> di Rudi Capra*
La pratica dell’intercultura in filosofia nasconde diversi rischi: l’incomprensione può essere frequente, così come l’esaltazione della propria prospettiva di origine (nel mio caso, sarebbe eurocentrismo) e l’esaltazione opposta, ma altrettanto deleteria, della differente prospettiva che viene presa in esame (che rivela un etnocentrismo ingenuo quanto il primo). Non ultima, esiste la tentazione di considerare i termini della comparazione come realtà indipendenti, chiaramente delimitate e facilmente descrivibili, quando invece locuzioni quali “cultura occidentale” e “mentalità orientale” corrispondono semplicemente a concetti astratti, che sono necessari in un contesto di analisi teorica, ma risultano irrimediabilmente manchevoli e imprecisi sul piano della realtà. Ciò vale per la pratica generale dell’intercultura, e vale ovviamente anche per questo saggio, in cui tali concetti vengono adoperati in modo intuitivo per stabilire un terreno d’indagine e potervisi muovere, al limite per descrivere la ricorrenza di alcune tendenze generali, e non dunque in modo fondativo, per stabilire cioè una volta per tutte che cosa sia la “cultura occidentale” o la “mentalità orientale”, compito che non tanto è arduo quanto le fatiche di Ercole, ma piuttosto vano, come l’unica, quotidiana fatica di Sisifo.
Tenendo conto dei punti specificati in apertura, le tesi di questo saggio possono essere riassunte in questo modo: primo, un gioco è il risultato di un lungo processo di codificazione di regole e successive modificazioni ad opera di uno o più contesti culturali e come tale può celare nella sua struttura alcuni indizi antropologicamente rilevanti. Secondo, gli scacchi esemplificano una mentalità e una visione del mondo tipica della cultura occidentale, così come il gioco del go rappresenta analogamente una mentalità e una visione del mondo idealmente opposte alla prima, ovvero quelle dell’estremo oriente (Cina e Giappone in particolare). Terzo, la comparazione di questi due giochi è in parte una comparazione di due universi culturali, e attraverso tale comparazione possiamo prendere coscienza della limitatezza dei rispettivi orizzonti e dischiudere nuove prospettive di pensiero.
Homo ludens
La riflessione sul gioco in filosofia acquisisce notevole prestigio a partire dalla Critica del Giudizio (1790) di Kant. Il filosofo prussiano afferma che il libero gioco delle facoltà conoscitive dà luogo al giudizio di gusto, che determina il bello e appartiene perciò alla sfera estetica[1]. Proprio la nozione di libero gioco, o meglio di «impulso al gioco» (Spieltrieb) si trova al centro della teoria estetica enunciata da Schiller nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1794). Secondo Schiller è proprio tale impulso o istinto al gioco (Spieltrieb) che media fra le percezioni sensoriali e le forme dell’intelletto e permette all’uomo di raggiungere la piena umanità seguendo uno schema tipicamente kantiano. Nella teoria di Schiller il gioco è un elemento dinamico che congiunge materia e forma. Sembra dunque possedere una connotazione pedagogica, benché nell’estetica schilleriana figuri non come attività quanto piuttosto come principio.
Per trovare una riflessione approfondita del gioco come attività bisogna considerare il celebre saggio Homo ludens (1938) di Huizinga. Lo storico olandese indagò il gioco come fenomeno antropologico e culturale, argomentando che giocare è un’attività non solo pre-sociale[2], ma addirittura trans-umana, dato che molte altre specie animali conoscono il gioco. Dunque aveva ragione Schiller a caratterizzare il gioco come fenomeno istintivo proprio della natura umana. Inoltre secondo Huizinga non si conosce alcuna società, per quanto primitiva, che non includa il gioco come fenomeno ludico, pedagogico o rituale.
In questo senso Huizinga parla di homo ludens: nelle civiltà il gioco si declina in vari modi. Può assumere forme rituali in contesti sacri, come ad esempio le danze tribali in cui ciascun componente impersona una figura mitico-religiosa, come accade in una recita. Oppure pedagogico, poiché in un gioco capita di imparare concetti estranei al gioco stesso. È ad esempio il caso di alcuni giochi per bambini in cui associando una forma o un colore ad una figura (per esempio la figura di un animale) si impara qualcosa sulla figura rappresentata. Il gioco consiste in una pura associazione ma veicola concetti inerenti ad altri contesti (ad esempio, al mondo degli animali). Ma il gioco può essere anche un processo creativo. L’espressione poetica o pittorica, la composizione musicale, la recitazione sono tutti esempi di gioco creativo. O ancora, un gioco può essere la rappresentazione astratta di un contesto particolare, come ad esempio quello bellico. Entrambi i giochi considerati in questo saggio, gli scacchi e il go, sono legati a quest’ambito. La polivalenza eterogenea, potenzialmente inesauribile del gioco è ben espressa in senso linguistico dal termine inglese play, la cui ricca semantica può significare (fra le altre cose): giocare, scherzare, suonare uno strumento musicale, interpretare, fingere, porsi in un certo modo.
Nel suo saggio Huizinga elenca cinque fattori che contraddistinguono necessariamente ogni tipo di gioco:
* Un gioco è libero[3]. La libertà è condizione necessaria per il gioco e giocare significa esprimere la propria libertà attraverso il gioco.
