Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Onirismi eterotopici. Montaigne e il suo sogno barocco

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> di Federico Filippo Fagotto*

Su questa scena immensa,
giocar solo apparenze
[1].
– W. Shakespeare, Sonetto 15 –

1. La tempesta delle illusioni

Somnium narrare vigilantis est[2], recita Seneca citato da Montaigne tra le righe degli Essais. Il francese gli chiede aiuto per il suo forzo razionale di discernere le dimensioni del senso e prendere coscienza di quei luoghi che la mente confonde, dando credito alla fantasia e conferendo spazialità alle chimere più eteroclite. L’impeto luminare con cui Montaigne ritiene che «bisogna tenere l’anima ben desta»[3] è il gesto di un umanista non convenzionale – ma pur sempre innamorato della dignitas hominis – che intende svernare dall’alito corvino delle ideologie medievali e che, non ancora incantato dalle promesse dell’avvenire, ambisce a vivere quel presente ostacolato dal peso della tradizione, che rende galeotto lo spirito. «I miei spiriti, come in un sogno, si sentono affatto prigionieri»[4] sembra volergli rispondere Shakespeare attraverso il Ferdinand di The Tempest. Uno stigma del sentire dell’epoca, a quanto pare, e un silente anelito a infrangere le catene della credenza per farsi passare quel torcicollo della devozione che costringeva l’uomo a guardarsi indietro e, ad un tempo, genuflettersi dinnanzi al simulacro del misoneismo.
In questo clima, Montaigne è conservatore ma non reazionario, un quietista in parte prometeico, un conformista dinamico, che in fondo detesta la schiavitù dell’anamnesi con cui, evocando il passato, si impedisce l’adesione all’hic et nunc. «Accade come per i miei sogni» – confesserà allora negli Essais – «Sognando li raccomando alla memoria […] ma più mi affanno a ritrovarlo, più l’affondo nell’oblio»[5]. Questa «vana immagine» di cui il ricordo non afferra che scarsi residui, «è cosa molto lontana e più simile ad un sogno, che non ad una qualche certezza di cui la memoria possa farsi garante»[6], come dirà anche Miranda, sempre in The Tempest, alle prese con le incertezze cognitive e le trappole gnoseologiche di cui Prospero imbastisce la sua isola utopica, emule della societas perfecta descritta da Moro e in parte antesignana dell’Atlantide baconiana.
Ma l’immagine del sogno, a quel tempo, più che come utopia soleva presentarsi come eterotopia, terreno d’evasione, oltre il confine del dolore e della coscienza coartata. Il primo risveglio dal sonno dogmatico dopo la letargia medievale ha infatti lasciato un sapore amaro, dal momento che «il sogno si è offerto, ma è rimasto elusivo, inafferrabile: la memoria non ne ha conservato nulla»[7], come afferma Starobinski nel suo studio su Montaigne. Il filosofo francese, infatti, condivide l’emancipazione antropologica del suo tempo che, con la ragione di Stato di Botero e le analisi di Bodin, desacralizza la posizione del monarca per gratia dei – e, con esso, il ruolo stesso della Chiesa – facendo prevalere l’impostazione okchamiana del consensus gentium, che nel pensiero di Montaigne si fonda sulla forza dell’abitudine. Contemporaneamente, egli si avvede che la spregiudicatezza del princeps machiavelliano, la legge della forza in stile Tucidide, i conflitti e le atrocità che imperversano per tutta l’Europa fanno rimpiangere il sogno ottenebrante e il sopore intellettuale della melliflua incoscienza. Il 1588, in particolare – anno dell’ultima pubblicazione degli Essais – vede il cruciale episodio storico del conflitto anglo-iberico e l’inusitata sconfitta dell’Armada spagnola a causa della tempesta che la colse durante il tragitto atlantico. Il titolo stesso dell’opera shakespeariana – assieme a centinaia di esempi rintracciabili nel teatro e nella letteratura dell’epoca – è patente. La condizione umana a cavallo tra XVI e XVII secolo è in balia dei nubifragi della sorte e succube dei capricci del caso. L’uomo shakespeariano, così come l’uomo montaignano, capisce così che, anziché essere artifex sui, è ancora soggetto alle aorgiche forze del caos. La sua condizione è – per dirla con Enrico IV – quella di un naufrago alla deriva su di un banco di sabbia. Qualsiasi sforzo ordinatore e comprensivo, foss’anche l’intento metodologico della rivoluzione scientifica, farà sentire l’uomo pur sempre come un misero collezionista di conchiglie a cospetto dell’oceano dello scibile, così come a suo tempo si descriverà modestamente Isaac Newton.

