Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Landart Zen, Ruhe

Convinzioni irrazionali: chiusura dell’esperienza e approccio corporeo

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> di Omar Montecchiani*

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In un momento particolare dello sviluppo – di solito nella prima infanzia – è possibile che l’individuo faccia un determinato tipo di esperienza, l’esperienza A, o più esperienze similari ripetute – più o meno dolorose, traumatiche, o comunque inibenti. Questo tipo di esperienza potrà far si che il soggetto venga ad assumere una determinata “posizione esistenziale” – come la chiama Berne – rispetto alla quale verrà a determinarsi il proprio senso di sé, e di sé in rapporto agli altri: questa posizione mi porterà a strutturare un determinato copione di vita, a partire dal quale io potrò, nel bene o nel male, gestire i miei rapporti, le mie emozioni, i miei comportamenti, per il resto della mia vita. Uno schema sostanzialmente, un modello operativo interno, che, irrigidendosi, può trasformarsi in un vero e proprio copione. Una maschera capace di mediare tra la non soddisfazione dei miei bisogni interni da parte dell’altro, e la dipendenza d’amore rispetto a quest’ultimo – il bisogno d’amore dell’altro –, che continuerò ad avere indipendentemente dalla soddisfazione o meno di quei bisogni.

Oltre allo schema copionico che si andrà strutturando, l’esperienza (o più esperienze ripetute nel tempo) potrà portarmi ad avere di volta in volta delle convinzioni irrazionali – il concetto A1, cioè delle idee su me stesso – e quindi sugli altri – che andranno a sostenere e a integrare il mio copione di vita.
Le idee o convinzioni irrazionali, (descritte ampiamente da Ellis, ma non solo), sono una soluzione disadattiva a una determinata problematica interna: vanno cioè a sostenere – o a cercare di sostenere – la persona, che potrebbe venire a trovarsi di fronte a situazioni particolarmente stressogene (conflitti, obiettivi, frustrazioni) rispetto alla propria fragilità di base. Rappresentano cioè un meccanismo di difesa grazie al quale io prevengo – cognitivamente – la possibilità che una determinata situazione mi schiacci, facendo emergere in me una determinata Stimmung angosciante capace di destabilizzarmi.
Le convinzioni irrazionali, investendo l’autostima della persona, si agganciano direttamente alla dimensione del valore del soggetto nel suo stesso esistere, cercano cioè di puntellare il senso del suo essere nel mondo, la possibilità o la impossibilità di esserci, il suo senso di responsabilità etc., secondo differenti forme: «Io devo essere sempre perfetto, adeguato, competente, altrimenti non sarò degno d’amore, non varrò niente»; oppure «Io sono debole, quindi devo avere qualcuno cui appoggiarmi e da cui dipendere altrimenti non ce la potrò fare a sentirmi felice, a vivere»; o ancora «Il mio passato ha determinato la mia persona e il mio carattere, e quindi non c’è niente da fare, continuerò a commettere gli stessi errori» – e via di seguito.
Al fondo delle convinzioni irrazionali di solito è presente un conflitto tra una determinata paura, o più paure (abbandono, separazione, fallimento, morte, un aspetto di sé inaccettabile), e gli introietti genitoriali non assimilati, non soggettivati: i famosi “devo” (o “dovrei”).
I “devo” che sostanziano spesso le idee irrazionali, rappresentano una modalità di evitamento e di controllo della realtà presente – un giudizio di valore preventivo –, e di conseguenza una strategia che permette di superare l’angoscia, e soprattutto il senso di colpa, derivante dal nostro corrispondere in modo libero e responsabile a questa stessa realtà, momento per momento.
In sostanza, ci permettono di esserci, di essere al mondo, non essendo ciò che siamo autenticamente. Nelle convinzioni irrazionali infatti, secondo la psicoterapia della Gestalt, il blocco possibile rispetto alla scansione delle diverse fasi del ciclo dell’esperienza (pre-contatto, contatto, contatto pieno, post-contatto) si frappone in qualsiasi fase della consapevolezza (sensazione-consapevolezza, contatto-consapevolezza), ma soprattutto nel momento in cui alla consapevolezza succede la mobilitazione delle energie e l’azione, cioè i momenti in cui ci mettiamo in moto per “prendere contatto pienamente con l’esperienza”, attraverso tutta la nostra persona.
Se il blocco dell’energia nella mobilitazione e nell’azione non permette il contatto pieno con il mondo dell’esperienza, e quindi la possibilità di soddisfare i bisogni che soggiacciono al fondo dell’eccitazione mobilitante, l’energia inespressa, non potendo scaricarsi costruttivamente nel mondo esterno, si “retroflette” internamente in modo distruttivo. Solitamente, infatti, ogni retroflessione dell’energia viene a creare nel corpo stesso della persona i cosiddetti blocchi psicosomatici (la corazza caratteriale di Reich): l’energia, privata della sua potenzialità espressiva e vitale, paralizza la persona all’interno di se stessa, rendendola depressa, apatica, stanca, preda cioè dei suoi conflitti interni. È il corpo stesso ad agevolare l’inibizione emotiva, attraverso la contrazione muscolare, che blocca la libera espressione delle emozioni e dei sentimenti.