* Un gioco è separato dalla vita ordinaria. La vita del gioco si svolge in un contesto reale, ma differente.
* Un gioco si svolge in un luogo e lungo una durata di tempo alternativa rispetto alla vita ordinaria.
* Un gioco crea ordine, necessita ordine, è ordine. Ciò significa che deve possedere un regolamento interno che lo delimita e lo separa dal mondo ordinario. Se le regole del gioco vengono trasgredite con troppa frequenza o troppa intensità, la struttura del gioco collassa e la sopravvivenza medesima del gioco è in pericolo.
* Il gioco non è connesso ad alcun interesse materiale, né ad alcun profitto[4].
Ma Huizinga va oltre, affermando non solo che il gioco è fenomeno culturale, ma che è addirittura matrice originaria di ogni manifestazione culturale. I processi creativi, pedagogici e di formazione della sfera etica e religiosa sono dunque sovrastrutture che celano un istinto primordiale della convivenza umana non eliminabile, ovvero l’impulso al gioco.
In conclusione sembra appurato il proverbiale ossimoro che definisce il gioco una cosa seria. Ogni gioco si sviluppa in un determinato contesto sociale e parzialmente lo rappresenta. Il processo di creazione e codificazione delle regole è graduale e intimamente legato all’ambiente in cui sorge. Ad esempio il gioco dello Shatranj, di origine indiana, è un antenato degli odierni scacchi che prevede pezzi come l’elefante e il carro da guerra, sostituiti in occidente dall’alfiere e la torre. È curioso anche che l’alfiere in molti paesi protestanti sia chiamato ‘vescovo’ (bishop), con una connotazione quasi satirica, mentre in italiano abbia mantenuto l’etimologia araba (da al-fil, elefante).
Dunque risulta evidente che se, come Huizinga sostiene, un gioco è un evento culturale, la cultura sarà parte integrante del gioco medesimo e si esprimerà attraverso di esso. Inoltre possiamo finalmente dire, citando Schiller e la quindicesima delle sue lettere sopracitate, che un uomo gioca soltanto quando è un uomo nel pieno significato del termine, ed è completamente uomo soltanto quando gioca.
Scacchi
Gli scacchi e il go si prestano assai bene a una comparazione. In primo luogo da un punto di vista astratto, perché sono entrambi due giochi strategici. Nulla è lasciato all’influenza del caso e lo spirito che li anima è puramente agonistico, sciolto da qualsiasi idea di profitto o vantaggio. In secondo luogo da un punto di vista delle regole: sono entrambi giocati da due opponenti che si affrontano su un terreno comune. In terzo luogo da un punto di vista matematico: i pezzi del gioco sono definiti dalle loro funzioni, e in quanto tali sono sostituibili da variabili equivalenti in uno spazio di gioco matematicamente equivalente. In quarto luogo da un punto di vista materiale: un giocatore ha pezzi bianchi, il secondo ha pezzi neri e si gioca su una scacchiera divisa in caselle.
La differenze principali sono che le caselle negli scacchi sono bianche e nere, nel go sono tutte bianche; inoltre i pezzi degli scacchi si muovono all’interno delle caselle, quelli del go poggiano sulle intersezioni. Un ulteriore punto di contatto che li unisce è il rimando, comune a molti giochi di strategia, a un contesto bellico.
Il grande scacchista americano Paul Morphy disse: «Chess it is eminently and emphatically the philosopher’s game»[5]. Per scoprire cosa intendesse dobbiamo analizzare il gioco in maniera rigorosa: innanzitutto vi è una scacchiera, una superficie a griglia con sessantaquattro caselle bianche e nere. Ciò significa che il mondo degli scacchi è rigidamente delimitato dai bordi della scacchiera e consiste dunque nelle caselle contenute in tali bordi. Ma non solo: questo “mondo” ha anche una struttura fissa che non può variare, ovvero un’ulteriore suddivisione a caselle bianche e nere alternate. La scacchiera è dunque un terreno di gioco delimitato, chiaramente suddiviso e inalterabile. In questo terreno però agisce una polarità oppositiva, il dualismo di bianco e nero che, considerato nella sua interezza, rappresenta la totalità delle interazioni agenti sul mondo (scacchiera).
Nel gioco degli scacchi è dunque celata ed espressa simbolicamente un’intera metafisica. Per mezzo di una raffinata forma di astrazione visiva la scacchiera suggerisce che il mondo abbia una struttura fissa interpretabile secondo un’interazione duale (o plurale). Dunque Paul Morphy aveva ragione di sostenere che gli scacchi sono il gioco del filosofo, a patto che consideriamo la filosofia principalmente come il tentativo di descrivere il mondo con una teoria unitaria che tenga conto delle molteplici interazioni, postulando ovviamente
1. che il mondo sia trattabile come un puro oggetto;
2. che abbia una struttura fissa e interpretabile in termini assoluti.
Entrambi questi assunti sono smentiti dalla scienza contemporanea[6]. Nondimeno la visione del mondo e della conoscenza proposta (ma non inventata) dai grandi maestri della Rivoluzione Scientifica come Descartes, Galileo Galilei e Francis Bacon si avvicina molto alla presunta metafisica degli scacchi. Descartes per primo contribuì, con il suo cogito, a consolidare la fede in un soggetto assoluto e contribuire quindi alla definitiva oggettivizzazione del mondo naturale. Galileo espose la sua filosofia in un celebre brano del Saggiatore (1623):
«La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto»[7].
