza – il che è quanto dire le moderne democrazie: combinazioni in dosi variabili di pretese di libertà e di ispirazioni all’uguaglianza – sono dunque esposte al rischio dell’interna divisione e dissoluzione per incapacità di garantire fiducia e cooperazione tra i loro membri» (p. 15).
Gli intellettuali oggi, non vivono in una zona franca lontana dalle dinamiche imperanti nella società che Zagrebelsky conosce e descrive con precisione. Il più delle volte, pur di garantirsi visibilità e benessere materiale sono stati proprio gli intellettuali che hanno dato una giustificazione ideologica a un mondo organizzato come una gabbia di piranha inferociti dalla fame. A mio avviso oggi non basta tessere un elogio della cultura senza chiedersi: l’intelligenza ha delle responsabilità? Se la risposta è affermativa – e non credo tutti siano d’accordo – è possibile esercitare la propria intelligenza in un mondo dove «impulsi particolari, aggressivi e difensivi, non mediati da una visione comune di ciò che è bene e di ciò che è male per tutti» sono oramai costitutivi – e non contingenti – dell’essere persona?
Purtroppo – e lo dico con dispiacere sincero – né questo libro di Zagrebelsky né altri orientati in questa direzione, ci permetteranno di uscire dalla gabbia d’acciaio della burocrazia, della tecnica e del mercato che impongono spietati regimi di assoggettamento del vivente e lo costringono ad abbracciare idee suicide.
Una vera cultura oggi è quella che promuove: «la disobbedienza volontaria, l’indocilità ragionata […] il disassoggettamento nel gioco di quel che si potrebbe chiamare la politica della verità» (M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 40).
Sappiamo bene però, che un’ intensa pratica di questa cultura che libera è stata sempre osteggiata e lo sarà sempre, in nome di quella pace sociale che ci conforta nelle tribolazioni e ci annienta come individui autonomi e critici.