> di Paolo Calabrò
Il riduzionismo predomina (per non dire spadroneggia) nelle scienze, anche in quelle umane, non è una novità: il principio per il quale tutto ciò che è complesso può essere scomposto, esaminato e infine compreso nelle sue parti più semplici va per la maggiore, almeno dai tempi di Cartesio. Si tralasci pure la critica generale per la quale il rischio principale è quello di fare la fine dell’apprendista dell’orologiaio al quale – nel ricomporre tutto a fine lavoro – avanza sempre qualche pezzo che non sa più dove inserire. Il punto è che il paradigma accumula consenso non tanto perché giusto in sé (che vuol dire “giusto” nella scienza? Un principio è un principio, non può essere dimostrato, ed è valido finché serve: null’altro), quanto per i risultati che riesce a ottenere, soprattutto nel mostrare le basi neurofisiologiche del comportamento umano. Tutto corretto e sacrosanto fino a che non si esageri: veramente la mente sarebbe infine riducibile al cervello? Il fronte degli studiosi è diviso, come avviene in fisica nel durissimo scontro fra riduzionisti ed emergentisti.
I primi sembrerebbero aver dalla loro il buon senso: se nulla di materiale si aggiunge a un livello successivo – sostengono – le proprietà di quel livello dovranno necessariamente essere riconducibili a quelle del precedente (a meno di interpretazioni spiritualistiche; del resto, come potrebbe la mera ‘organizzazione’ delle parti generare autonomamente proprietà che non siano intrinsecamente contenute nelle proprie componenti materiali fin dal più basso dei livelli?). I secondi, a loro volta, hanno dalla loro l’evidenza: sfidano i primi ad effettuare previsioni su sistemi complessi a partire dalla fisica elementare (quella, ad esempio, della meccanica quantistica), cosa assolutamente impossibile.
Non rimane dunque che prendere posizione a favore non della scientificità – che ciascuno rivendica per sé, ma nessuno con maggior diritto dell’altro – bensì dell’esigenza di armonizzare queste prospettive in una che sia al contempo ragionevole verso l’evidenza e utile per l’uomo: come suggeriscono Paolo Legrenzi – Professore emerito di Psicologia all’Università Ca’ Foscari di Venezia – e Carlo Umiltà – Professore emerito di Neuropsicologia all’Università di Padova, autori del recente Perché abbiamo bisogno dell’anima (ed. Il Mulino), la questione non è decidersi pro o contro il riduzionismo (in fin dei conti, come sottolineano gli autori, scegliere in tal senso non è né più né meno che una professione di fede come un’altra, ancorché “laica”), ma riuscire a conciliare con i risultati dell’osservazione un modello mente-corpo che possa conciliarsi con la percezione che l’uomo ha di se stesso e degli altri (e che preservi da abusi e aberrazioni fatali che possano portarci – tanto per fare un esempio – a rendere inutile la testimonianza in tribunale a nostra discolpa: se il riduzionismo monista si compisse nei suoi esiti estremi, sarebbero solo i dati a parlare, e lo farebbero al posto nostro, tappandoci la bocca). I due studiosi – pur dichiaratamente riduzionisti – pongono dunque l’opportunità al primo posto, unitamente all’allergia verso la tentazione onnipresente di elevare le proprie convinzioni a dogma (strisciante nella scienza almeno quanto lo è tra “il volgo”) e alla presa d’atto che, al momento, non esistono strumenti d’indagine in grado di rendere osservabile la coincidenza tra la mente e il cervello: nell’impossibilità di sostenere dunque un riduzionismo operativo, ci si dovrà accontentare di salvare un riduzionismo di principio, che preservi al contempo la validità degli strumenti della psicologia sperimentale (quella della soggettività individuale, per intenderci – o dell’anima, che dir si voglia).
È bello osservare – alla prova dei fatti – l’utilità e la forza di queste loro osservazioni, in un volume appena pubblicato dallo stesso editore, dal titolo Come si ammala la mente, scritto da Gherardo Amadei (medico, psichiatra e psicoterapeuta, nonché Professore associato presso l’Università di Milano-Bicocca) con la collaborazione di Silvia Galvani, Davide Cavagna e Giovanni Stella. La mente si ammala per cause esclusivamente fisiche? Difficile sostenerlo: non solo perché non è stato trovato un rimedio farmacologico a tutte le sindromi (né è stato possibile individuarne la causa materiale), ma soprattutto perché, guardandole bene a fondo, esse appaiono sempre più come una malattia della relazione anziché del corpo – che spesso si dà nella forma di una cattiva relazione… con il proprio corpo. Il volume – denso ma avvincente – esamina la questione da molti punti vista e affronta moltissimi degli argomenti coinvolti: partendo da ciò che si considera “normale” (parola per la quale le virgolette sono sempre d’obbligo), si analizzano tanto i modelli esplicativi tradizionali quanto quelli più recenti (qui chiamati “disconoscimenti e dissintonie”), con inquadramento sia storico sia tematico. Su tutto il lavoro spicca la convinzione di Foucault – che qui facciamo nostra – per la quale la malattia non è della mente in senso stretto (o, peggio, del cervello), ma sempre dell’uomo. Due libri per comprendere quanto sia importante, oggi, rivendicare – a ragion veduta – la propria libertà e autonomia verso una tendenza generale (anche scientifica) alla naturalizzazione dell’umano, gemella della sua mercificazione.
P. Legrenzi, C. Umiltà, Perché abbiamo bisogno dell’anima?, ed. Il Mulino, 2014, pp. 117, euro 12.
G. Amadei, Come si ammala la mente, ed. Il Mulino, 2014, pp. 234, euro 12.