> di Gaetano Grisolia*
Premessa
Il presente articolo ripropone, in chiave storico filosofica, alcuni dei passi più significativi della teoria dei princìpi discussa da Aristotele nel primo libro della Fisica.
Si corre spesso il rischio di rileggere i princìpi della scienza aristotelica alla luce della filosofia moderna e contemporanea.
Non è questo l’obiettivo del lavoro bensì un’analisi appropriata della filosofia di Aristotele in rapporto alle dottrine dei suoi predecessori.
Il confronto con la filosofia eleatica
Per comprendere il ruolo assunto dal confronto con l’eleatismo occorre anzitutto soffermarci sulla nozione stessa di Fisica. Qual è l’oggetto della Fisica?
La φύσις non è altro che la natura, vale a dire l’ambito eterogeneo di quegli oggetti la cui caratteristica intrinseca è quella di essere soggetti al divenire e al cambiamento.
«Riteniamo – scrive Aristotele – di conoscere ciascuna cosa, quando ne riconosciamo le cause prime e i principi primi […]. E’ perciò chiaro che anche per la scienza della natura si deve anzitutto cercare di stabilire ciò che concerne i principi». [1] Conosciamo autenticamente qualcosa solamente nella misura in cui ne conosciamo i principi, solo quando ne determiniamo un fondamento. Se principio degli oggetti della natura è il divenire per rendere questi ultimi oggetto di una scienza possibile, occorrerà interrogarsi proprio sulla natura del divenire. Ed è proprio nell’ambito di tali considerazioni che si inserisce il confronto con la posizione eleatica, la quale nega, per l’appunto, il divenire; e ciò, potremmo dire, da un duplice punto di vista.
Da un lato il divenire è negato esplicitamente: assunto dell’eleatismo è che l’essere sia uno e immobile. Dall’altro se l’essere è uno non potranno esservi principi atti a spiegarlo (giacché il principio, per sua stessa natura, implica la molteplicità). «Ora, – scrive Aristotele – chiedersi se ciò che è è uno e immutabile non è compiere un’indagine sulla natura. Infatti[…] non sussiste più principio se ciò che è è uno, ed è uno nel modo menzionato; giacché il principio è principio di qualche cosa, una o più». [2] Se neghiamo l’esistenza dei principi, con ciò stesso neghiamo la possibilità che si dia conoscenza delle cose, vale a dire, conoscenza secondo principi. La posizione eleatica, pertanto, rischia di minare alla base non solamente la possibilità di fondare una Fisica come scienza del divenire ma la possibilità di fondare scientificamente alcunché.
«Quanto a noi, scrive Aristotele, valga come assunto di base che le cose per natura, o tutte o alcune sono mosse: è mostrato dall’induzione». [3]
Il movimento, afferma qui Aristotele, non necessita di essere reso oggetto di dimostrazione dal momento che è un dato di per sé evidente, mostrato dall’induzione [4]. Che le cose in natura mutino, cambino, ovvero siano soggette a divenire non è qualcosa che vada dimostrato, in quanto presupposto stesso di ogni dimostrazione. Il divenire è un che di originario [5], di costitutivo e di innegabile tale da rendere inapplicabile qualsivoglia processo argomentativo atto a metterlo in discussione.
La negazione del divenire da parte della posizione eleatica, viceversa, trova le sue basi su un fraintendimento di fondo: secondo l’eleatismo, infatti, l’essere non può divenire perché, in caso contrario, esso non-sarebbe o, per dire altrimenti, sarebbe non-essere, passerebbe al non-essere. Ora, tale fraintendimento deriva dal fatto che l’eleatismo parte dall’assunto che l’essere sia in un solo modo, in modo assoluto; se l’essere è [6] in modo assoluto, allora esso non potrà divenire altro da ciò che è, giacché ciò comporterebbe il suo non essere più [7]. Viceversa, Aristotele afferma in un celebre passaggio che ciò che è si dice in molti modi [8] vale a dire non in modo assoluto ma molteplice, relativo, determinato. In tal senso l’essere potrà, sì, divenire, ovvero passare dal non-essere all’essere e viceversa. Nel divenire, potremmo altrimenti dire, abbiamo a che fare non con l’essere, ma con un determinato aspetto dell’essere, con uno dei molteplici modi in cui l’essere si dice. «Necessariamente – sostiene Aristotele – o il principio è uno solo, o sono molti. Se è uno solo, o è immutabile come dicono Parmenide e Melisso, o mosso come dicono i naturalisti». [9]
Come già detto, il divenire non può essere ragionevolmente negato senza cadere in contraddizione; ma (ed è ciò che qui ci interessa) tale premessa ha anche una conseguenza implicita, vale a dire la negazione dell’esistenza di principi: affermare, infatti, che ciò che è [10] è uno ed è uno in modo assoluto, viola il concetto stesso di principio: un principio è tale, infatti, solamente nella misura in cui è principio di qualcosa. Avremo un principio, solamente se avremo ciò di cui quel principio è principio o, per dire altrimenti: il principio presuppone costitutivamente la duplicità, il molteplice.
