> di Alberto Rossignoli*
«Il soggetto di cui vorrei narrare la storia è quello dell’io penso. Si tratta del soggetto nel senso più astratto del termine. Ce ne sono altri, lo so, quelli che la filosofia denomina uomo, coscienza, persona, borghese ecc. Vorrei indagare comunque il soggetto dell’io penso come un loro denominatore comune»[1].
Il soggetto, nel senso moderno di ego cogito, appare come risposta ad una mancanza: sparisce l’unità delle cose e viene introdotta nel soggetto.
Ciò che leggiamo in Cartesio è cominciato, in realtà, molto prima, col dissolversi dell’eterno in quanto ultima istanza filosofica, e non è ancora finito.
Lo svanire dell’eterno, spiega Olesen, incomincia già nella filosofia medievale.
I filosofi prendevano seriamente la concezione dell’ens come ens creatum: il considerare la creazione come superflua, come semplice (e platonico) impedimento alla conoscenza, ora è blasfemo. Già nella considerazione medievale l’uomo è un essere la cui conoscenza è obbligata a procedere per locorum ac temporum (Agostino ripreso da Tommaso nella “Summa theologiae”, q. 84, a. 5, resp.). L’uomo, d’altra parte, non è ancora posto al centro, finché Dio conserva la sua autorità nella filosofia; l’emergere dell’uomo al centro avviene sempre come risposta ad un’esigenza di fondamento.
Finché il Medioevo manterrà il realismo, il soggetto umano avrà un ruolo subordinato; le cose avevano realtà di per sé o almeno per Dio.
Ad ogni modo, il Medioevo finirà col scegliere la via moderna del nominalismo.
Lutero rende omaggio a Guglielmo di Ockham in quanto liberatore: se Dio è accessibile soltanto per la fede, i filosofi devono astenersi dal parlarne.
Dalla dodicesima regola di Cartesio sorge una questione: che cosa ci sia di scorretto nell’esprimere gli enti sensibili e le loro differenze per mezzo di figure differenti.
Ora, nella sua conoscenza, l’uomo costruisce un sistema di differenze per esprimere il mondo nella sua diversità. Cosa c’è di sbagliato in questo? «Nien’altro se non il fatto che facendo riferimento alle figure in quanto rappresentazioni di colori, noi non facciamo riferimento ai colori. Se accettiamo le figure, lasciandole significare i colori, sbagliamo. Così pure se riduciamo i colori all’indicazione di misura (la lunghezza d’onda), a una loro comprensione (il concetto) o all’esperienza che descriverebbe la psicologia. In ognuno di questi casi si parla di colori senza parlare di colori»[2].
Ed è questo il punto che Husserl critica: prendiamo per essere vero ciò che, in realtà, è metodo. Con Cartesio e Galileo, il mondo vero è stato (metodicamente) sostituito con il mondo matematico che è, in linea di principio, infinito.
Nel corso dello sviluppo iniziato da Cartesio, Galileo e altri, è decisivo che vi sia una trasformazione della matematica stessa: la via moderna della matematica fa dell’algebra, invece che della geometria, il fondamento della matematica stessa.
Gli enti matematici vengono concepiti, da qui in poi, a partire dalla funzione e lo spazio, da qui in poi, è sottomesso all’intelletto.
Noi umani inscriviamo gli enti matematici nello spazio perché siamo noi stessi inscritti in esso: è questo l’insegnamento di Aristotele.
Dopo Cartesio, pare che sia invece lo spazio inscritto in noi.
Ora, se il mondo intero viene misurato dal soggetto, come definire e misurare il soggetto medesimo?
Come precedentemente fu Dio o l’Idea, ad assurgere a fondamento nella filosofia, con Cartesio, è l’uomo, finché non incontra resistenza.
Nella quinta Ricerca logica, Husserl incontra l’Io nella sua forma pura o meglio, secondo Jean – François Mattei, nella sua forma vuota, quella che, intorno al 1900, fu difesa dai neokantiani. Il paragrafo 4 della V Ricerca di Husserl stabilisce il senso dell’Io nel discorso comune: è un oggetto empirico come tanti altri. Se facciamo astrazione dal corpo, l’Io esiste soltanto in quanto unità di intreccio dei “vissuti” e dei “contenuti” che, mediante leggi diverse, si annodano nel flusso della coscienza.
