Preferisce parlare di “violenza” anziché di “aggressività”. Perché?
Essendo uno psicologo, la mia scelta potrà apparire ancora più strana. Dopotutto, proprio la psicologia ha contribuito alla fortuna del concetto di “aggressività”: è facile notare come nel lessico scientifico occupi un posto di primo piano. Anche nelle nostre conversazioni quotidiane, il termine “aggressivo” è usato per descrivere un numero infinito di comportamenti con cui singoli o gruppi cercano di raggiungere i propri scopi e interessi gli uni contro gli altri. Così, possiamo dire che un bullo, un soldato, un politico, un atleta, un partner e così via siano aggressivi. Ma aggressività è un “termine sfortunato”: è soggetto a innumerevoli dispute semantiche, tali da rendere evidente che siamo in presenza di un concetto interpretativo piuttosto che descrittivo. Inoltre, a me pare che molti psicologi (e non solo) siano caduti nella trappola di credere che una moltitudine di comportamenti assai diversi siano riconducibili a un’unica categoria “naturale”, l’aggressività appunto. Proprio analizzando criticamente un simile convincimento, sono giunto alla conclusione che l’aggressività è veramente un concetto-valigia, ci si può infilare di tutto e di più, e quindi mi sembra scientificamente poco spendibile per comprendere e spiegare la varie e mutevoli forme della conflittualità umana. Per questo motivo preferisco il ricorso al concetto di violenza. Non che questo concetto sia privo di ambiguità, tutt’altro; ma rigettando l’alveo “naturale” dove si fa accasare la nozione di aggressività, il ricorso al concetto di violenza costringe a fare i conti con queste ambiguità, rendendole esplicite.
C’è davvero una “bestia” che si cela, in agguato, dentro ognuno di noi? Qualcosa di congenito e strutturale (un elemento biologico, un processo chimico, un fattore genetico)? O piuttosto qualcosa che prende forma nella relazione tra il soggetto e il mondo circostante?
Nel libro muovo i miei passi dal cranio del brigante Villella, da cui Lombroso trarrà ispirazione per elaborare la teoria dell’uomo delinquente, svolgo l’analisi sull’aggressività intesa come “energia negativa” (istinti per Lorenz e pulsioni per Freud), mi inoltro nell’“evoluzionismo pop” (scimmie assassine e uomo cacciatore), per poi approdare alle neuroscienze (cervello primitivo), alla sociobiologia e alla psicologia evoluzionistica (lotta per la sopravvivenza e genecentrismo). Ebbene, in tutto questo peregrinare non ho trovato alcuna teoria scientifica in grado di poter affermare sulla base di un solido fondamento empirico che questa bestia (ossia l’aggressività) sia dentro di noi. Perciò il bilancio finale non può che essere uno solo: no, non c’è alcuna bestia dentro di noi. Non c’è alcuna traccia di quella essenza negativa chiamata “aggressività” che dovrebbe ricoprire il ruolo di causa di qualsiasi male commesso dagli esseri umani. E sono convinto che per capire la conflittualità umana dobbiamo abbandonare la falsa dicotomia tra “natura” e “cultura”, e guardare alla persona che agisce in un contesto.
Esiste insomma la “violenza in sé”?
Secondo il World Report on Violence and Health la violenza è “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che determini o che abbia un’elevata probabilità di determinare lesioni, morte, danni psicologici, compromissione dello sviluppo o deprivazioni”. A me pare che questa definizione, smarcandosi dal concetto di aggressività, segnala che il ricorso alla nozione di violenza avviene perché lo scopo dell’agente è socialmente condannabile o comunque problematico. E, oggigiorno, si parla di violenza non soltanto quando si cagiona una lesione o si pratica con la forza una costrizione alla soggettiva libertà, ma altresì quando con strumenti qualsiasi, anche psicologici, vengono inferti danni e procurate sofferenze di qualsiasi tipo.
Cosa mostrano le ricerche scientifiche sull’argomento? A quali immagini infondate della violenza siamo ancora – erroneamente – aggrappati?