È quanto Wieland ribadisce diffusamente, parlando di “carattere correlativo” [11] del principio, e che viene ripreso anche dalla Giardina, laddove parla di “immanenza dei principi negli enti” [12], vale a dire della loro intrinsecità agli enti. Un principio, per realizzare il proprio carattere fondativo, presuppone costitutivamente, per sua stessa natura, un altro da sé [13] rispetto a cui essere principio. La causalità, la fondazione, implica in sé la duplicità; pertanto porre un essere unico, che non abbia altro al di fuori di sé e che, quindi, sia principio di sé, è un assurdo, una contraddizione, una postulazione che si confuta da sola.
Perché, potremmo chiederci, è cosi importante per Aristotele il confronto con i suoi predecessori? Il richiamo ai predecessori si configura come tappa necessaria in quanto rappresenta una sorta di terreno preparatorio, un momento all’interno di uno sviluppo. La filosofia aristotelica, potremmo azzardare, “supera conservando” [14] le posizioni dei predecessori.
«I predecessori – scrive Wieland – non rappresentano per Aristotele semplicemente un diverso punto di partenza, ma rappresentano piuttosto un punto di partenza di grado più alto, a partire dal quale ciò che essi avevano voluto e realizzato entra a far parte di un quadro unitario. Aristotele conquista la sua immagine di filosofo in gran parte grazie al compito, che egli si assume, di portare alla luce e rappresentare le tendenze comuni della tradizione filosofica greca» [15]. Che ruolo assume allora, alla luce di quanto detto, il confronto con gli Eleati?
In primo luogo nel confronto e nella confutazione dell’eleatismo sta la possibilità stessa di legittimare una Fisica come “scienza del divenire”. Il che equivale, potremmo dire, ad un processo di ampliamento della conoscenza dal suo “lato oggettivo”, ovvero, una riabilitazione del molteplice, del divenire. È un’operazione che si pone come condizione stessa di possibilità per fondare una “scienza della natura”. Se l’essere è uno, allora non vi saranno principi, pertanto nulla potrà essere spiegato, reso intelligibile, dal momento che si conosce qualcosa solo quando se ne conoscono i principi.
In secondo luogo, dal punto di vista più generale del rapporto della filosofia aristotelica con quella precedente, possiamo dire che tale confronto si venga a collocare come momento, come tappa di uno sviluppo della conoscenza, ovvero come processo di “superamento conservante” di una determinata posizione epistemologica. L’essere si dice in molti modi, corrispondenti alle varie categorie atte a determinarlo. L’essere è [16] in molti modi. Anche l’essere sensibile e mutevole è essere, ed è oggetto di una conoscenza possibile. Ma ciò solo nella misura in cui l’essere si dice, ovvero si pensa, si conosce in molti modi. Tra di essi, quello eleatico è solo una tappa, un momento che, come tale, va considerato. Il che non significa rifiutarlo. Esso andrà, piuttosto, superato, conservato nel suo superamento, integrato in una prospettiva più ampia riconoscendo al contempo il debito nei confronti di quanto di vero, in essa, è contenuto.