Ma al di là dell’origine psicogenetica, mi piacerebbe qui descrivere schematicamente alcune caratteristiche fondamentali delle idee irrazionali, e alcune loro funzioni e conseguenze fondamentali, rispetto alla vita di una persona nelle sue relazioni interpersonali e intrapsichiche.
Le idee irrazionali sono:
1) Prevenienti: se una determinata esperienza, o la possibilità di essa, mi richiama alla mente (a partire da certi segnali più o meno evidenti), la possibilità che io sperimenti la mia fragilità e/o conflitto emozionale interno – stato d’ansia, d’angoscia, senso di colpa, parti negate, etc. –, sarò portato, a partire dall’assunzione preventiva di alcune mie convinzioni, a evitare di fare quell’esperienza; oppure a trattenere la mia espressività o coinvolgimento rispetto a situazioni formalmente similari. Oppure ancora, potrei fare, o tentare di fare, esperienze analoghe. E tuttavia, nonostante possa provare momentaneamente emozioni positive, successivamente sarò indotto, mio malgrado, a sminuire queste stesse emozioni, o a confondere un’emozione con un’altra (l’esempio classico e la confusione tra rabbia e tristezza). Discorso fondamentale questo soprattutto rispetto alle cosiddette emozioni “parassite”, emozioni accettate dal sistema familiare che riemergono in situazioni stressanti e che sottendono il desiderio di “carezze” (direbbe Berne), di sostegno, pur non essendo funzionali alla situazione presente. Potrei, per finire, essere portato a svalutare la mia stessa persona per essermi messo alla prova. In quanto queste convinzioni su di me vengono a stabilirsi nella mia mente prima di avere effettivamente fatto una determinata esperienza, al di là dunque di ciò che io provo, desidero etc., ma soprattutto prima di riuscire a sperimentare me stesso all’interno di una situazione che potrebbe farmi cambiare idea rispetto alla mia persona, alle mie facoltà, emozioni etc., io nego a me stesso la possibilità di fare una determinata esperienza, o di esprimermi pienamente all’interno di essa.
2) Emotività incontrollata: di solito le idee irrazionali, essendo frutto di un conflitto interno che la persona sente di poter gestire alla meno peggio solo cognitivamente, sono caratterizzate da picchi emozionali apicali, che lasciano emergere elementi tragici, immagini catastrofiche – tracce destinali ineludibili. La persona non riesce a gestire pienamente le proprie emozioni sottostanti: «Se non riesco a finire questo lavoro entro stasera sarà la fine!»; «Non avrò mai una seconda chance, sono stato uno sciocco, la mia vita è uno schifo, lo è sempre stata e lo sarà sempre».
3) Inconsce: essendo irrazionali, cioè fondate su accadimenti e su traumi passati, o comunque a partire da situazioni particolarmente frustranti vissute solitamente a livello viscerale, le idee irrazionali per quanto coscienti hanno un substrato inconsapevole che le sostiene e che le alimenta, e infatti solitamente si presentano come degli assoluti, dei diktat di cui la persona non può fare a meno – spesso infatti sono bizzarri. Ma la caratteristica fondamentale relativa alla loro irrazionalità, sta nel fatto che se si chiede alla persona di spiegare l’origine di queste sue convinzioni, non riesce a esplicitare a se stessa e agli altri in modo chiaro, convincente, con una certa consequenzialità logica, la motivazione fondamentale che sta al fondo degli atteggiamenti mossi da questa convinzione, nonostante induca a comportamenti evidentemente disfunzionali. «Non so perché la penso così, ma è così e basta!»
4) Il passato: la persona resta aggrappata alle sue idee, legate a loro volta a una dimensione passata che non ha nulla a che vedere con la situazione presente, con l’esperienza sempre cangiante del soggetto, rispetto alle sue interazioni sempre nuove e multiformi del momento attuale, con l’ambiente e con gli altri. In questo senso, queste idee sono letteralmente anacronistiche: come detto precedentemente, se si chiede alla persona di spiegare la sua convinzione irrazionale rispetto alla specificità della situazione attuale che potrebbe affrontare, si otterrà uno scollamento tra ciò che la PNL chiama “struttura superficiale” e “struttura profonda”, tra il linguaggio e l’esperienza. La chiarificazione verbale sarà piena di generalizzazioni, cancellazioni e deformazioni linguistiche, perché effettivamente l’esperienza o non c’è stata, o è stata affrontata parzialmente, oppure è stata travisata.
5) Pensiero infantile: essendo legate alla sfera inconscia, come è stato detto, le idee irrazionali ne assumono alcuni tratti infantili essenziali, come ad esempio l’urgenza dell’azione evasivo/reattiva, o del rifiuto a prescindere, legate entrambe al pensiero dicotomico del tutto/niente, bianco/nero, o/o, etc.; oppure, il causalismo personalistico (l’essere la causa assoluta di tutti i mali del mondo), connesso alla sfera della onnipotenza infantile originaria; oppure ancora l’astrattezza pervasiva (sempre onnipotente), del pensiero magico, della lettura del pensiero, etc.