2. Oltre la logica

Di qui la fuga nelle fantasie, l’asilo dell’onirismo che sorbirà a piene mani dalle acque del Lete per obliare la recrudescenza del reale, nell’imperativo del Faustus marlowiano: «Spegni la sofferenza in un sogno quieto»[8]. L’impellenza dell’estradizione verso i paesi dei fantasmi è così dovuta al fatto che, come dice Bonnefoy in Shakespeare et Yeats: «La fiducia che l’uomo medievale sapeva riporre nel mondo era ormai minata», la destrutturazione percettiva era incipiente e l’ardua restaurazione epistemologica, sazia delle promesse canoniche, non poteva che avvenire ex negativo, sondando gli «enigmi» dimenticati, i «drammi» accantonati e «tutte le forme del sogno»[9]. Impediti nella pratica, mutilata ogni pretesa agente, circoscritti al campo del solo io, gli uomini esondano i loro segreti volitivi nella sfera dell’ipotetico e dell’irreale: si tratta di «scommettere sul sogno»[10], così come, analogamente, Pascal scommetterà su Dio traslocando negli agi transeunti. Si disegna in tal modo il ritratto di un epoca in bilico su di un crinale storico: da una parte il Cristianesimo feudale da poco oltrepassato, dall’altra il razionalismo incombente; in comune il fatto di essere «sistemi chiusi e rigidi depositari di verità assolute», come afferma anche D’Agostino[11], che legittimano egualmente se stessi tramite principi inossidabili come l’a-priori – sia esso formale, innato che metafisico – e la non-contraddizione. Nell’angusto divario di cesura tra questi mastodontici sistemi, il ‘500 scardina per un istante tali convinzioni, prospettando verità eteronome, la coincidentia oppositorum bruniana, «il discorso ambiguo» e «l’enigma della tragedia».
Sul palcoscenico ha così luogo l’incantesimo dell’irrazionale: la doppiezza di Jago, l’indecisione di Macbeth, i travestimenti dei personaggi, la metateatralità, le compressioni temporali degli intrecci, le dilatazioni spaziali delle coreografie che – come nei prologhi dell’Enrico IV – richiedono l’intervento della fantasia del pubblico. Tutto ciò elude per un momento i saldi principi della Scolastica su cui si era eretta parte della logica medievale. Al posto dell’ipocrita certezza, subentra così la suggestione del dubbio che, da mimetico, diverrà dapprima esistenziale e, infine, iperbolico. Si giungerà infine a chiedersi: «Ma siete sicuri che siamo svegli? A me pare che dormiamo ancora e stiamo sognando»[12], come farà Demetrio in Sogno di una notte di mezza estate, alla disperata ricerca, tipica dell’uomo cinquecentesco, del discriminante tra sogno e realtà, tra apparenza e presenza, che sul piano storico è il distinguo tra evento ed eventualità, story e history. «Perché non dovremmo domandarci» – si chiederà allora Montaigne – «se il nostro pensare, il nostro agire, non sia un altro sognare, e la nostra veglia una specie di sonno?»[13], preconizzando il dilemma atavico cui sarà soggetto il Sigismondo protagonista di La vida es suen?o di de la Barca.