«Quanto a me – continua Aristotele – dico di contro che sotto un certo profilo non c’è nessuna differenza tra, da un lato, che da ciò che è, o da ciò che non è venga ad essere qualcosa, oppure che ciò che è, o ciò che non è faccia o subisca qualcosa, o venga ad essere una qualsiasi cosa particolare, e dall’altro lato che il medico faccia o subisca qualcosa, o da medico sia o venga ad essere qualcosa. Quindi, poiché queste ultime due locuzioni possono essere intese in due modi, è chiaro che possono essere intesi in due modi anche “da ciò che è” e “ciò che fa o subisce” [17]. Ciò che qui Aristotele sta per dire per ribadire la confutazione delle tesi eleatiche non è altro che un cogliere i frutti di Fisica I 7. Qui,infatti, Aristotele aveva mostrato ampiamente che il divenire si può dire sia con la formula “qualcosa diviene qualcos’altro”, come nell’esempio dell’uomo non colto che diviene uomo colto, sia con la formula “qualcosa diviene da qualcos’altro”, come nell’esempio secondo cui dal bronzo diviene una statua. Poco oltre Aristotele afferma: Invero il medico costruisce non in quanto medico ma in quanto costruttore, e viene ad essere bianco non in quanto medico, ma in quanto nero; cura invece e viene ad essere ignorante in medicina in quanto medico” [18]. Ogni processo di divenire, in altre parole, è legato alla forma specifica che determina il processo stesso, il quale si articola secondo i tre principi già enunciati da Aristotele in Fisica I 7, cioè sostrato, forma e privazione. «E il modo più appropriato – continua Aristotele – del nostro dire che il medico fa o subisce qualcosa, o da medico diviene qualcosa, si ha quando il medico fa o subisce qualcosa o viene ad essere qualcosa in quanto medico; perciò è chiaro che, dicendo che qualcosa viene ad essere da ciò che non è, si intende da ciò che non è in quanto non è. E per non aver fatto questa distinzione che quei filosofi caddero in errore […] Quanto a me, dico anche io che, sì nulla viene ad essere semplicemente da ciò che non è, e che tuttavia le cose in certo modo vengono ad essere da ciò che non è, cioè per concomitanza». [19]
Ciò significa che ciò che si genera, diviene sia da ciò che è (in quanto è) sia da ciò che non è (in quanto non è). In altre parole, è sbagliato dire che «è impossibile sia che ciò che si genera si generi da ciò che è sia che si generi da ciò che non è» [20]; infatti ciò che si genera si genera sia da ciò che è (inteso però in quanto è) sia da ciò che non è (inteso però in quanto non è).
Questo non elimina affatto il principio eleatico che ogni cosa o è o non è, ma indica una strada che rende possibile il divenire e la molteplicità delle cose. A causa di questa incomprensione gli Eleati si sono allontanati dalla strada che conduce alla generazione, alla corruzione e in generale al mutamento. «Per questo infatti – scrive Aristotele – i filosofi precedenti si allontanarono a tal punto dalla strada che porta al venire ad essere, al perire e in generale al cambiamento. Se fossero giunti a vedere questa natura, il loro misconoscimento si sarebbe dissolto» [21]. Poco oltre Aristotele scrive:«Quanto a me, dico che la materia è altro dalla privazione, e che l’una di queste, la materia, per concomitanza è ciò che non è, mentre l’altra, la privazione, lo è di per sé; e che l’una, la materia, è prossima alla sostanza e in certo modo è sostanza, mentre l’altra non lo è in nessun modo» [22]. Qui Aristotele ci vuole dire che la materia, non è non essere; anzi è in certo qual modo sostanza [23]. Il non essere entra in gioco solo con la privazione, che è non essere di per sé: attraverso la privazione, infatti, il non essere appartiene alla materia-sostrato nella misura in cui questo sostrato capita accidentalmente di essere privo di una data forma.