Le convinzioni irrazionali, dunque, chiudono sempre di più la nostra finestra emozionale, la possibilità di sviluppare nuove relazioni, di metterci alla prova, e tagliano quindi a priori la possibilità che abbiamo di scoprire (o riscoprire) le nostre risorse interne: serrano il nostro stesso orizzonte cognitivo, e il potere che abbiamo, mediante la possibilità di fare nuove esperienze, di assumere nuove visioni del mondo e di noi stessi, che facciano letteralmente respirare la nostra interiorità.
Queste convinzioni si attivano a partire da un timore sviluppatosi in passato, che si perpetua nel presente sotto forma di un’idea sulla stessa persona. In questo senso, le convinzioni irrazionali, al di là della patologizzazione sintomatologica possibile, rappresentano comunque una modalità esistenziale, un modo di essere-nel-mondo, che permette alla persona di difendere l’integrità della sua identità, a partire da un senso di sicurezza minimo che la convinzione rilascia (rispetto alla sua fragilità), quando viene investita dall’esperienza concreta. Purtroppo le convinzioni irrazionali sono a loro volta un palliativo esiguo rispetto alla fragilità ontologica che dovrebbero limitare e contenere, perché non sostanziate dall’esperienza e dall’interattività di tutta la persona, ma solamente dalle sue capacità cognitive, che sono comunque reagenti a una esperienza di paura o di inibizione iniziale, la quale è totalmente anacronistica rispetto alla esperienza attuale possibile.
La mia idea di fondo rispetto a questo discorso (ma soprattutto la mia esperienza personale) è che, se le convinzioni irrazionali sono nate dall’esperienza, sostanziate quindi dalla persona attraverso le sue percezioni, emozioni, sensazioni, modalità di attaccamento, fiducia nell’altro etc., sarà molto difficile, o comunque ci vorrà un lungo lavoro, perché queste idee su di sé cambino mediante la sostituzione con una ulteriore idea che possa scardinare la prima, attraverso il solo linguaggio.
Le parole sviluppano altre parole, e innalzano la persona al di sopra (al di là) della sua esperienza concreta, l’unica capace di far “portare a casa il risultato” al paziente, come si dice in gergo. Il rischio, sempre dietro l’angolo, è quello secondo il quale il linguaggio e l’interpretazione del terapeuta possano essere “ricalcati” dal soggetto stesso, a partire da dinamiche relazionali di adeguamento che scaturiscono da angosce abbandoniche, idealizzazione dell’altro, transfert, etc.
Ma è il linguaggio stesso a rappresentare una dimensione “obbligante” e “alienante”, rispetto alla autonomia della persona che ascolta. La parola – quando non cortocircuitata attraverso le forme indirette della comunicazione, come nei cosiddetti messaggi paradossali, espressioni metaforiche o il linguaggio poetico – si struttura attraverso i principi razionali della logica formale: in questo senso, si differenzia rispetto al linguaggio corporeo per una “unilateralità” semantica che, unita alle dinamiche emozionali interne rispetto al rapporto con il terapeuta, rischia di costringere la persona in un imbuto cognitivo che può privarlo della propria autonomia decisionale, o comunque limitarne l’ambito d’azione. Ma soprattutto rappresenta una protezione, uno schermo distanziante, rispetto all’ansia del poter entrare in contatto diretto con il proprio sentire, con le proprie emozioni, e quindi con il proprio senso corporeo: si rischia insomma di parlare “di” e “su” ciò che si sente, evitando di stare “all’interno” dei propri stati d’animo a contatto con le proprie sensazioni, gradevoli o sgradevoli che siano.
Gli interventi a mediazione corporea, invece, essendo meno espliciti e meno diretti rispetto alla possibilità di astrazione e sofisticazione analitica degli interventi verbali, scavalcano la soglia coscienziale per penetrare direttamente nella parte inconscia e regressiva della persona: ulteriormente, installandosi in quella apertura originaria di possibilità esistenziali che il corpo rappresenta, eludono la possibilità di una unilateralizzazione dei significati, permettendo alla persona di abitare quella polisemia di senso che il corpo stesso racchiude, e quindi di scegliere tra i diversi sensi e tra i diversi significati che l’esperienza del proprio corpo rivela e lascia emergere.
Il lavoro svolto direttamente sul corpo, o meglio, “attraverso” di esso, dalla stessa persona, all’interno di un ambiente sicuro, protetto e contenente, come quello della relazione di aiuto nel Counseling o nella Psicoterapia (penso ovviamente alla Gestalt, alla bioenergetica, all’approccio trans personale, a tutti gli approcci a mediazione corporea: EMDR, etc.), permette di sperimentarsi “diversamente” rispetto alla proprie idee su di sé, a partire da condizioni di possibilità d’esperienza che fanno sentire il soggetto in grado di provare le proprie emozioni. L’individuo così percepisce di essere all’altezza delle proprie possibilità di fare e di decidere per sé, senza il rischio di non essere accettati per quello che si è, per quello che si esprime e si prova. Il proprio senso di sé, mediato direttamente dal proprio corpo “in relazione”, cioè che si relaziona immediatamente in modo diverso dal solito rispetto all’altro da sé, libera nuove energie, nuove potenzialità, che il professionista contiene e rimanda con fiducia alla responsabilità personale del soggetto, il quale sarà portato a sua volta ad una reintegrazione trasfigurante della propria identità, secondo i propri tempi e la propria capacità autodecisionale.
Basta ricordare, relativamente alla dimensione “strutturale” del cambiamento rispetto ad una intersoggettività “vissuta”, o agita positivamente, gli apporti straordinari che le moderne neuroscienze hanno prodotto in ambito clinico rispetto alle terapie ad approccio corporeo, confermando su base sperimentale ed empirica, la strettissima correlazione tra le emozioni e gli stati corporei, tra azioni corporee, empatia e riconoscimento, e tra azioni, emozioni, e processi decisionali coscienti. La parola coinvolge principalmente le aree corticali superiori; l’azione invece riguarda principalmente e più direttamente le aree sottocorticali del sistema limbico, nelle quali si verificano con più probabilità i blocchi emozionali.