La risposta appare a tratti non palmare, dal momento che la ricerca del vero, intrapresa dall’intelletto, sarà ostacolata dai limiti stessi della ragione e dell’anima, che «accolgono le fantasie e le opinioni [e] danno autorità alle azioni dei nostri sogni»[14]. Giunti a questo punto, la via d’uscita è duplice. Il primo stratagemma è noto: fare pressione sul nostro stesso intelletto, scendendo fino ai minimi termini della razionalità, sino al monadismo logico, per assumere uno strenuo pirronismo nei confronti dell’alterità, dubitare anche di se stessi e considerare, come farà Cartesio, «che proprio tutti quei pensieri che abbiamo da svegli, ci possono venire anche quando dormiamo»[15]. Così, mentre Shakespeare rende filosofico il teatro, Montaigne si mette la “maschera” dell’attore dinnanzi ai lettori e Cartesio rivela spiccata propensione a teatralizzare il pensiero, impostando l’esegesi a mo’di monologo amletico per chiedersi: «Forse può darsi che io stia sognando, ossia che tutto quel che penso ora non sia più vero di quel che si presenta a chi sogna?»[16].
I cinque sensi, i ricognitori della volontà – Montaigne direbbe: «I nostri primi giudici» -, finiscono perversi, tanto «da non sapere se ciò che si vede e gode è cosa finta o reale»[17], come dirà de la Barca. Si approda ad una chiusa sinottica e ormai celebre: «Siamo della materia di cui sono fatti i sogni»[18]. Ma Prospero, (questo si ricorda meno spesso), non inneggia al ripudio del reale, all’involuzione esistenziale del nichilismo e lo stesso Montaigne – pur abbagliato «dalla mutevolezza e dall’incomprensibilità di ogni materia» – sarà il primo a odiare la fuga dall’essere tipica dei contemporanei. Al contrario, «quelli che hanno paragonato la nostra vita ad un sogno, hanno avuto ragione, forse più di quanto pensassero»[19], poiché il solvente capace di sciogliere il nodo gordiano è insito nella stessa incertezza onirica. È coerente con l’idea di un senso dell’essere sito nell’essere medesimo e di uno scopo del movimento come costantemente inappagato, il fatto che il dubbio stesso, causa d’ogni male, possa essere capovolto sino a diventare la soluzione. Non solo. In Cartesio quel dubbio che condusse alla fragilità ontologica diviene anche la chiave per un’affermazione d’identità. Basta sfruttare come criterio l’evidenza dell’io. «Non ho visto prodigio né miracolo al mondo più evidente di me stesso»[20]: sembra di sentir parlare il padre del razionalismo, e invece si tratta di Montaigne. Ma, in lui, il rapporto anima-corpo viene ribaltato: non scopre la res extensa dalla certezza del cogito, snuda la coscienza a partire dall’immediatezza della fisicità. Noi siamo corpo e non è vero che l’impensabile non esiste, al contrario: è solo ciò che esiste a diventare pensiero. Manca davvero un nonnulla per esclamare, come poi Locke: nisi est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.