Le ricerche scientifiche sull’argomento sono vaste ed eterogenee, impossibile fornire un bilancio in poche battute, servirebbe perlomeno circoscrivere il campo, per esempio sulla violenza nella scuola, sulla violenza negli stadi, sulla violenza in famiglia e così via, e anche così facendo risulterebbe un’impresa proibitiva. In ogni caso, se proprio si vuole mostrare un quadro sintetico dello stato dell’arte, vale ancora quello che è stato scritto nel 1986 nel “Documento di Siviglia sulla Violenza”, redatto all’VIII Congresso Mondiale della International Society for Research on Aggression da psicologi, sociologi, antropologi, biologi, etologi, e altri figure professionali, ovvero: “Non esistono prove che la guerra, come ogni altro comportamento umano violento, sia frutto di un istinto, di un programma inscritto nella natura umana”. Nonostante questa posizione scientifica, l’immagine che continua a tenere al guinzaglio i nostri ragionamenti e che diventa il gancio a cui appendiamo i nostri sforzi per far fronte alla violenza è ancora la bestia dentro di noi (non a caso scelta come titolo del libro), ossia l’errata concezione di una maligna natura umana. Come se fosse possibile (e non lo è) spiegare, per esempio, la guerra, lo stupro, l’omicidio, l’infanticidio, il bullismo, eccetera, sulla base del medesimo imperativo istintuale o genetico.
Cosa possiamo dire della violenza – dal punto di vista strettamente scientifico – e cosa invece dovremmo smettere per sempre di sostenere?
Sulla base di quanto dicevo poco fa, il primo passo da compiere è quello di affrancarsi dall’idea che l’aggressività sia una categoria “naturale”. Poi smettere con la sterile ostinazione di voler localizzare l’aggressività in qualche area del cervello, nei cromosomi oppure nei geni. E farla finita con l’inutile esercizio di voler pesare i contributi della natura e i contributi della cultura nella determinazione dell’aggressività. A livello generale, possiamo dire che la violenza si presenta come una relazione e non come una “cosa” o una “essenza interiore”. E parlare di relazione vuol dire muoversi lungo i crinali di tensione tra individui, gruppi e Nazioni.
Le neuroscienze: sono d’aiuto in questa indagine o con il loro materialismo riduzionistico rischiano di condurre fuori strada?
Le neuroscienze, come qualsiasi altra impresa scientifica, sono di fondamentale importanza per il sapere umano. Il problema che vedo è l’uso improprio di questa conoscenza. Laddove si intende perseguire un riduzionismo deterministico, frazionare l’essere umano in tante piccole parti funzionali, per poi pensare che ognuna di queste parti possa spiegare fenomeni complessi e articolati come la condotta violenta. Se le neuroscienze dovessero seguire un programma di ricerca disaggregazionista, che smarrisce la necessità di considerare l’interezza degli organismi viventi, il posto occupato nel loro sistema socio-ecologico, allora sì corriamo il rischio di deragliare. Finiremmo di pensare, come già accaduto nel recente passato, che basta disporre di una qualche mappa frenologica per affondare il bisturi che rimuove alla radice il male prodotto dall’essere umano. Un simile progetto non è solo scientificamente irrealizzabile, ma i suoi metodi sono pure contraddittori rispetti ai fini perseguiti: sono metodi violenti che generano inutili sofferenze nelle persone che si pretende di “liberare dal male”.
Che ne è della morale e del diritto nella sua visione relazionale della violenza? In che senso e in che modo l’uomo va ritenuto responsabile (e punibile) per le proprie azioni?