La stessa empatia, pur essendo un costrutto multidimensionale e quindi non legato unilateralmente alla sola dimensione cognitiva, oppure solamente emozionale, rappresenta una dimensione principalmente e sostanzialmente corporea: la teoria della associazione diretta, della imitazione, oppure del feedback facciale (Eckman, Tomkins), e del rispecchiamento prosodico (Scherer) – ma penso anche alla sintonizzazione tra madre e bambino di Stern e Condon – si fondano su dinamiche imitative o di rispecchiamento corporeo, mediate da circuiti neurali che coinvolgono l’area amigdalica e le aree associative della corteccia visiva. È la visione del volto stesso – insieme a tutto il resto del corpo – a rappresentare il punto di raccordo tra le emozioni che io percepisco possa provare l’altro che interagisce e si rapporta a me, e ciò che sento accadere in me rispetto a ciò che l’altro esprime. Le emozioni raccolte sul volto dell’altro, permettono al bambino di significare e arginare l’esperienza interna dei propri stati d’animo, e di regolare i propri comportamenti: ma è il comportamento stesso del genitore a rappresentare nei primi mesi di vita, a partire da una sequenzialità e ripetitività registrabile e quindi prevedibile da parte del bambino, il fondamento essenziale dei pattern di attaccamento dello stesso, i quali a loro volta determineranno in lui l’esperienza della cosiddetta “costanza dell’oggetto”. L’empatia, a sua volta, pur non potendo essere considerata “sperimentalmente” una delle condizioni necessarie e sufficienti del cambiamento, come nella famosa triade rogersiana (insieme alla congruenza e alla accettazione incondizionata), rappresenta indubbiamente una dimensione quantomeno “predisponente” al cambiamento stesso: la persona che si sente compresa – e specialmente in un momento di forte sovraccarico interno – sperimenta, attraverso l’empatia dell’altro, la dimensione del contenimento emozionale, di un abbraccio esistenziale caloroso e protettivo.
Di più. La persona fa l’esperienza di essere semplicemente compreso per ciò che è, attraverso la dimensione non giudicante di un silenzio comprensivo e amorevole. Nel dolore acuto e profondo, infatti, come dice Borgna, la parola ammutolisce, e il senso interiore dei propri silenzi si fa presente attraverso i gesti impalpabili e sotterranei del corpo: una mano che stringe se stessa nervosamente, come a cercare di trattenere l’emorragia interiore di un’indicibile ferita ancora aperta – oppure una rabbia che si vorrebbe esprimere e negare al tempo stesso; il capo reclinato e gli occhi socchiusi, rivolti verso il basso, lo sguardo commosso e vago, che contempla un proprio paesaggio interno – come se si provasse tenerezza e compassione per se stessi; oppure, ancora, le braccia conserte e lo sguardo implorante – in un atteggiamento di protezione di sé, e, al tempo stesso, di richiesta di aiuto non invasiva, accudente, che possa semplicemente farci sentire che l’altro c’è, è lì, con noi, in questo nostro dolore inesprimibile. È in questa atmosfera di accoglimento e di espressione ineffabile che io posso pensare di avere il diritto di esistere per come sento di essere, e quindi, successivamente, pensare di poter essere per come vorrei.
Non sto sostenendo che la parola nella fase operativa delle relazioni di aiuto sia superflua o addirittura dannosa; e non sto dicendo che sia necessario utilizzare o solo la parola o solamente il corpo. Tutt’altro. Penso che la verbalizzazione, sia da parte del terapeuta che da parte della persona che a questi si rivolge, sia necessaria e anzi fondamentale soprattutto nella fase di accoglimento e di esplorazione (pre-contatto), e nella fase finale di elaborazione (post-contatto). Ulteriormente credo sia fondamentale nella misura in cui andrà a rappresentare – all’interno del rapporto terapeutico – quella funzione umana capace di discernere, filtrare e integrare i diversi significati che emergeranno dall’esperienza della relazione stessa, e nella misura in cui potrà essere “utilizzata” di concerto rispetto alla esperienza corporea. Quest’ultima, tuttavia, rappresenta a mio avviso lo “zoccolo duro” fondamentale nel reperimento delle informazioni su di sé, e relativamente a un cambiamento possibile, rispetto al quale la parola ha un ruolo importante ma funzionalmente differente e succedaneo.
Mi piacerebbe ora elencare i “vantaggi” di un approccio corporeo rispetto alle idee irrazionali, che potrebbero essere sintetizzati schematicamente in alcuni punti essenziali:
1) Distanza e apprendimento: durante l’esperimento, nel quale il soggetto mette in scena il proprio copione di vita, la propria storia familiare, il dialogo tra i diversi aspetti di sé, etc., la rappresentazione “drammatizzata” assume una duplice valenza. Da una parte rappresentando le differenti parti di sé attraverso l’interezza della propria persona – fantasia, intenzionalità, percezioni, movimenti, emozioni, etc. – il soggetto entra radicalmente in contatto con la dimensione propriocettiva dei suoi vissuti corporei, strettamente legati a quelle situazioni che egli stesso mette in scena: in questo senso egli rivive quegli stessi vissuti passati, spostando l’attenzione sul senso del proprio sé corporeo, in una dimensione quindi pressoché immediata e irriflessiva. Dall’altra parte, essendo la rappresentazione un mettere innanzi a sé, nel qui ed ora (un rap-presentare), viene vissuta con una certa consapevolezza distanziante, anche perché avviene secondo modalità formali strutturate: all’interno di un setting contenitivo, protettivo, programmato, e al tempo stesso stimolante. In questo senso il soggetto viene messo di fronte a se stesso, ma a partire dalle sue stesse possibilità, risorse, tempi