Hê hupokeimenê phusis: la natura-sostrato nella Fisica di Aristotele
In un passo fondamentale di Fisica I, 7 Aristotele utilizza il termine phusis in rapporto alla nozione di hupokeimenon: «la natura soggiacente, dice Aristotele, è conoscibile per analogia». [24] Il problema dello Stagirita è quello di far comprendere la vera natura del sostrato, che però egli chiama adesso natura soggiacente. Dire che la natura soggiacente può essere conosciuta solo per analogia significa qui che essa può essere identificata in relazione alla sostanza, ovverosia a un ente determinato, che è tale perché costituito dal sostrato stesso unito a una specifica forma. L’esempio che fa Aristotele per farci comprendere che cosa sia la natura soggiacente è il seguente: come il bronzo sta alla statua e come la materia priva di forma sta alla materia già formata così sta la natura soggiacente alla sostanza intesa come ente determinato, ovvero come ciò che è. Scrive Aristotele: «Infatti come il bronzo sta alla statua e il legno sta al letto e ciò che è senza forma prima di assumere la forma sta a qualsivoglia altra delle cose che hanno una forma, così sta la natura soggiacente rispetto a una sostanza, cioè a una questa certa cosa, a ciò che è» [25]. Gli esempi proposti da Aristotele riguardano differenti prodotti dall’arte (la statua e il letto), cosa che anticipa quel rapporto analogico technê-phusis che nel II libro della Fisica è funzionale alla conoscenza della phusis nei suoi vari aspetti. Il rapporto del bronzo con la statua o del legno con il letto costituisce, infatti, un dato a noi familiare e noto ed è il punto di partenza per quel processo della conoscenza che procede metodologicamente da ciò che è più noto per noi verso ciò che è più noto per natura. Grazie a questa nozione di sostrato o natura che soggiace, Aristotele può mostrare in modo definitivo in che cosa hanno sbagliato gli Eleati da una parte e Platone [26] e i Platonici dall’altra [27]. Prima di passare a questa confutazione definitiva degli Eleati e dei Platonici, Aristotele conclude il capitolo Fisica I 7 in un tono che fa comprendere come egli ritenga che sia ormai chiaro e sufficiente ciò che ha detto sul numero e sulla natura dei principi del divenire: «Un principio è dunque questa natura, la quale però non è una, né è allo stesso modo di una “questa certa cosa”». Un altro principio è ciò di cui si da la definizione. C’è poi il contrario di questo, la privazione» [28]. In questo passaggio fondamentale Aristotele insiste sul duplice significato della sua nozione di sostrato che consiste nel fatto che esso è insieme sia materia che privazione, materia in quanto potenzialmente capace di acquisire una forma determinata (di divenire un ente determinato) privazione in quanto a tale materia è associato per accidente un “non-essere accidentale”.
La Critica alla filosofia di Platone
In Fisica I 9 si legge che anche Platone e i Platonici si sono applicati allo studio della phusis e tuttavia non l’hanno colta sufficientemente. [29] In questo capitolo Aristotele spiega come materia e privazione sono principi differenti.«Quanto a me, scrive Aristotele, dico che la materia per concomitanza è ciò che non è, mentre l’altra, la privazione, lo è di per sé; e che l’una, la materia, è prossima alla sostanza e in un certo modo è sostanza, mentre l’altra non lo è in nessun modo». [30] I Platonici, invece, hanno considerato non essere sia il Grande sia il Piccolo e questo indifferentemente, sia che li si consideri insieme oppure l’uno come separato dall’altro. Per questo motivo la posizione di Aristotele riguardo la triade dei principi è completamente diversa dal modello platonico. I Platonici, a parere di Aristotele, sono giunti a comprendere che è necessario che ci sia una natura che soggiace al divenire ma hanno posto tale natura come una. È evidente che l’errore dei platonici è stato quello di aver concepito tale principio unicamente come principio materiale e quindi quale principio indeterminato. Come accennato, per Aristotele, il sostrato dev’essere una composizione di materia e privazione. Sta in questo la duplicità del sostrato, cioè nel fatto che deve sempre essere visto come ente in connessione con la privazione, cosa che i Platonici non hanno saputo afferrare. Per questo il sostrato dei Platonici, pur apparendo a prima vista duplice, e cioè da una parte il Grande e dall’altra parte il Piccolo, al contrario è