3. Le briglie della fantasia

Il materialismo, prima di poter tornare in se stesso come anima, deve però rapportarsi col mondo e gli altri, costringendo l’individuo a mostrarsi a quel cosmo che aveva testé messo in dubbio. «Dipingendo me stesso»: questo il motto d’azione con cui Montaigne si teatralizza, quando recepisce appieno i possibili sviluppi filosofici della forma dell’autoritratto che, a partire da Dürer, riceve in dono un approfondimento che proseguirà, nel ‘600, sulla tela di Vermeer e Velàzquez. Ma il soggetto pittorico rimane pur sempre evanescente, come mostra il tema figurativo del sogno in dipinti come: Il sogno di Sant’Orsola di Carpaccio, Il festino di Baltassar di Rembrandt, Il sogno del nobiluomo di De Pereda o Dream of Jacob di Willmann.
Pur nella crescente convinzione che il corpo sia la conditio prima per la scoperta dell’io interiore, rimane quindi la prova che la materia sia sogno. C’è urgente bisogno di una seconda via, attraverso cui si può superare l’ambiguità e uscire dalle «tenebre cimmerie». Rimane una sola possibilità: rinnegare in parte il cogito, non affidarsi più all’intelletto, bensì all’immaginazione. Questo permetterà poi al metodo gnoseologico di farsi aiutare dall’estetica, come farà Baumgarten. Prima bisogna però credere che l’esperienza del sogno, seppur incomprensibile, sia più vivida di quella del pensiero. Lo stesso Starobinski, parlando della ragione, dirà che «la sua evidenza non supera mai quella del sogno»[21]. Si inaugura così, o meglio si riesuma, la rubizza giostra fra pathos teatrale e ratio, fra mathesis apollinea e caos aoristici, fra asse cartesiano ed esprit de finesse, ove l’intervento del «buon tema della ragione», per usare un espressione di John Donne, modella e realizza le aeree forme dell’immagine. «Pensarti basta per fare veri i sogni e le favole storia»[22] recitava il poeta inglese.
Se si tarda a constatare che «la nostra ragione non è profetica, come spesso lo sono i nostri sogni»[23], Shakespeare, ne I due nobili congiunti, non tarda a ricordarcelo. La logica del tempo aveva concesso all’ideale di plasmare e predeterminare il reale – la stessa superiorità dello Stato sui cittadini e della Chiesa sui fedeli dimostra il trionfo pratico dell’impostazione realista. Ci si avvede dell’alterco pensiero-immaginazione mentre scivola sui rispettivi terreni di competenza: la storia perviene al confronto fra una realtà percepita dai sensi e conquistata dal pensiero e un sogno intuito e preconizzato dalla fantasia. Chi merita lo statuto ontologico? La realtà lapalissiana? Ma se si sgretola e decade sotto il fuoco dei cannoni! L’incerto iperuranio allora?