E Francis Bacon scrisse:
«the secrets of nature reveal themselves more readily under the vexations of art than when they go their own way»[8]
e :
«The essential form of knowledge…is nothing but a representation of truth: for the truth of being and the truth of knowing are one, differing no more than the direct beam and the beam reflected»[9].
La corrispondenza della realtà a un’esistenza oggettiva strutturata secondo leggi formali è un presupposto cardinale della prima filosofia della scienza. Questa convinzione viene rappresentata chiaramente negli scacchi, dove una realtà globale (la scacchiera) è strutturata secondo leggi precise e delimitata rigidamente dai bordi, dalla suddivisione in caselle equivalenti, dall’alternanza simmetrica di bianco e nero. La simmetria e l’ordine matematico sono alla base degli scacchi, così come sono alla base della realtà nella visione del mondo maturata in occidente. L’etimologia greca della parola kosmos (ordine) esprime chiaramente tale interpretazione, che non è dunque un prodotto originale della Rivoluzione Scientifica dell’età moderna, ma piuttosto una linea di pensiero implicita nella ricerca filosofica dell’occidente, da Platone (non entri chi non è geometra) a Whitehead che definì la filosofia come una serie di note a margine su Platone medesimo[10], ed oltre.
Anche i pezzi degli scacchi hanno caratteristiche precise e ben definite. Un alfiere si muoverà sempre in diagonale, la torre non lo potrà mai fare. Oltre alle proprietà specifiche dei pezzi che riflettono ancora una volta la specificità della ‘metafisica scacchistica’, analoga alla metafisica espressa dai pionieri della filosofia della scienza, vorrei ora soffermarmi sulle implicazioni sociali degli scacchi. Non bisogna dimenticare che gli scacchi affondano le proprie radici nella strategia bellica. Una leggenda indiana[11] narra che il brahmino Sessa inventò gli scacchi dopo che un re aveva perso il figlio in battaglia; mostrando il gioco al re, il brahmino gli fece comprendere che era impossibile vincere una battaglia senza sacrificare un pezzo importante. Gli scacchi sono dunque un gioco violento, ma non necessariamente esprimono una visione violenta della vita, poiché sono astratti da un contesto intrinsecamente violento: la guerra.
Ne consegue che gli scacchi non esprimono una qualche concezione della società, ma piuttosto una qualche concezione della guerra. I due schieramenti sono infatti obbligati a combattere e il combattimento durerà fino all’eliminazione di uno dei due contendenti, mentre il pareggio è contemplato soltanto come circostanza accidentale (esaurimento del tempo o delle mosse a disposizione) o come reciproca incapacità di offendere. Il regicidio sancisce la fine della lotta e, contemporaneamente, la fine del gioco. In un certo senso il gioco si regge sul dualismo bianco/nero e quando il dualismo scompare a causa dell’eliminazione di uno dei due poli, il gioco stesso non ha più ragione di esistere. Gli scacchi sono dunque un gioco di natura estremamente conflittuale, la cui violenza è astratta, formale, eppure spietata. Karpov a questo proposito disse
«Negli scacchi c’è tutto: amore, odio, desiderio di sopraffazione, la violenza dell’intelligenza che è la più tagliente, l’annientamento dell’avversario senza proibizioni. Poterlo finire quando è già caduto, senza pietà, qualcosa di molto simile a quello che nella morale si chiama omicidio»[12].
La tradizione psicoanalitica ha dedicato una copiosa letteratura agli scacchi. L’interpretazione maggioritaria evidenzia negli scacchi una sublimazione di impulsi violenti e omosessuali che si concludono con la prevaricazione e il dominio da un lato, e l’impotenza sado-anale colorita di masochismo, dall’altro[13]. Come è gerarchico il rapporto fra i singoli pezzi, così diviene gradualmente gerarchico il rapporto fra i contendenti in cui si ha un dominante e un dominato. Non è dunque errato definire gli scacchi un gioco estremamente conflittuale e gerarchico. La raffinata costruzione formale sviluppata da uno schieramento nello spazio della scacchiera mira alla distruzione totale dello schieramento opposto.
Ragionando con più attenzione scopriamo ulteriori punti di contatto fra scacchi e tattica bellica. Il generale von Clausewitz, uno dei massimi teorici della guerra in occidente, descrive la guerra come qualcosa che devia sempre dal piano prefissato[14]. Questo implica due fattori: primo, che una accurata preparazione e pianificazione sia necessaria; secondo, che non sia sufficiente a garantire un buon esito. Ne consegue che il genio del generale sta nel sopperire agli imprevisti con l’intuito, nel trarsi d’impiccio sfruttando un’idea brillante. Sempre von Clausewitz a questo proposito sostiene che una vittoria è tanto grande quanto più furono grandi le difficoltà incontrate nell’ottenerla[15].
E forse ricordando ancora una volta Platone, che nella Repubblica afferma che un generale si rivela più o meno abile a seconda che sia o non sia un geometra[16], von Clausewitz pensa la strategia a partire dalla geometria, ovvero affronta la realtà partendo da un modello, tenta di manipolare il concreto attraverso l’astratto.