di elaborazione e di assimilazione. Dunque vive in modo irriflesso la situazione che sta mettendo in scena, da una parte, e al tempo stesso, attraverso i feedback soprattutto corporei1 che il terapeuta gli rimanda durante e dopo l’esperimento (“Ho notato che quando parlavi a tua madre ti tremava la voce”), si ritrova a sperimentare il cortocircuito tra le convinzioni irrazionali precedenti, e gli atteggiamenti, le emozioni, le idee, che sfuggono al proprio controllo durante l’esperienza, e che il terapeuta gli fa notare (“Hai detto che non riuscivi a fare nulla da solo, invece ho visto che ora hai preso l’iniziativa”). A partire dallo scollamento anacronistico tra le convinzioni irrazionali precedenti e i vissuti attuali riflessi dall’altro, ha un insight che amplia il proprio campo percettivo, spingendolo a una nuova coerenza interna capace di fargli integrare le informazioni vissute nel qui ed ora attraverso l’esperienza diretta, e a riposizionare/ridimensionare le motivazioni inconsce che muovevano precedentemente i suoi comportamenti. La rappresentazione drammatica e il proprio modo di fare esterno mediato dall’osservazione dell’altro (la visione di sé a partire dall’altro), fanno sì che egli divenga autocosciente rispetto ai propri modi di comunicare e di fare: il soggetto meta-comunica, cioè riesce a parlare a se stesso del proprio modo di comunicare, dei propri atteggiamenti, ma anche naturalmente delle sue convinzioni. Ulteriormente, secondo questo stesso meccanismo, apprende ad apprendere, cioè comprende quali sono le sue modalità di comprensione ed assimilazione dell’esperienza, in una sofisticazione sempre maggiore delle abilità personali di processazione della stessa.
2) Blocchi energetici: come detto in precedenza, essendo le idee irrazionali legate a dei “devo” che servono a bloccare il regolare flusso organismico (bisogno-consapevolezza-soddisfazione), e a respingere una determinata parte di sé inaccettabile (sessualità più libera, sentimenti di odio, sadismo, egoismo, etc.), creano a loro volta dei blocchi somatici che racchiudono l’energia retroflessa. In questo senso, prima di poter esprimersi liberamente, è necessario ricontattare consapevolmente quelle parti di sé bloccate nelle quali l’energia è contenuta: rendersi consapevoli cioè di ciò che ci trattiene all’interno del nostro corpo. Nell’amplificazione, classica tecnica gestaltica a partire dalla quale si “amplifica” appunto la parte del proprio corpo che “trattiene” i sentimenti negati o repressi (rabbia, odio, tristezza, etc.), la persona prende contatto – nel presente – con il senso del proprio passato, stabilendo il giusto valore da attribuirgli, per poi lasciarlo alle proprie spalle, o meglio, integrarlo.
3) Narrazione: gli elementi precedenti – auto-rappresentazione, autocoscienza, integrazione, e soprattutto il senso corporeo, faranno si che la persona riesca a narrare in modo pressoché coerente la propria esperienza biografica. Se è vero, come dice Bowlby, che un soggetto sano si riconosce dalla capacità che ha di raccontare a se stesso e agli altri, senza incertezze, confusione e distorsioni, la propria vita e il senso delle proprie esperienze – secondo un continuum narrativo lineare e trasparente – vero è anche che una abilità narrativa può essere acquisita in modo sostanziale, a partire da una rifondazione propriocettiva delle precedenti esperienze traumatiche o inibenti, in una condizione di intenzionalità riparativa capace di sfruttare le risorse attuali e la distanza attuale, secondo condizioni di esperienza strutturate ma libere al tempo stesso.
4) Esperienza e idee: nell’approccio corporeo non avviene un passaggio da una convinzione A1 a una convinzione B1, per il tramite dell’interpretazione o della sola verbalizzazione. Si cerca invece di passare da un tipo di esperienza A, che ha prodotto una convinzione irrazionale di tipo A1, a una esperienza di tipo B, nel qui ed ora: responsabile, formalmente controllata, stimolante, contenitiva, che potrà produrre una convinzione su di sé di tipo B1, consapevole, funzionale, e adattiva.
5) Regressione e ri-genitorializzazione: la sottolineatura dell’aspetto specificamente sensoriale nell’approccio corporeo, all’interno delle diverse drammatizzazioni, polarizzazioni, role play, visualizzazioni, etc., rappresenta una dimensione fortemente regressiva all’interno dell’esperienza spontanea della persona. L’esperienza si carica di numerose risonanze interne primitive, proprio perché viscerali, percettive e sensoriali, che possono andare a intercettare vissuti infantili oramai dimenticati, ma che, a partire dalle profondità della memoria corporea, fanno ancora sentire la loro eco nei comportamenti e nei pensieri attuali. In questo senso l’approccio corporeo rappresenta una sorta di alveo, di incubatrice protettiva, all’interno della quale poter sperimentare ed elaborare in sicurezza emozioni e sensazioni oramai sotterrate nelle profondità, e che mediante l’esperimento riaffiorano in superficie. Dall’altra parte, questo aspetto regressivo dell’approccio corporeo non sfocia in una dipendenza tra terapeuta e paziente, o tra counselor e cliente: il professionista infatti lascia che le sensazioni e le emozioni riemerse circolino liberamente nel divenire dell’esperienza, senza porsi in un atteggiamento collusivo (ma semplicemente di accoglienza e di fiducia), rimandando alla consapevolezza responsabile della stessa persona la gestione di ciò che prova. Nel rispecchiamento fenomenologico non giudicante ed empatico, il soggetto rintraccia da sé, con i suoi tempi e secondo l’articolazione interna del proprio spazio d’esperienza, le risorse disponibili per far fronte alle sue nuove consapevolezze. In questo senso la persona viene mossa, a partire da una considerazione positiva incondizionata, ad una ri-genitorializzazione di se stessa: rintraccia cioè dentro di sé l’istanza accudente, protettiva e assertiva, che aveva trovato nell’infanzia nei propri genitori2.