Da una parte vi è l’afflato rinascimentale che, con l’uso critico delle facoltà, vuole emancipare l’uomo anche dalla morsa dei fenomeni, costruendo le teorie per imaginationem. Dall’altra vi è il nichilismo amletico e proto-barocco, per cui ci sono più cose «in cielo e in terra»[24] di quante ne sogni la filosofia. Montaigne, dal canto suo, preferisce pur sempre l’acredine dell’immediato piuttosto che la tetra possibilità d’un avvenire ancor peggiore. Si accontenta dell’imperfezione giuridica pur di non usare la violenza per rovesciare la lex. Ma, se fosse costretto al dialogo col celebre principe danese, forse citerebbe i suoi Essais: «Si dirà che la realtà supera di tanto l’immaginazione […] il prepararvisi col pensiero dà senz’altro un gran vantaggio»[25]. Dal ripudio scettico verso il mondo, l’appendice epicurea di questo pensiero riabilita il fenomeno e rende dignità alla momentanea inazione, al fine della ruminazione del pensiero.
Montaigne riscopre il reale mediante l’ideale, conquista la fiducia nei sensi solo dopo l’intelletto, diventa empirista con una deduzione! Si fa convinto che «l’intelletto va al di là delle proprie forze»[26] per effondersi nei loci di un’azione intangibile. L’onirismo diviene così eterotopico: pressurizzato e satollo del vecchio mondo, cinto nell’anacoretismo della sua torre, viaggia coi binari dell’immaginazione, visita luoghi sperduti, vergini, selvaggi, cannibali e puri ch’egli riconosce come modello, incontra i miti storici e gli eroi del passato dalla condotta esemplare. Lo spazio straripa, il tempo rivoluziona. Alla mente «piace di divagare» – dirà Cartesio – «e sia, consentiamole di andare a briglia sciolta»[27]. Ma non sarà solitario in questa corsa sregolata. Già Montaigne, prima di lui, aveva ammesso: «Ho un’indole sognatrice che mi fa ritrarre in me stesso»[28]. Ma proprio questa introspezione diventa espressione. Quando infatti confessa: «Io sono di quelli che sentono moltissimo la forza dell’immaginazione»[29], indosserà la sua capacità di «baloccarsi e fantasticare»[30] come una veste etica. L’ansia di inocularsi nel divertissement coinciderà allora con il ripiegamento su se stessi e l’interposizione del libro tra sé e il mondo. Quando poi la morte dell’amico La Boètie scaraventerà Montaigne in una «notte oscura e noiosa», giungerà al divorzio con la realtà: «Non mi rallegro che in fantasia e in sogno»[31], dirà da questo momento per risolvere lo spleen delle ore di Diana senza smettere d’imitarne l’esercizio della solitudine. Impaurito dall’imperativo stoico e incapace di emulare l’ammirato Catone nella scelta suicida, ripiega sul precetto ciceroniano del filosofare come preparazione alla morte. Cala una gemina nocte[32], è l’alfiere della letargica letizia, della «dolcezza che sentono coloro che si lasciano scivolare nel sonno»[33]. Passa le ore addormentato, finché quel dormire (che dice: «ha occupato gran parte della mia vita»[34]) lo uniformerà all’esiziale sillogismo amletico: «Morire, dormire; dormire, sognare»[35]. È l’incontro con le nubile verità addensate su di una coscienza rintanata, è l’assopimento abulico e trasognato che rarefa la materia. Sonno e vigilia si sintonizzano. «Veglia e sogno – come dice Starobinski – sono stati mescolabili»[36]. L’uno conserva gli spazi inaccessibili all’altro, in una struttura ad atanaclasi, in cui Foucault vedrà «giorno e notte disposti a specchio»[37].