Una simile situazione la ritroviamo negli scacchi, dove è necessario pianificare accuratamente diverse mosse in anticipo e molteplici strategie dipendenti da tali mosse; eppure anche in questo caso non sempre la miglior pianificazione garantisce il successo. E sarebbe superfluo sottolineare ancora una volta il valore della matematica in un gioco che si regge sulla potenzialità combinatoria di un limitato numero di pezzi che possono allestire un numero illimitato di geometrie.
Go
Inizierò, come per gli scacchi, dalla plancia di gioco. La scacchiera del go si chiama goban. È suddivisa in caselle (quella tradizionale ne conta trecentosessantuno) ma le pedine non vengono poste all’interno di esse e poggiano invece sulle intersezioni.
Questa caratteristica è già di per sé illuminante poiché il pensiero orientale non è affatto essenzialista come quello occidentale. Nella storia della filosofia occidentale troviamo numerosi riferimenti alla forma (eidos), all’essenza, e altrettanti tentativi di definizione. La filosofia in occidente ha spesso puntato a un grado di conoscenza assoluta e il perfezionamento del linguaggio è stato parte integrante di tale ricerca.
Le filosofie orientali al contrario ostentano palese diffidenza verso le potenzialità epistemologiche del linguaggio:
«Le corde esistono per prendere le lepri. Una volta prese le lepri, puoi dimenticare la corda.
Le parole esistono per esprimere le idee. Una volta espresse le idee, puoi dimenticare le parole»[17].
«Il tao che può essere definito non è il tao costante. I nomi che possono essere definiti non sono i nomi costanti. Senza nome è l’origine di tutti gli esseri, aver nome è la madre di tutti gli esseri»[18].
Persino maggiore è la diffidenza nei confronti dell’essenzialismo. Alcuni termini di uso comune nella lingua cinese vengono definiti con polarità oppositive; il concetto di ‘cosa’ letteralmente è espresso dalla locuzione ‘est-ovest’, quello di ‘paesaggio’ dalla locuzione ‘montagna-acqua’. La tradizionale cosmologia cinese si fonda sull’opposizione originaria fra yin e yang, la cui interazione dà luogo all’infinita varietà degli oggetti del mondo. Ma gli oggetti non possiedono esistenza intrinseca e non hanno alcuna essenza:
«Essere e non essere reciprocamente si generano; difficile e facile reciprocamente si completano; lungo e corto reciprocamente si formano; alto e bassi reciprocamente si invertono; suoni e voci reciprocamente si armonizzano; il prima e il poi reciprocamente si seguono; è costante»[19].
La realtà non può essere dunque considerata un oggetto, ma piuttosto un processo costante in cui le differenze sono illusorie e rimandano a un’invisibile unità che accoglie e dissolve in sé tutti gli opposti. Facendo riferimento a tale quadro culturale si comprende facilmente perché le pedine del go vengano giocate sulle intersezioni invece che all’interno delle caselle: se il goban è nel go la rappresentazione di un (micro)cosmo, così come la scacchiera lo è negli scacchi, si può ipotizzare che la casella rappresenti l’oggetto (o lo spazio) mentre l’intersezione rappresenti il rapporto fra gli oggetti (o gli spazi). In una cultura come quella orientale, più attenta alle relazioni e agli equilibri fra le cose che non alle cose stesse, il gioco del go viene giocato sulle intersezioni per evidenziare che è la pressione esercitata su tali equilibri che influisce in maniera determinante. Ed anzi, se non vi fossero tali relazioni non si potrebbe nemmeno parlare di oggetti, poiché gli oggetti medesimi sono determinati (originati) da tali relazioni, così come la struttura e le proprietà dell’atomo sono determinate dall’interazione delle microparticelle che da un punto di vista concettuale sono in esso contenute, ma in realtà lo compongono tramite il loro rapporto di coesistenza e co-dipendenza.
Allo stesso modo si comportano le pedine: anche in questo caso i due schieramenti sono bianco e nero, ma non esiste una rigida gerarchia di pezzi. Le pedine sono tutte uguali e nessuna può muoversi, vengono semplicemente poggiate sul goban via via. I raggruppamenti, i vuoti e le distanze fra le pedine creano dei campi d’interazione destinati a creare delle sfere d’influenza sul goban. Il go è infatti un gioco territoriale, il cui scopo consiste nel garantirsi, tramite la semplice apposizione di pedine, il maggior spazio possibile. Non avendo le pedine qualità specifiche (come ad esempio l’onnipotenza della regina o il movimento del cavallo), la loro importanza è data dalla natura dei rapporti che esistono fra esse e le pedine dello schieramento avversario. Come nella cosmologia taoista, il mondo naturale è animato da campi di forza e sono i campi stessi a garantire la sua esistenza e la sua perpetuazione.