Se, come dico in conclusione del libro, la biologia non è un ostacolo alla pacifica convivenza umana, e se è ormai venuto il momento di salutare la contrapposizione tra natura e cultura, credo sia giunto anche il momento di affrancarci dalla contrapposizione tra determinismo genetico e libero arbitrio. Gli studiosi che teorizzano la nostra dipendenza dai geni (o da altre entità) sono costretti ad ammettere che loro stessi sono in grado di disobbedire alla tirannia dei loro geni, possono così decidere, per esempio, di non generare una prole o di condurre una vita da altruisti (alla faccia di geni tacciati d’essere egoisti). Così facendo però, si dimostrano avari di dettagli; forse che esiste un gene per il libero arbitrio che ha la meglio su tutti gli altri? Certo che no, però queste teorie deterministe, finendo in un vicolo cieco, si arrampicano sugli specchi prospettando una soluzione individualista (molto cara all’imperante neoliberismo). In realtà, la responsabilità è un’istituzione sociale. Attiene al progetto umano di costruire comunità di vita e già dalla sua etimologia (respondeo) segnala che si tratta di un concetto relazionale: si risponde di qualcosa a qualcuno. Ora, le forme assunte dalla responsabilità sono varie e interessano differenti persone. E la nostra concezione di responsabilità è mutata nel tempo e continua a mutare. Basti ricordare che a noi non basta la responsabilità-causalità (chi ha fatto che cosa), ci interessa sapere il perché dell’azione. E usiamo pure una responsabilità senza causazione, come nel caso della responsabilità di ruolo che hanno i genitori rispetto a ciò che fanno i figli minorenni. Pertanto, la responsabilità si declina sempre all’interno di specifici spazi d’interazione, dove sono simultaneamente messi in gioco principi ed emozioni, interessi e ragioni, istanze soggettive e dettati societari. Pertanto le istituzioni umane continueranno a svolgere un ruolo centrale per definire la responsabilità e i soggetti di responsabilità. Nessun sapere scientifico potrà mai dire la parola finale su questi temi; potrà invece continuare a offrire conoscenze empiricamente fondate affinché una società stabilisca norme adeguate per i suoi cittadini e ispirate a criteri di giustizia collettiva, come nel caso dei contributi offerti dalla psicologia nell’ambito della giustizia minorile.
Abu Grahib, Columbine, Utoya: casi di devianza patologica, o qualcosa che potrebbe succedere a chiunque?
Comprensibilmente, diffuso è il desiderio che le tre vicende citate, seppure diverse da molti punti di vista, abbiano come protagonisti figure della violenza esaurite da una diagnosi. Magari una diagnosi che ci dica che costoro hanno un eccesso di aggressività. Forse come in nessun altro campo d’indagine il bisogno di rassicurazione si impone e guida i nostri ragionamenti. Però, i riscontri disponibili ci dicono che nessuno di coloro che hanno agito in questi scenari di violenza aveva una qualche forma di patologia, intesa in senso clinico. Quindi, la violenza agìta non è confinabile nell’altrove della patologia ma parla a tutti noi, ci riguarda. E ci riguarda non tanto perché io posso diventare l’aguzzino di Abu Grahib, il vendicatore sparatore della scuola di Columbine o il fanatico sterminatore di Utoya. Ognuno di noi ha una propria biografia e non possiamo certo essere riassunti nella categoria omologante dei “chiunque”. Ci riguarda invece perché ci impegna a guardare in faccia il significato della violenza, uno sforzo irto di interrogativi cui non vorremmo mai rispondere, preferendo il valium sociale dell’insensatezza.
Ogni tanto la televisione ci mostra casi di killer brutali che i vicini conoscevano fino a un attimo prima come persone tranquille e perbene. Follia latente e impercettibile? O un confine sottile, molto vicino alla “normalità”?
Credo che il problema risieda nell’idea che il “cattivo” sia identificabile in quanto portatore di un qualche stigma che segnali al resto della comunità chi egli veramente sia. Conoscendo le caratteristiche personologiche di individui che poi commettono atti violenti effettivamente si resta stupiti dell’accaduto, perché siamo abituati a pensare che il male venga commesso dal malvagio. In realtà, i fenomeni di violenza sono molto complessi e articolati e soprattutto hanno una storia e un significato. Con un esempio la spiegazione è più semplice e rapida. Poco fa ha menzionato Columbine e sappiamo tutti il dramma di questa scuola scossa da una violenza impensabile. Columbine non è purtroppo un caso isolato, per cui gli studiosi hanno cercato di tracciare un profilo dei vari studenti sparatori. Ebbene, com’era prevedibile, l’identikit di uno sparatore è sfocato e poco utile per identificarlo prima che passi all’azione. Invece, più nitide sono le ragioni che armano la sua mano. Benché abbiano commesso crimini, non sono devianti psicopatici. Sono invece studenti che rispondono al conformismo imperante nel loro ambiente di vita, estremizzandolo. Se impera la legge del più forte, allora vuol dire che c’è spazio solo per guerrieri e vittime. Gli sparatori, riscattando una storia di soprusi, angherie e ostracismo relazionale, decidono di stare dalla parte dei guerrieri, agendo una violenza considerata legittima alla luce delle umiliazioni provate. Gli sparatori condividono così le medesime credenze culturali dei propri oppressori; la violenza vendicativa è anche la riaffermazione di una mascolinità sino a lì calpestata. Ne consegue che dovremmo preoccuparci molto di più di ciò che accade “tra” gli esseri umani, piuttosto che “dentro” gli esseri umani.