soltanto un principio materiale unitario allo stesso modo degli altri filosofi naturalisti. Poco oltre Aristotele ribadisce che «la natura che permane (il sostrato) è concausa insieme con la forma delle cose che divengono come fosse una madre» [31] sottolineando così l’originalità della sua posizione filosofica secondo cui la materia non è un contrario della forma ma è sempre correlata alla forma. In questo passo mette in luce il difetto più rilevante della concezione platonica dei principi. Per i Platonici un contrario tende verso l’altro contrario, con la conseguenza che ciascun contrario tende verso la propria distruzione. È questa la ragione per la quale Aristotele, al fine di evitare che i contrari si distruggano l’un l’altro, ritiene che non sia il contrario che tende verso il suo contrario, bensì «la materia che tende alla forma, come se fosse la femmina che tende al maschio o il brutto che tende al bello, salvo che la materia non è né il brutto né la femmina se non per concomitanza» [32] cioè in quanto ad essa si associa un’assenza specifica, ovverosia la privazione di forma. Prima di passare alle conclusioni vorrei prendere in esame altro punto significativo di Fisica I. Scrive Aristotele: «Sotto un certo profilo si deve dire che i principi sono due, sotto un altro che sono tre; e sotto un certo profilo i principi sono contrari – come quando si dice che sono il caldo e il freddo, l’armonioso e il non armonioso – sotto un altro no, dato che i contrari non possono subire gli uni dagli altri. La soluzione è data, adducendo che ciò che soggiace è altro: esso infatti non è un contrario» [33]. In virtù di quanto è stato detto appare evidente quale differenza intercorra fra i contrari. La privazione associata alla materia le conferisce funzione di sostrato mentre la forma unita alla materia costituisce un ente determinato. Il sostrato è propriamente materia (hê hulê) priva di una forma specifica e atta ad assumere tale forma determinata. È questa, dunque, la natura del sostrato aristotelico, tó hupokeimenon o hê hupokeimenê phusis che non potendo ridursi alla sola materia è differente sia da tutti i principi materiali, unitari o molteplici, posti dai fisiologi precedenti ad Aristotele, sia dal principio materiale quale pura indeterminazione di cui parla Platone.
Con questo discorso Aristotele chiude il cerchio dell’argomentazione condotta in Fisica I e al contempo prepara la discussione della nozione di phusis che occupa i primi due capitoli del libro II. Infatti, i principi di cui egli dispone per fondare la sua scienza della natura sono da un lato la materia e dall’altro la forma. In questo senso egli non inventa nulla di nuovo rispetto ai suoi predecessori, che avevano posto tutti uno o più principi materiali della realtà sensibile. Se la materia e la forma sono sufficienti a dirci quale sia la natura delle cose, non sono sufficienti a spiegare il modo in cui le cose divengono. È per questo che il modello platonico della diade dei principi non è idoneo a spiegare il divenire del mondo naturale, in quanto si riduce a una dualità di principi, cioè soltanto a materia e forma. Al contrario, Aristotele inaugura una dialettica triadica dei principi in cui la materia è sempre correlata alla forma, vista quest’ultima sotto una modalità duplice, come forma e come privazione della forma. La natura soggiacente di cui parla Aristotele è, quindi, un principio composto che nessuno dei predecessori ha saputo individuare sufficientemente.
Bibliografia:
- Aristotele, Fisica libri I e II, Bruno Mondadori editore, traduzione e cura di Franco F. Repellini, Milano 1996.
- Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, 1998.
- Barnes, Aristotele, Einaudi, 2002.
- Barnes, The complete works of Aristotle, volume one, Book I 2, edited by Jonathan Barnes.
- Carteron, Aristote, Phisique (I-IV), tome premier, Société d’édition «Les Belles Lettres», Paris, 1926.
- Charlton, Aristotle’s Physics I, II, Oxford 1970.
- La Fisica di Aristotele oggi problemi e prospettive, a cura di Cardullo e Giardina, Catania 2005.
- H. Khan, La funzione del «nous» nella conoscenza dei primi principi in Analitici Secondi II 19, in G. Cambiano, L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED, Milano 1993, p. 331.
- Wieland, La Fisica di Aristotele, il Mulino, 1993.
[1] Aristotele, Fisica I, 1, 184a 12, traduzione e cura di Franco F. Repellini.
[2] Aristotele, Fisica I, 2, 185a 2.