Dunque il go ci parla di una realtà diversa da quella degli scacchi, una realtà dove nulla è immutabile o definibile poiché l’essenza della realtà è il cambiamento stesso. Nelle culture tradizionali dell’estremo oriente lo spazio come concetto astratto non fu mai concepito. Anche in questo caso la lingua cinese usa, per definire un concetto analogo allo spazio (Tiandi), un’opposizione (Cielo-Terra). Lo spazio concreto è invece definito dalle molteplici relazioni che concettualmente avvengono al suo interno, ma solo concettualmente; poiché (come nel caso del modello atomico) sono le relazioni stesse a comporre il concetto di spazio che perciò non ha esistenza indipendente. Al di là delle relazioni che lo formano lo spazio esiste dunque soltanto come astrazione nelle menti dell’osservatore e non ha quindi senso parlare di ‘contenuto’ e ‘contenitore’, piuttosto bisognerebbe evidenziare l’interdipendenza dinamica di tutte le cose. Una visione nettamente discorde con la Weltanschauung rigidamente strutturata e rigorosamente suddivisa proposta dalla Rivoluzione Scientifica dell’età moderna, e che tuttavia si avvicina molto alle teorie contemporanee sull’universo quantistico[20].
L’origine del go è sicuramente riconducibile a uno sfondo bellico, come gli scacchi. E il suo svolgimento presenta infatti numerose affinità con il celebre Arte della guerra di Sunzi. Nel celebre trattato, compilato fra il VI e V secolo a.C., è scritto:
«1. Dichiarata la guerra, il risultato ideale è di prendere intero e intatto il paese nemico. Danneggiarlo o distruggerlo non è altrettanto buono. Del pari, è meglio catturare un’armata, o un reggimento, o una compagnia, o un distaccamento intatti piuttosto che distruggerli.
2. Perciò, combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza: la suprema abilità consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere.
6. L’abilità del comandante consiste nel piegare le forze del nemico senza alcun combattimento, nell’impadronirsi delle città senza assalirle, nel conquistare lo stato nemico senza lunghe operazioni militari»[21].
Nell’Arte della guerra, come nel go e diversamente da quanto accade negli scacchi, l’obiettivo non è l’eliminazione definitiva dell’avversario, uno scopo che assomiglia molto ad una Endlösung, bensì la ricerca di un equilibrio favorevole. Benché le pietre di uno schieramento possano venire catturate (e dunque eliminate), il giocatore di go non mira alla distruzione dell’avversario, in primo luogo perché è inutilmente dispendioso, in secondo luogo perché non è realistico: per quanto possa venire schiacciato, umiliato e annichilito, un nemico non cesserà mai di risorgere. Meglio dunque cercare un equilibrio favorevole (una configurazione di pietre vantaggiosa) che sottragga terreno al nemico e lo confini in aree facilmente controllabili.
Inoltre,
«11. Le autentiche vittorie non portano reputazione per la tattica adottata né credito per il coraggio dimostrato (in un combattimento sanguinoso)
12. Il generale eccellente vince le battaglie senza commettere errori. Non fare errori significa che, qualunque cosa faccia, si assicura la vittoria: egli vince un nemico che è già battuto»[22].
A differenza di von Clausewitz una vittoria non è maggiore se ottenuta con maggiori difficoltà. Anzi, il buon generale secondo Sunzi è invisibile, poiché batte un nemico già battuto e lo batte senza combattere: nel senso che un attenta valutazione degli equilibri e dei fattori in gioco spinge naturalmente il nemico alla sconfitta, così come la gravità spinge naturalmente i gravi a cadere verso il basso. In questo senso il nemico è battuto ancora prima di combattere, e la vittoria ottenuta è talmente facile che la mano del generale è invisibile, giacché non necessita di alcun colpo di genio o alcuna sortita coraggiosa per condurre il proprio schieramento alla vittoria.
«Nel mondo nulla è più molle e debole dell’acqua, ma per attaccare ciò che è robusto e solido, niente può superarla, poiché essa non può essere sostituita. Perciò il molle vince il duro, il debole vince il forte»[23].
La debolezza dell’acqua viene spesso accostata al tao nei testi sapienziali. Il tao, come l’acqua, agisce invisibilmente esercitando una forza costante ma incontrastabile. Chi si oppone al tao presto finisce[24], e allo stesso modo l’abilità del generale non sta nell’infondere coraggio o nel concepire strategie elaborate, quanto piuttosto nell’intuire la direzione del tao e sfruttarla a proprio vantaggio, così come l’ammiraglio di un veliero poteva sfruttare il momento di vento favorevole o la forza di una corrente per attaccare la nave nemica.
L’abilità del giocatore di go consiste dunque nel percepire la direzione in cui gli equilibri si evolveranno, anticipandoli e influenzandoli per ottenere una vittoria che sembrerà scontata sin dall’inizio; non essendo data una precisa configurazione spaziale, né una specifica abilità delle pedine, come negli scacchi, il giocatore di go dovrà volgere gli eventi a proprio vantaggio con naturalezza e spontaneità.
Vi è un ulteriore punto di scarto fra scacchi e go, fra la visione della guerra in occidente e la stessa in oriente:
«31. Come l’acqua traccia il suo corso seguendo la natura del terreno dove scorre, così il generale pianifica la tattica vittoriosa in rapporto al nemico che ha di fronte.
32. Perciò, come l’acqua non mantiene una forma costante, così in guerra non vi sono situazioni immutabili.
33. Colui che è in grado di modificare i suoi piani, adattandoli all’avversario, e perciò ottiene la vittoria, può essere definito un condottiero divino»[25].