Di fronte a questo Io empirico si trova l’Io puro, il quale viene presentato nel paragrafo 8 della Ricerca, a partir da alcune citazioni dettagliate della Psicologia di Paul Natorp, secondo cui l’Io puro è il punto di riferimento in relazione a cui ogni oggetto è oggetto, sicché esso non si può definire, poiché una definizione ne farebbe ciò che non è, ossia un oggetto. In quest’occasione, Husserl si chiede: come un fatto fondamentale può essere valido in quanto tale se non si lascia definire?
Questo è il punto in cui si trova la differenza più importante tra la prima e la seconda edizione delle Ricerche logiche di Husserl.
Nella prima edizione, Husserl mantiene la concezione dell’Io osservabile come altri oggetti, ossia, a grandi linee, la concezione aristotelica secondo cui la ragione è pensabile allo stesso modo dei suoi oggetti.
Nella seconda edizione viene inserita, da Husserl, un’annotazione alla sua anteriore confessione di non poter trovare l’Io puro: avrebbe imparato a trovarlo. Si assiste così all’ingresso dell’Io puro nella fenomenologia. La revisione husserliana delle Ricerche logiche è tutta tesa a far concordare Aristotele e Cartesio nella domanda dell’Io puro, un tentativo, tuttavia, impossibile.
Quando viene finalmente a capo della metafisica moderna del soggetto, Husserl ripercorre tutta l’esperienza della filosofia moderna.
La risposta che dà Cartesio alla domanda “che cosa sono io?” è: res cogitans. Io sono una cosa che pensa. L’essere pensante è una cosa, una sostanza.
Di solito, la problematica cartesiana viene presentata come la questione del dualismo: ci sarebbero, da una parte, il corpo, l’esteriorità, il mondo, e, dall’altra, l’anima o lo spirito, l’interiorità. Di certo fu Cartesio a distinguere come enti diversi la res extensa e la res cogitans.
Res extensa e res cogitans, scrive Olesen, non hanno affatto lo stesso peso nella filosofia cartesiana e la questione del dualismo, se è un problema, lo è solo in modo subordinato.
Nella Seconda meditazione, il filosofo francese, partendo dal considerare un pezzo di cera che, scaldata, sI scioglie, si chiede che cosa sia questo pezzo di cera. Un’estensione. E che cosa è questa estensione? «L’esteso, l’estensione, è quell’identità della cosa che posso raggiungere con il solo intelletto, con questa capacità che nel latino di Cartesio è chiamata mens»[3].
Dunque, la res extensa in quanto tale risulta essere ciò che può essere colto solo dall’intelletto, ossia un concetto.
Pertanto, un certo pezzo della realtà estesa si rivela raggiungibile mediante il solo intelletto. Di per sé, la realtà non è accessibile né mediante i sensi, né mediante l’immaginazione. Nuda, essa è un pezzo di estensione, cioè un concetto. Nella sua nudità, il mondo reale consiste in quello che coglie l’intelletto, ossia in concetti. «Gli enti che i sensi e l’immaginazione afferrano non sono nient’altro che concetti vestiti»[4].
Si tratta, commenta Olesen, di un’eccessiva riduzione della realtà a un mondo di concetti; e la riduzione colpisce anche il punto di partenza del concetto, ossia il soggetto.
Dopo Cartesio, il mondo intero dipenderà dal soggetto; sarebbe pertanto sbagliato parlare di dualismo: in realtà non c’è niente di fronte al soggetto, essendo, quest’ultimo, divenuto assoluto. Semmai, siamo in presenza di un monismo.
L’essere pensante è una cosa che pensa, dubita, capisce, afferma, nega, vuole, non vuole, si figura qualcosa e si sente.
Il pensiero fondamentale è io penso, oppure, io sono: il pensiero fondamentale è quel pensiero che coglie se stesso; viene così espressa l’autonomia del soggetto, ma con ciò viene pure formulato lo sfuggire del soggetto a se stesso. L’Io, infatti, non ha un suo proprio contenuto, dato che, nella sua riflessione, può cogliersi solo nella negazione di ogni contenuto, pertanto con un procedimento negativo. Così, viene preso dall’Io il posto di Dio. Eppure la formula del fondamento divino della filosofia, come ricorda Olesen, era: Dio è il suo essere.