[3] Aristotele, Fisica I 2, 185a 12. Riguardo all’induzione e ai “problemi dell’induzione”(Barnes, Aristotele, Einaudi, 2002, p.90) voglio ricordare che Barnes considera Aristotele “un risoluto empirista” (Barnes, op. cit., p.87). Questo almeno in due sensi: 1. Le nozioni o i concetti con cui tentiamo di cogliere la realtà derivano tutti dalla percezione. 2. La scienza o il sapere su cui si fonda la nostra comprensione della realtà si basa sulle osservazioni percettive. La percezione, sottolinea Barnes, è la fonte ultima della conoscenza ma non è essa stessa conoscenza. La conoscenza viene generata dalla generalizzazione a partire dalla percezione. I problemi dell’induzione, come vennero successivamente definiti, non erano determinanti per Aristotele ai fini della conoscenza scientifica. Aristotele, sostiene Barnes, non dubitava della percezione, né prestava dubbi scettici sulla generalizzazione. Tutti questi furono problemi postumi. Wieland a partire da questo problema, espresso da Aristotele nel Prologo della Fisica, specifica che il termine universalità o generalizzazione, come la definisce Barnes, deve essere inteso come quell’ “indifferenziato dal quale ogni conoscenza deve procedere”. Qui il problema si fa a mio avviso molto interessante perché secondo Wieland Aristotele rende giustizia al fenomeno della conoscenza. In una nota essenziale al testo scrive: «E’ infatti fenomenologicamente sbagliato far cominciare la conoscenza dal singolo caso come tale e risalire da qui, per via induttiva, all’universale; che il nostro sapere sia iniziato de facto dal particolare, dall’individuale, è sempre in primo luogo un risultato della riflessione. Per l’autocomprensione della conoscenza, questo particolare non sta mai, conseguentemente, all’inizio. Lo stesso vale per l’universale generico. Dal punto di vista fenomenologico, il punto d’inizio della conoscenza è di fatto ancora indifferente alla distinzione tra universale e particolare» (Wieland, op. cit. p.113). L’induzione intesa correttamente, secondo Wieland, non raccoglie casi singoli per astrarre da essi una legge di validità universale, quanto procede da un particolare che per sua natura è sempre nella luce di un’universalità. Questo punto rimanda ulteriormente a ciò che dice Khan quando parla del primato dell’esperienza sensibile nella filosofia di Aristotele. «Non si può erroneamente interpretare – scrive Khan – Aristotele come un empirista […]. La percezione sensibile in quanto tale non ci renderebbe mai capaci di riconoscere e classificare gli oggetti percepiti come tali da ricadere sotto generi naturali […]; di per sé (la percezione sensibile) non può fornirci il materiale grezzo della conoscenza scientifica» [C. H. Khan, La funzione del «nous» nella conoscenza dei primi principi in Analitici Secondi II 19, in G. Cambiano, L. Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, p. 331].
[4] Aristotele, Fisica I, 2, 185a 12.
[5] corsivo mio.
[6] corsivo mio.
[7] corsivo mio.
[8] Aristotele, Fisica I, 2, 185 a 21.
[9] Aristotele, Fisica I, 2, 184 b 15-17.
[10] corsivo mio.
[11] Wieland, La Fisica di Aristotele, il Mulino, 1993, p. 79.
[12] G. Giardina, I fondamenti della Fisica. Analisi critica di Aristotele, Catania 2002, p. 138.
[13] corsivo mio.
[14] Tengo a precisare che il “superamento” è da considerare dal punto di vista di Aristotele nei confronti dei predecessori, le cui dottrine sono superate, riconosciute ed integrate in una prospettiva più ampia.
[15] Wieland, op. cit. p. 127.
[16] corsivo mio.
[17] Aristotele, Fisica I, 8, 191b 2.
[18] Aristotele, Fisica I, 8, 191b 7.
[19] Aristotele, Fisica I, 8, 191b 18.
[20] Aristotele, Fisica I, 8, 191a 32.
[21] Aristotele, Fisica I, 8, 191b 13.
[22] Aristotele, Fisica I, 9, 192a 6.
[23] Per sostanza si deve qui intendere come sostiene lo stesso Aristotele, “questa certa cosa” ed è tale perché costituita dal sostrato stesso unito a una specifica forma.
[24] Aristotele, Fisica I 7, 191a 9.
[25] Aristotele, Fisica I 7, 191a 13.
[26] Barnes definisce Aristotele un pensatore sistematico. I trattati che ci sono pervenuti mostrano, secondo il filosofo inglese, un abbozzo parziale e incompleto del suo sistema. La teoria delle forme platoniche era la teoria ontologica più elaborata che Aristotele conoscesse, la teoria con cui aveva avuto a che fare negli anni dell’Accademia. Aristotele condivise la sistematicità del pensiero platonico e la conseguente visione di una teoria unificata della scienza ma se ne distaccava sul modo in cui l’unità avrebbe dovuto essere conseguita ed esibita. Nel pensiero di Wieland questa idea non fu mai nelle intenzioni di Aristotele. Questo tipo di interpretazione è frutto dei commentatori di Aristotele tra cui Tommaso d’Aquino. Questi commenti possono suscitare grande interesse ma sono più volte ostacolo alla comprensione di importanti argomenti della filosofia aristotelica.