Queste asserzioni sono sicuramente valide anche per il gioco degli scacchi, così come per la guerra in occidente, che come afferma von Clausewitz è solita deviare dai binari prestabiliti. Tuttavia nella visione della guerra del generale prussiano vi è comunque un riferimento a un modello astratto, ed esiste un’ispirazione ai principi della geometria e una tendenza alla pianificazione. L’idea che gli eventi e i fenomeni naturali si dispieghino secondo certi schemi parzialmente, se non completamente, regolari, è sottesa all’intera ricerca filosofica occidentale e lo è conseguentemente anche negli scacchi, dove la pianificazione e il riferimento a geometrie concrete o immaginarie, attuali o anticipate, è senza dubbio necessario.
Mentre per il giocatore di go una pianificazione potrebbe risultare deleteria: la rigida adesione ad un modello significa incapacità di adattarsi alle circostanze, e l’incapacità di adattamento significa, nel gioco come nella realtà, essere destinati all’estinzione.
Conclusioni
Le conclusioni si possono riassumere sostanzialmente in tre punti.
In primo luogo si può affermare che i giochi considerati in questo saggio siano veri e propri fenotipi culturali, capaci di rappresentare nel proprio microcosmo alcuni tratti fondamentali del sostrato socio-culturale cui appartengono. È interessante che alcuni studi[26] facciano risalire il gioco degli scacchi alla Cina, poiché mentre in oriente il gioco del go era altamente considerato, tanto da far parte delle quattro arti dello Junzi, indispensabili per essere considerato un gentiluomo, gli scacchi trovarono pieno sviluppo e moderna formulazione soltanto a partire dal Medioevo e ciò accadde nel bacino del Mediterraneo, dalla Crimea e i principati russi fino ai califfati berberi e andalusi.
In secondo luogo si può sintetizzare la comparazione come segue. Pur essendo due giochi che oppongono due giocatori, due schieramenti (uno bianco e uno nero) e si giochino entrambi su un supporto, scacchi e go presentano notevoli differenze, e le differenze del sistema di gioco corrispondono ad analoghe differenze culturali. Un’interpretazione del mondo basata sulle nozioni di forma, essenza, oggetto e soggetto in occidente; un’interpretazione del mondo basata sulle nozioni di processo, trasformazione, interdipendenza e relazione in oriente. Più in generale, in occidente si preferisce la dicotomia, in oriente la polarità; caratteristica di quest’ultima, rispetto alla prima, è il richiamo implicito a una più grande unità.
Le medesime considerazioni valgono per la natura diversamente astratta dei giochi: la natura meravigliosamente concettuale, eroicamente algebrica degli scacchi riflette la mentalità occidentale, da sempre votata all’astrazione, alla definizione, all’elaborazione, all’incessante modificazione del reale in vista di un modello teorico. Le filosofie orientali, meno interventiste e più meditative, sono più dedite all’osservazione e prediligono l’immanenza a una sofisticata trascendenza; così nacque il go, intriso di una simbolica purezza che si ritrova incontaminata nelle opere d’arte di ispirazione zen, e di un fiero spirito intuitivo che non abbisogna di premesse originarie né di ulteriori giustificazioni.
Tale concezione dell’universo si estende alla guerra, il cui scopo in occidente è spesso l’eliminazione di un problematico Altro (il Persiano, il Turco, il Moro, il Tataro), mentre nel gioco del go l’eliminazione o la cattura sono effetti collaterali di un necessario processo di riassestamento che coinvolge uomini e popoli, stati e natura. Ma l’uguaglianza delle pedine sembra alludere all’uguaglianza degli uomini, al di là di nomi e gerarchie. La stessa visione della guerra si trova nel Daodejing:
«Le armi sono oggetti sfortunati. Tutte le creature le detestano; perciò chi ha desideri non vi permane. […] solo se non se ne può fare a meno si usano […] Se si uccidono molti uomini, si piangano con lutto e rammarico; il vincitore in battaglia occupi il posto dei riti funerari»[27].
Oltre alla differenza di ciò che c’è, è opportuno considerare anche la differenza di ciò che manca: ovvero, il vuoto. Il vuoto riveste un ruolo fondamentale nelle filosofie orientali. Nel gioco del go, il vuoto iniziale del goban rappresenta l’unità indifferenziata originaria, da cui furono generate tutte le cose. E le pedine del go si contendono il territorio, che è in fondo null’altro che una porzione vuota del goban, delimitata dalle pedine stesse. È il vuoto stesso che permette alle pedine di esistere e di combattere per esso; senza il vuoto originario non vi sarebbe alcun territorio, e senza territorio non si potrebbe stare in nessun luogo.
«Trenta raggi si uniscono in un mozzo; consiste in ciò che non è, l’utilità del carro. Si lavora la creta per farne utensili. Consiste in ciò che non è, l’utilità degli utensili di creta. Si aprono porte e finestre; consiste in ciò che non è, l’utilità della stanza. Perciò se esiste è considerato un vantaggio, se non esiste un’utilità»[28].
«La frammentarietà è negativa perché gli uomini tendono a considerarla lacunosa, e tentano di colmarla. Il tentativo di colmarla è negativo, perché il frammentario, in realtà, è già integro»[29].
Il vuoto è condizione non solo preliminare, ma essenziale per l’esistenza, come nel sistema democriteo in cui permette agli atomi il movimento. Il vuoto di cui si parla in questo saggio non è ovviamente un vuoto spaziale, ma anche temporale e logico. La nozione di vuoto include anche l’essere-in-potenza aristotelico, così come l’incommensurabilità del ‘Mistico’ di Wittgenstein. Il vuoto è potenzialità, e assenza che permette la presenza di qualcos’altro. Il vuoto è assenza di forme fisse, poiché la realtà non consiste nel suo essere, ma nel suo divenire.