Concludendo vorrei sottolineare il fatto che, di là dell’illusione di contenimento che danno, queste idee “fisse” provocano come si è visto una ulteriore fragilità, rispetto alla fragilità di primo grado dalla quale si sono originate e sviluppate, per cercare paradossalmente di porvi rimedio: la chiusura dell’esperienza infatti, come accennato prima, ipostatizza la mia interiorità all’interno di un circolo di controllo e di arginamento, che non permette né l’entrata né l’uscita di alcun che di negativo – ma nemmeno di alcunché di positivo, che possa cambiare il mio modo di esprimermi, di relazionarmi, di pormi nel mondo. Man mano che la falsa idea di me si radicalizzerà, attraverso l’illusione del controllo, sarà sistematicamente attaccata dal fluire stesso di ciò che comunque mi accade all’esterno, e dalla riemergenza sempre costante dei miei bisogni e delle parti di me non ancora riconosciute e accettate: in questo senso, sarò costretto a rinforzare questa stessa idea, che in qualche modo tiene insieme la mia persona e stabilizza la mia interiorità.
In sostanza, sarò costretto a vivere in un allarme costante, per potermi sentire più sicuro: quale irrazionale paradosso!
Come detto precedentemente, nell’esperienza diretta di altre forme di esistenza, di altri modi di essere-nel-mondo – all’interno di un clima di fiducia che infonde coraggio e quindi spinge al cambiamento – la persona sente “sulla propria pelle” la convinzione profonda nelle proprie capacità personali: i suoi nuovi comportamenti che sostanziano queste convinzioni positive, ponendolo di fronte a nuove evidenze che egli stesso sperimenta nel facendum dell’esperienza, producono a loro volta azioni che rompono i suoi schemi protettivi abituali.
La sua autostima cresce, si rinforza l’idea positiva secondo la quale “io voglio perché posso”: il desiderio di osare e agire positivamente se stessi a partire dalle nuove modalità di “essere”, che sono sperimentate concretamente in un ambiente sicuro, spingono la persona a “trasferire” successivamente queste nuove modalità al di fuori del setting.