La crisi che incomincia dalla filosofia di Kant pone una norma: filosofia precritica non vuole indicare la filosofia prima di Kant, bensì la filosofia che non prende in considerazione il fatto che il nostro punto di vista sia umano. Inoltre, siamo esseri dipendenti, nel senso che siamo costretti a comprendere gli oggetti a partire dal tempo e dallo spazio, a pensare mediante concetti, dando giudizi ecc. La conoscenza umana è discorsiva, non intuitiva: è questa la differenza tra essere divino ed essere umano.
Nondimeno, la discorsività della conoscenza si deve poter ridurre ad un’unità, ad un punto fermo: nel pensiero kantiano, questo punto fermo è rappresentato dall’ Ich denke.
Risorge, con Kant, quel problema che è stato studio nella filosofia sin da Platone, cioè come può essere uno quello che unisce, quello che è uno per virtù degli enti differenti, dunque uno e molteplice al contempo.
In quanto unisce, il cogito è sintetico, in quanto unità è l’affermazione analitica “io penso”.
Proseguendo nel discorso, si può considerare l’analisi heideggeriana dell’ “esser-ci” come una radicalizzazione dell’analitica kantiana riguardante il soggetto umano in quanto soggetto della conoscenza.
Il punto chiave di Heidegger rispetto a Kant si mostra chiaramente in un’osservazione di Derrida. Per Kant, il punto di partenza è che l’uomo è limitato; non è un essere eterno e non è onnipresente. L’uomo è limitato dallo spazio e dal tempo. Eppure la questione che rimane sospesa è se tale caratterizzazione dei limiti sia sostenibile.
Al suo livello fondamentale, l’analisi dell’ “esser-ci” non descrive l’essere umano in quanto soggetto, ma lo descrive come essere limitato e mortale.
L’analisi dell’ “esser-ci” è un progetto abbandonato, che indica al di là di sé. “Essere e tempo” è un’opera che rimane incompiuta.
Ogni volta la filosofia del soggetto commette l’errore contro cui la dottrina dei paralogismi di Kant metteva in guardia: quello di ascrivere un contenuto al soggetto.
Dunque, la grandezza del soggetto e il tempo filosofico di Cartesio e Kant lasciano in eredità un problema: con il concetto del soggetto non se ne è fornita una cornice e, anzi, si è messo in guardia dalla determinazione di un contenuto. «Dove Cartesio domanda che cosa sono io? Non risponde con un ritratto di René. Eppure risponde almeno res cogitans. Ove Kant riprende il cogito, esso viene definito come “uno e lo stesso”, come “identità trasversale” in ogni coscienza. Il contenuto del soggetto non è descritto, ma viene presupposto: viene presupposto che sia qualcosa. La storia mostra che non è così»[5].
Nella Dialettica dell‘illuminismo, di Adorno e Horkheimer, l’Odissea omerica viene letta come protostoria della soggettività: nello specifico, il mito di Odisseo viene ad essere quello dell’Io il quale, attraverso prove terribili, perviene a se stesso. Ma allora, alla fine, giunge ad essere la storia delle orribili prove che ha dovuto attraversare.
Questa “metafora della navigazione”, spiega Olesen, rende conto del viaggio che hanno dovuto intraprendere i filosofi una volta che hanno accettato il fatto che ciò che è perfetto non è di questo mondo.
Ora, se consideriamo le Critiche di Kant, notiamo che il legame tra esse è un indizio del destino della metafisica nell’epoca moderna, un’indicazione che la metafisica ha perso la sua purezza.
Dobbiamo raggiungere la ragione a partire dai sensi; nell’intervallo tra queste due istanze si inserisce l’intelletto, che assumerà uno spazio abbastanza ampio nella Critica della ragion pura. Ma non ha luogo nemmeno l’incontro tra i sensi e l’intelletto, se non attraverso la mediazione dell’immaginazione, «che provvede al fatto che l’immagine di un oggetto, proveniente dai sensi, possa giungere al suo concetto, formato dall’intelletto, nello “schema” della concettualizzazione, assicurando la coesione dell’immagine»[6].
Ma così il viaggio sa fa più lungo.
In un titolo come Kritik der reinen Vernunft si trova un genitivo, osserva Olesen, che potrebbe essere sia obiectivus che subiectivus. Il significato di ciò è questo: è tanto la ragione che viene criticata quanto la ragione che critica. Ma è significativo che la ragione sia ragione solo dopo aver criticato se stessa: di fatto, la critica della ragione assurge a ragion d’essere e fondamento della ragione stessa la quale, peraltro, è tanto soggetto quanto oggetto della critica.