Negli scacchi il vuoto è invece utilizzato prevalentemente per colpire l’avversario: alcuni accorti spostamenti permettono di colmare spazi vuoti in precedenza e di avvantaggiarsi per mezzo della sorpresa. Non meraviglia che una mentalità come quella occidentale, nonostante la poca considerazione che ha dimostrato per il concetto di ‘vuoto’ nel discorso filosofico, sia riuscita a sfruttarne appieno le caratteristiche, perlomeno nel gioco degli scacchi. La disposizione dei pezzi si regge difatti su un sofisticato equilibrio di caselle protette e caselle vuote. La progressiva occupazione di alcuni vuoti fondamentali permetterà al giocatore più scaltro di prevalere sull’avversario, aprendo altri vuoti che verranno a loro volta sfruttati.
La terza ed ultima conclusione di questo saggio è relativa all’utilità del saggio medesimo. Se davvero i giochi sono fenotipi culturali, e se davvero scacchi e go sono degni rappresentanti delle rispettive culture, ne consegue che una comparazione di questo tipo è una comparazione culturale.
Resta da stabilire se vi sia un’utilità nella comparazione, e quale sia questa utilità.
Per spiegarlo vorrei ricorrere a Platone e al celeberrimo mito della caverna, spesso citato in ambito epistemologico, che invece adopererò in senso più lato.
Una comparazione include necessariamente una differenza, o non vi sarebbe che la ripetizione di un’identità. La differenza sorge tuttavia con il contesto comparativo, poiché la differenza è sempre in relazione a qualche cosa; la differenza è ‘differenza da’ e include necessariamente un termine di comparazione, specificato dal ‘da’.
Dunque si può affermare che la comparazione genera delle differenze che in precedenza non avevamo considerato, non credevamo possibili o non eravamo neppure in grado di concepire. L’Ermetismo di Ungaretti rappresentò una novità nel percorso poetico occidentale, che aveva sempre distinto chiaramente fra poesia e aforisma. Un componimento come Mattina mette in crisi non solo la distinzione formale tra poesia ed aforisma, ma anche la distinzione fra poesia e frase. La portata rivoluzionaria dell’Ermetismo è però in debito con la tradizione poetica giapponese, da sempre improntata a una brevità enfatica, che i poeti ermetisti ebbero modo di conoscere sulle pagine di alcune riviste letterarie[30]. Non per questo il carattere di originalità dell’Ermetismo va svilito, ma la sua portata rivoluzionaria è limitata a una sola prospettiva, quella occidentale.
Il debito ormai assodato che l’Ermetismo poetico contrasse nei confronti della poesia giapponese è in realtà il frutto di una comparazione estetica. L’arte poetica del Giappone costituì un naturale termine di comparazione per la tradizione letteraria dell’occidente. La differenza che ne scaturì diede vita a una nuova corrente poetica, tanto originale quanto semplice, improntata all’enfasi simbolica racchiusa nella brevità compositiva.
Con ciò vorrei dimostrare che la differenza generata dalla comparazione è una differenza che non saremmo mai stati in grado di vedere al di fuori del contesto comparativo. Poiché ciascun essere umano nasce in un determinato contesto socio-culturale, antropologico e storico, eredita da tali contesti specifiche prospettive, come la mentalità, il linguaggio, l’etica. Fino a quando un individuo non si scontra con una prospettiva differente, le sue prospettive sono trascendentali, ovvero sottese ad ogni sua possibile esperienza. La comparazione è capace di de-trascendentalizzare le prospettive, relativizzandole; l’idea apparentemente semplice di scrivere poesie brevissime con alte implicazioni simboliche era oscurata da una prospettiva trascendentale imposta da una tradizione letteraria secolare. L’incontro con la poesia giapponese aiutò Ungaretti a relativizzare tale prospettiva e produsse i risultati che tutti conosciamo.
Ed è qui che il mito della caverna si rivela significativo: colui che si dedica alla comparazione è come il prigioniero liberato, che emancipandosi dai muri della caverna (i limiti della propria cultura) e da un mondo di ombre (il valore assoluto delle prospettive culturali che ha assorbito) compie un percorso (la comparazione) verso la vera luce (il relativismo culturale) che gli permette di vedere gli oggetti reali così come sono realmente (non valori assoluti, ma valori relativi di relativi universi culturali).
La filosofia della comparazione è dunque capace di schiudere orizzonti sconfinati a chi la pratica; orizzonti che si aprono non di fronte, ma all’interno dell’osservatore, relativizzando e ridimensionando valori che in precedenza ostruivano tutto il suo sguardo e che ora gli permettono una ricerca più vasta, più completa. E permettono al liberto di accedere ed uscire dalla caverna a suo piacimento, scegliendo il grado di luce o penombra che più gli aggrada. Se egli deciderà di ritornare nell’umida oscurità della caverna, lo farà consapevolmente e in piena coscienza, tramite una scelta esercitata nel pieno delle sue libertà.