4. Riconciliarsi con l’apparenza

Ne rimane un concetto simile a quello che il filosofo francese definirà poi eterotopia: uno spazio connesso a molti altri, che sospende l’insieme di rapporti che essi stessi designano. Davanti allo specchio, in un cimitero, a teatro o dentro un manicomio: perché non in sogno allora? Un rinvenimento di superfici alternative e difformi ove estendersi e, al contempo, osservarsi nella «luce pallida del sogno»[38]. Montaigne, in questa speculazione speculare, «sogno e veglia confonde insieme»[39], in un’esistenza dilavata e crepuscolare, come Re Lear. «Noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo», dirà allora negli Essais prefigurando il piglio cartesiano. A chi non ci vede «tanto chiaro nel sonno», sembra quindi rispondere che anche l’esser desti non è «mai abbastanza netto e senza nubi»[40]. Si può concretizzare l’ideale, oppure idealizzare il reale, rendere eteree le colonne del cosmo, così come già lo sono le fondamenta del sapere. L’attività contemplativa da lui adottata contribuisce in modo determinante a questo gioco di pesi, e gli stessi concetti di “pieno” e di “vuoto”, con cui è solito descrivere la duttile movenza del divenire, prevedono azioni di condensazione e diradazione che alleggeriscono la sostanza empiendo il senso delle cose, sino a che «il sogno si estende, scivola nella vita stessa»[41], come afferma Yves Bonnefoy nel riportare il tutto a Shakespeare.
Montaigne precorre così il dramma filosofico di de la Barca, con il quale l’umanità seicentesca prende l’ultima consapevolezza: «Ognuno che vive sogna». Il suo Sigismondo, prigioniero nella torre a causa della profezia riguardo i suoi istinti dispotici, assomiglia a Montaigne auto-reclusosi nella torre del castello che, impaurito dall’assolutismo, sceglie di convertire la tirannia in egorannia. Anche Sigismondo compie questo sforzo su se stesso, pur privo d’appigli e disancorato, in un mondo che non conosce e del quale non riesce a distinguere gli avvenimenti dalle fantasie ingannevoli. «Forse stai sognando anche se sveglio ti credi»[42], si interroga allora per reagire all’impalpabilità dei fatti attribuiti all’essenza dell’uomo così simili ad un’ombra. Macbeth paragonerà l’essere ad un «ombra errante»[43] che percepisce la vita come mera comparsata, de la Barca dirà: «Che cos’è la vita? Delirio. Che cos’è la vita? Illusione, appena chimera ed ombra, e il massimo bene è un nulla, che tutta la vita è sogno, e i sogni, sogni sono»[44]. Ma il punto è questo: la constatazione del relativismo ontologico e del prospettivismo epistemico presuppone già di per sé l’accettazione del fatto che il mondo è intessuto di materia onirica e che la vita intera assomiglia ad una fugace e peritura notte di mezza estate.
La sintesi finale è la riabilitazione del fenomeno, la riconciliazione con l’apparenza e i phantasmata. Montaigne aveva mosso il suo j’accuse alla “maschera” come «tendenza codarda e servile», paragonando le cognizioni umane ad aegri somnia e vanae species[45]. Dové poi ringraziare per questo l’atteggiamento smascheratore umanista, mèmore della filologia del Valla e della condanna baconiana agli idola. Anche per lui essi non sono quei miracula e terrores magicos[46], così come pretendevano all’apparenza. «I sognatori mentono» – sembra fare eco il Romeo e Giulietta – «[ma] sognano cose vere»[47]. Gli antichi modelli cui attinge lo spirito barocco rimangono: il mondo intero exercet historiam (Petronio) e la vita intera è una pantomima, («comoedia est vita»[48], John of Salisbury), ma il desiderio latente di abbandonarsi alle trame dell’onirismo e di votarsi ad un’esistenza sortilega inizia a tradire una diatesi: fare esperienza della condizione umana. «Noi cerchiamo avidamente di riconoscere perfino nei fantasmi e nelle favole dei teatri la rappresentazione dei giochi tragici della fortuna umana»[49], questa è la grande, finale e maiuscola convinzione di Montaigne.
L’arte ritorna così una medicina sociale, come in Aristotele, e inscena di nuovo il dramma umano del conflitto tra ?????? (“necessità”) ed ????????? (“libertà”) nella nuova forma del servo arbitrio luterano e del libero arbitrio erasmiano. In questa realtà, in cui «tutto il mondo è teatro»[50] e dove «ognuno recita la sua parte»[51], il teatro cinquecentesco viene adibito a luogo deputato ove rappresentare – e non già risolvere – la diatriba tra volontà e deontologia. È un onirismo eterotopico, come detto, un luogo distante dell’immaginario cui è concesso un istante di esilio prima del tuffo nell’alterità. Per concludere, ci si metta però in guardia: non sempre si riusciranno a sommare queste due esperienze, a volte si rischierà una sottrazione, la cui differenza può aprire a qualcosa di simile ad una schizofrenia. Questa è, per buona parte, la fotografia dell’animo barocco: per quanto si dilati l’estensione dell’io, tanto forte sarà l’implosione dello spirito in se stesso. Scoprire le Americhe e la Via della seta reclamò un prezzo molto alto. Montaigne fu allora già barocco: tanto più si concesse al mondo e agli altri, più brutalmente venne depauperato dell’identità, ma quando si occupò soltanto di se stesso, tanto più quella stessa identità patì l’assenza di uno sforzo dialettico. Peccato che sia soltanto questo sforzo a metterci in allarme quando tutti i nostri bei pensieri, congetture, convinzioni e giudizi stanno scegliendo soltanto il sogno come seta del proprio tessuto. Per quanto bello, il vestito che cuciremo sarà pur sempre troppo sottile, ma per accorgersene si dovrà aspettare l’epoca dei romantici, coi loro sogni.

Bibliografia
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STAROBINSKI Jean, Il paradosso dell’apparenza, a cura di M. Musacchio, Il Mulino, 1984