Esistono ambienti, situazioni, modi di vivere e di intendere la vita che fomentano la violenza invece di sedarla? Pensiamo all’esercito, o alle prigioni.
Certamente, la storia è purtroppo ricca di esempi di tal genere e anche vari studi psicosociali, come il famoso esperimento della prigione simulata di Stanford, evidenziano quanta violenza gli esseri umani riescono a compiere agendo all’interno di un’organizzazione ritenuta legittima. La guerra è forse l’esempio più drammatico perché in guerra gli individui sono organizzati in modo tale che chi ha deciso di uccidere non lo fa e chi l’ho fa non l’ha deciso. Da qui la necessità di una rigida gerarchia, una catena del comando, un ferreo principio di autorità che lega e accomuna comandanti e comandati. Poiché ho già detto dell’importanza di analizzare cosa accade tra gli esseri umani, in simili contesti si punta a far sì che le interazioni siano esaurite da ruoli e regole contingenti, non concedendo spazio a relazioni personalizzate. Naturalmente, questo non vuol dire che i singoli sono forgiati unilateralmente dall’ambiente, secondo un rigido determinismo. Però i limitati gradi di libertà, la spogliazione della soggettività, l’asservimento all’organizzazione, i soprusi interpretati e legittimati come lavoro, e altri processi del genere preparano e sprigionano la violenza.
Luigi Zoja ha parlato dell’“asimmetrica forza del male”: occorrono decenni per maturare un atteggiamento pacifico, ma basta un attimo per cedere al furore omicida. Cosa ne pensa? C’è speranza per il nostro mondo afflitto dalla millenaria violenza umana?
Per rispondere partirei da una constatazione che a mio avviso troppe volte viene ignorata: nella storia umana il tempo della minaccia, della violenza e della guerra è largamente inferiore al tempo del lavoro, della costruzione di comunità, della pace. Poiché in noi non c’è alcun guerriero dormiente che aspetta di essere risvegliato da squilli di tromba e lo stato di partenza degli esseri umani non è quello di un conflitto (aperto o sopito che sia), a cui si cerca affannosamente di porre rimedio, a mio avviso serve un cambio di prospettiva: non è il male il soggetto, il soggetto sono gli esseri umani che fanno o non fanno ciò che chiamiamo male. Per l’essere umano, qualsiasi attività, come uccidere, comporta una consapevole presa di posizione rispetto a ciò che sta facendo. L’essere umano è sempre nella condizione di chiedersi cosa deve fare e perché deve farlo. Egli è libero nel senso che può svolgere una moltitudine di attività, può usare la forza contro un suo simile, o decidere di allearsi per cooperare, oppure ignorarlo. Quindi, la violenza è un’opzione. E se la violenza è un’opzione, c’è sicuramente la speranza (unita all’impegno di costruire comunità civili e giuste) che l’essere umano non la scelga.
Adriano Zamperini è professore di Psicologia della violenza, di Psicologia del disagio sociale e di Relazioni interpersonali all’Università di Padova. Tra i suoi libri: L’indifferenza (Einaudi, 2007) e L’ostracismo (Einaudi, 2010); (con M. Menegatto), Cittadinanza ferita e trauma psicopolitico (Liguori, 2011). È tra i curatori e autori di Psiche. Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze (Einaudi, 2006-2007).
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