Note al testo:

1 Per una disamina convincente della visione dell’altro come autocoscienza di sé all’interno della evoluzione psicologica del bambino, rimando al saggio di K. Wright, Visione e separazione tra madre e bambino, tr. it. di G. La Rocca, Ed. Borla, Roma, 2000.

2 A questo proposito vorrei indicare il testo di riferimento dell’amico Francesco Ruiz, elaborato in seguito a un’esperienza oramai trentennale nell’ambito del Counseling. Testo che integra in modo originale le basi teorico-metodologiche del rolfing e della integrazione posturale, richiamandosi teoreticamente al concetto di handling – accudimento – di Winnicott, gli elementi relazionali fondamentali del Counseling, e i principi trans-personali della energetica corporea. In questo senso, l’approccio teorico-pratico di Ruiz si posiziona a cavallo tra la cosiddetta “Terza forza”, o psicologia umanistico-esistenziale di stampo rogersiano, e la “Quarta forza”, o psicologia transpersonale (Assagioli, Wilber). A una prima fase fortemente regressiva, nella quale l’operatore sviluppa un massaggio sostanzialmente passivo in grado di risvegliare le sensazioni e gli stati d’animo che non hanno ricevuto l’empatizzazione necessaria durante la prima infanzia (ciò che l’autore chiama “le ferite del cuore”) – senza quindi poter fornire tutti i riferimenti identitari necessari per un pieno sviluppo della persona – segue una fase di restituzione e ri-genitorializzazione, nella quale il cliente impara consapevolmente e responsabilmente a gestire questi stessi stati d’animo e sensazioni, usufruendo in modo funzionale e creativo delle nuove energie emerse. F. Ruiz, Il massaggio del Sé, Ed. Mediterranee, Roma, 2013.