Nell’epoca moderna, la filosofia incontra la storia dal suo interno, nel suo fondamento. Ciò accade quando il soggetto si rivela influenzato dal movimento come qualsiasi altra istanza. In un passo decisivo di Sein und Zeit, in cui l’analisi del Dasein giunge al suo culmine, il movimento si manifesta a Heidegger come non meno enigmatico dell’essere: il nesso radicale dell’essere e del tempo si manifesta nel fatto che la temporalità è il senso dell’esser-ci. E l’esser-ci è l’essere-nel-mondo, laddove il mondo è sempre in movimento.
«La questione dell’essere rimanda costantemente a ciò che non è, poiché non è qualcosa: il tempo non è, similmente non è data “una” temporalizzazione […] siccome è anch’essa essere – cioè esserci […]. Nello stesso modo in cui l’esserci è essere-nel-mondo e non solo è nel mondo, così l’esserci non è nel tempo, siccome è temporalizzazione»[7].
L’esserci non costituisce l’unità fondamentale del movimento storico: la sua unità esiste solo in quanto momento di tale movimento.
L’elemento razionale-storico nella sfera della ragione è il fatto che è la storia del pervenire a se stessa della ragione.
La filosofia moderna fa dell’identità il fondamento di ogni ente, poiché l’identità di ogni ente risulta da un’identificazione; nessuna cosa, prosegue Olesen, può prendere su di sé questa identificazione, tranne l’uomo. Ogni giungere a se stesso dipende da questo se stesso che può pervenire a sé da se stesso: ecco l’io penso. Così il soggetto della filosofia è venuto ad essere formato dal soggetto umano. La storia della filosofia, tuttavia, rinvia al di là del soggetto, alla storia.
Ma quale storia? Come deve essere intesa la storia?
La storia, come ci dice Derrida, può essere un qualcosa che non è compreso fattualmente, dal momento che non può ricevere alcuna specifica denominazione.
Per Agamben, la storia è cairologica, nel senso che la storia «è storia in ogni momento, ma non si manifesta in ogni momento in quanto tale. Ci sono momenti più adatti di altri per far apparire la storia nel suo esser-storia»[8].
Come scrive Gadamer in Verità e metodo, la storia cronologica, dello spazio-tempo, cela quella interna, la storia cairologica.
La storia interna di un ente è, naturalmente, racchiusa in se stesso: se dischiudiamo quella storia, siamo condotti alla storia esterna.
La storia, tuttavia, non si lascia incapsulare in un sistema; il subiectum della filosofia moderna, l’uomo, non è un’istanza fissa. In più, se l’uomo è storia, allora il suo pervenire a se stesso è il pervenire della storia a se stessa.
Ma, ci si può chiedere, vi è un “se stesso” della storia?
Fu questo dubbio che spinse Derrida ad abbandonare la denominazione “storia” e a proporre la “diffèrance”.
L’uomo non rimane sempre lo stesso, ma ripete il movimento del divenire umano: l’uomo porta in sé, in ogni tempo, la storia.
Un testo essenziale, che assolve in pieno la sua missione di “breve storia del soggetto”; lo stile dell’autore non è da meno: essenziale, mai pleonastico né ridondante, evitando di ripetersi, pregio non indifferente nella scrittura filosofica, che alleggerisce non di poco non la sola lettura, ma l’apprendimento stesso dell’opera, per una più completa fruizione di essa.
S. G. Olesen, Breve storia del soggetto. Origine, sviluppo, dissoluzione, ed. Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 95, euro 10.
NOTE:
[1] S. G. Olesen, Breve storia del soggetto, Mimesis, Milano-Udine 2011, p. 7.
[2] Op. cit., p. 19.
[3] Op. cit., p. 32.
[4] Op. cit., p. 34.
[5] Op. cit., pp. 49-50.
[6] Op. cit., p. 61.
[7] Op. cit., p. 66.
[8] Op. cit., p. 81.
* Alberto Rossignoli, nato a Legnago (Vr) il 27/9/1983, ha conseguito una laurea triennale in Filosofia (2008) e una laurea magistrale in Scienze filosofiche (2010) all’Università di Verona.
30 dicembre 2014 alle 20:45
Assolutamente meraviglioso, lo consiglio a tutti.