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NOTE:
[1] William Shakespeare, Tutte le opere, a cura di Mario Praz, Sansoni, Firenze, 1965, p. 1251.
[2] Seneca , Epistole 53, cit. in Michel de Montaigne, Saggi, a cura di Fausta Garavini, Adelphi, Milano, 2005, p. 1121.
[3] Montaigne, Saggi, cit., p. 1164.
[4] William Shakespeare, La tempesta, a cura di Gabriele Baldini, Bur, Milano, 2002, p. 159.
[5] Montaigne, Saggi, cit., p. 1165.
[6] Shakespeare, La tempesta, cit., p. 129.
[7] Jean Starobinski , Il paradosso dell’apparenza, a cura di M. Musacchio, Il Mulino, 1984, p. 225.
[8] Christopher Marlowe, Dottor Faust, a cura di Nemi d’Agostino, Mondadori, Milano, 2009, p. 135.
[9] Yves Bonnefoy, Shakespeare et Yeats, Mercure de France, Paris, 1998, cit. nella traduzione di Gabriella Mezzanotte in William Shakespeare, Macbeth, a cura di P. Bertinetti, Mondadori, Milano, 2009, p. 188.
[10] Ivi, p. 183.
[11] Nemi D’Agostino, Introduzione a C. Marlowe, Dottor Faust, cit., p. 7.
[12]William Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano, 2009, p. 133.
[13] Montaigne, Saggi, cit., p. 794.
[14] Ibidem.
[15] Renato Cartesio, Discorso sul metodo, a cura di L.U. Ulivi, Bompiani, 2002, p. 149.
[16] Renato Cartesio , Meditationes de prima philosophia, a cura di Sergio Landucci, Laterza, Bari, 2007, p. 117.
[17] Calderón de la Barca, La vida es suen?o, a cura di Dario Puccini, Garzanti, Milano, 2008, p. 215.
[18] Shakespeare, La tempesta, cit., p. 235.
[19] Montaigne, Saggi, cit., p. 794.
[20] Ivi, p. 1374.
[21] Starobinski , Il paradosso dell’apparenza, cit., p. 237.
[22] John Donne, Poesie amorose, poesie teologiche, a cura di Cristina Campo, Einaudi, Torino, 1971, p. 49.
[23] Shakespeare, Tutte le opere, cit., p. 1144.
[24] William Shakespeare, Amleto, a cura di Eugenio Montale, Mondadori, Milano, 2007, p. 75.
[25] Montaigne, Saggi, cit., p. 115.
[26] Ibidem.
[27] Cartesio, Meditationes de prima philosophia, cit., p. 49.
[28] Montaigne, Saggi, cit., p. 1087.
[29] Ivi, pp. 124-125.
[30] Ivi, p. 1085.
[31] Ivi, p. 1116.
[32] Catullo, Carmina LI, 5-12, cit. in Montaigne, Saggi, cit., p. 15.
[33] Montaigne, Saggi, cit., p. 481.
[34] Ivi, p. 1468.
[35] Shakespeare, Amleto, cit., p. 135.
[36] Starobinski , Il paradosso dell’apparenza, cit., p. 246.
[37] Michel Foucault, Storia della follia nell’età classica, a cura di Mario Galzigna, Bur, 1998, p. 773.
[38] Ivi, p. 775.
[39] William Shakespeare, Re Lear, a cura di G. Melchiori, Mondadori, Milano, 2008, p. 78.
[40] Montaigne, Saggi, cit., p. 794.
[41] Yves Bonnefoy, Shakespeare et Yeats, cit., citato in Shakespeare, Macbeth, cit., p. 187.
[42] Calderón, La vida es suen?o, cit., p. 109.
[43] Shakespeare, Macbeth, cit., p. 161.
[44] Calderòn, La vida es suen?o, cit., p. 161.
[45] Orazio, Ars poetica 7-8, citato in Montaigne, Saggi, cit., p. 39.
[46] Orazio, Epistole II, II, 208-209, citato in Montaigne, Saggi, cit., p. 237.
[47] William Shakespeare, Romeo e Giulietta, a cura di G.Melchiori, Mondadori, Milano, 1982, p. 47.
[48] John of Salisbury, Policraticus: l’uomo di governo nel pensiero medievale, a cura di M.T. Beoino e B. Fumagalli, Jaca Book, 1985, p. 134.
[49] Montaigne, Saggi, cit., p. 1398.
[50] Shakespeare, Tutte le opere, cit., p. 1047.
[51] Shakespeare, Il mercante di Venezia, cfr. Shakespeare, Tutte le opere, a cura di Mario Praz, Sansoni, Firenze, 1965.

*Federico Filippo Fagotto studia filosofia ed è appassionato di cultura orientale. Nel tempo libero ama la musica e il bridge. Ha fondato La tigre di carta.

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