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J. Zinker, Processi creativi in psicoterapia della Gestalt, tr. it. di I. Sampognaro, Ed. Franco Angeli, Milano, 2012.

P. Watzlawick, J. H. Beavin, Don D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, tr. it. di M. Ferretti, Ed. Astrolabio, Roma, 1971.

* Omar Montecchiani è nato a Orvieto (TR) il 02/08/78 ed abita a Todi (PG). Dopo essersi laureato in filosofia [La nascita della tragedia nel confronto tra Nietzsche e Schopenhauer] ha conseguito il Master (ECM) di primo livello in disturbi del comportamento alimentare [L’anoressia mentale e la pulsione di morte]. Al momento sta svolgendo un Master formativo triennale in counseling ad orientamento umanistico-esistenziale.

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Categorie: Filosofia e nuovi sentieri 09 | Tag: Albert Ellis, analisi transazionale, Antonio Damasio, Carl Rogers, corpo, Counseling, Eric Berne, esperienza, Eugenio Borgna, Francesco Ruiz, , Gregory Bateson, John Bowlby, Wilhelm Reich | Permalink.

5 thoughts on “Convinzioni irrazionali: chiusura dell’esperienza e approccio corporeo

  1. Interessante. Quasi necessaria la lettura in pdf con calma…

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  2. Il testo presentato mi sembra di straordinario interesse per la coniugazione di linee interpretative (psichiatriche più ancora che psicologiche) e per la leggibilità divulgativa che non rinuncia al nuovo, che vi è aperta in un orizzonte non confinabile in una serie di specifici problemi. Un piccolo capitolo scritto sulla logica del pensiero irriflesso, non per questo meno logico nei suoi meccanismi.

    Silvia Goi

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  3. Ringrazio sia Elena che Silvia, mi fa molto piacere che abbiate apprezzato.
    Omar Montecchiani

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  4. grazie, molto interessante. Vorrei conoscere meglio gli approcci corporei alle idee irrazionali. Lo dico come filosofa e consulente filosofico; è un aspetto che vorrei approfondire per coniugarlo alle prospettive che mi sono più familiari.

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  5. Molto interessante l’articolo. Vorrei suggerire al Dottor Montecchiani la possibilità di approfondire la tematica attraverso ulteriori articoli o incontri a tema.

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