Non affermo difatti che la cultura di origine è inferiore rispetto a quella di approdo; luce e ombra non hanno qui, come in Platone, valore gerarchico, ma rappresentano soltanto due lati del medesimo giorno, due poli che alludono a un’unità superiore, come il bianco e nero degli scacchi e del go, come le due culture che scacchi e go rappresentano e che costituiscono anch’esse due fra le innumerevoli facce che può assumere la creatività proteiforme degli esseri umani.
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Note
[1] I. Kant, Critica del Giudizio, p.143, Laterza, Roma-Bari 1997.
[2] « Play is older than culture, for culture, however inadequately defined, always presupposes human society, and animals have not waited for man to teach them their playing », da J. Huizinga, Homo ludens, p.1, Routledge & Kegan Paul, Londra 1949.
[3] La libertà come necessario presupposto del gioco rimanda ovviamente a Kant.
[4] Curiosamente, Huizinga non considera il gioco d’azzardo come un’attività ludica, ma come un pervertimento della stessa. Posizione nettamente contestata da R. Caillois (1958).
[5] Tratto da un discorso pubblico tenuto al ‘New York Chess Club’ il 25 maggio 1859.
[6] La meccanica quantistica in particolare pone il doppio problema del coinvolgimento del soggetto nell’osservazione scientifica e della mutevolezza dei risultati a seconda che si voglia considerare la realtà in termini di onde o particelle. La scienza contemporanea inoltre rigetta in toto la visione statica di un soggetto opposto a un oggetto, anche perché il soggetto (l’uomo) è sempre dinamicamente e relazionalmente coinvolto nell’indagine sull’oggetto (il mondo) che lo contiene.
[7] Si veda il cap.VI, Il saggiatore.
[8] F. Bacon, GI, IV:95.
[9] F. Bacon, Advancement of Learning, Bk:I.
[10] A. Whitehead, Process and Reality, p. 39, Free Press 1979.
[11] Citato in E. Lasker, Adventure of Chess.
[12] Citato in M. Pastonesi e G. Terruzzi, Palla lunga e pedalare.
[13] Vedere la bibliografia per le fonti.
[14] C. von Clausewitz, Della guerra, VIII.
[15] Citato in F. Jullien, Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente, p.37.
[16] Platone, La repubblica, VII.
[17] Zhuangzi, 26.
[18] Daodejing, 1.
[19] Ibidem, 2.
[20] Si veda F. Capra, Il tao della fisica.
[21] Sunzi, Arte della guerra, 3.
[22] Ibidem, 4.
[23] Daodejing, 78.
[24] Ibidem, 30.
[25] Sunzi, op.cit., 6.
[26] Fra cui D. Li, The Genealogy of Chess.
[27] Daodejing, 85.
[28] Ibidem, 11.
[29] Zhuangzi, 23.
[30] La rivista La Diana, di cui Ungaretti era lettore fedele prima e collaboratore assiduo poi, era solita pubblicare vari componimenti di poeti giapponesi.
*Rudi Capra è nato il 17/10/1989 a Lugo, in provincia di Ravenna. Ha conseguito una laurea triennale all’Università di Siena (2011) in Epistemologia Generale e Storia della Filosofia contemporanea, e una laurea specialistica all’Università Sorbonne Paris-IV (2013) in Estetica Contemporanea e Filosofia dell’Arte. Attualmente sta svolgendo un dottorato di ricerca in Estetica Comparativa e Filosofia Interculturale all’University College di Cork, con particolare attenzione al pensiero filosofico in Cina e Giappone. È anche collaboratore e co-fondatore del blog di cultura e filosofia ‘La MalaParte’.
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25 gennaio 2015 alle 10:57
Modi categoriali e tempo, di Giuseppe Brescia. Si ponga attenzione al fatto che anche la cultura “occidentale” coltiva l’ “attimo” ( Platone ), i “modi categoriali” e e principi regolativi” ( Kant ), il Vitale come “fondo originario” del mondo della vita (ultimo Croce, Husserl, Ortega ), la critica dell'”essenzialismo” (Popper), l’archetipo (Jung). Forse qui è la dialettica di Memoria – sentimento-tempo, alle origini del rapporto tra le forme, e della “contrapposizione” Occidente – Oriente. Le “intersezioni”sono ai vgertici della epistemologia contemporanea ( scienze di frontiera, neurobiologia, fisica quantistica ). Le intersezioni sono nei processi della comunicazione. Inoltre, sono “deboli” e “forti”, nel contempo, perché “fondative” ( ripensando tutta la “querelle” sul cosiddetto “deboilismo”). In sede ermeneutica, l’attimo ricorda l’ “intemporaneo” di Eugenio Montale che nelle “Stagioni” dice di non pregiare alcunm della Quattro stagioni bensì il momento del “passaggio” tra le stesse. E la “duttilità” previsionale della rivisitata “arte della della guerra” è postulata dal fatto che il male è forse “settumplice” come recita il Vangelo di Luca, ben più che “duplice” come del Doppio drago del San Michele di Bamberga ( Apocalisse ). Del resto l’attimo, l’intemporaneo del tempo, il senso del passaggio è già nel grande acquisto dell’ideogramma cinese, rivisitato da Ezra Pound. Queste sono alcune riflessioni integrative al saggio sul Gioco. Giuseppe Brescia
26 gennaio 2015 alle 11:30
Grazie, molto stimolante. R. Capra