[27] E’ necessario aggiungere un ulteriore precisazione. Wieland discute l’altra grande concezione che divide gli studiosi di Aristotele: la concezione storico-evolutiva. Tale punto di vista afferma che il pensiero di Aristotele si evolve in modo lineare e indifferenziato rispetto alla filosofia di Platone. Wieland, al contrario, sottolinea che la Fisica costituisce per Aristotele una esigenza di differenziazione rispetto a Platone. La Fisica è innanzitutto da intendere come ricerca dei principi per una trattazione scientifica delle cose naturali. Nel tentativo di una Fisica, come “scienza della natura” è collocato il profondo contrasto con il platonismo, nelle cui premesse fondamentali rientrava l’impossibilità di pervenire ad una conoscenza reale del mondo naturale delle cose mutevoli. Inoltre Wieland sostiene che in Platone le diverse posizioni dell’evoluzione del suo pensiero corrispondono ai diversi momenti della sua vita; questo vale per gli aspetti politici della sua vita e del suo pensiero. Per quel che riguarda Aristotele, sostiene ancora Wieland, nessun interprete è riuscito a dimostrare un effettivo legame tra biografia e sviluppo della riflessione. Barnes sottolinea, in disaccordo con Wieland, due periodi decisivi nella vita di Aristotele: il primo periodo ateniese prolungatosi dal 367 al 347 a.C. e il secondo periodo ateniese, dal 335 al 322. Nel 347 Aristotele godeva ad Atene di grande fama e fu per motivi politici, in particolare per via dei rapporti che intrattiene con la Macedonia, che fu costretto ad abbandonare Atene. Fu proprio negli anni di viaggio, tra il 347 e il 335 che Aristotele raccolse osservazioni di astronomia, chimica, fisica, biologia ma soprattutto i suoi studi sugli animali posero le basi per la fondazione delle scienze biologiche e per la sua affermazione come “filosofo scienziato”(Barnes, op .cit., p. 92).
[28] Aristotele, Fisica I 7, 191a 10.
[29] Secondo Wieland la Fisica di Aristotele può essere compresa autonomamente e non necessita di premesse della Metafisica (primato metodico della Fisica). La Metafisica è questione di confine di una Fisica realizzata che si comprende in primo luogo come scienza generale dei principi la quale non deve essere subordinata alle premesse di una scienza superiore. Barnes, d’altra parte, sottolinea il ruolo di primo piano della Metafisica nel sistema aristotelico. La Metafisica è la scienza che studia l’essere in quanto essere, un tipo particolare di scienza che studia le cose che esistono, e le studia in quanto esistono. La Metafisica è la filosofia prima e dunque si identifica con la Teologia. La Teologia è universale perché prima e se si studiano le sostanze prime da cui tutte le altre entità dipendono, allora si studieranno tutti gli esistenti in quanto esistenti.
[30] Aristotele, Fisica I 9, 192a 13.
[31] Aristotele, Fisica I 9, 192a 15.
[32] Aristotele, Fisica I 9, 192a 23.
[33] Aristotele, Fisica I 7, 191a 3.
* Gaetano Grisolia nasce il 5 aprile 1986 a Lagonegro (PZ). Dopo gli studi classici si trasferisce a Roma dove nel 2013 si laurea, con il massimo dei voti, in “Filosofia e Studi Teorico-Critici” presso l’Università Sapienza con una tesi dal titolo “Il concetto di esistenza nell’opera di Emil Cioran”. Alla costante ricerca di nuove sfide formative e professionali consegue, nel 2015, il Master in “Organizzazione e Personale” presso l’Università Commerciale Luigi Bocconi. Attualmente vive e lavora a Milano dove collabora con aziende e società di consulenza occupandosi di gestione, selezione e sviluppo del personale.
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18 maggio 2015 alle 21:10
Tra l’Essere e il Non-Essere si frappone la scelta. La dicotomia precedente non è chiara se non si comprende che un’entità incarnata, un uomo, possiede il Non-Essere, energia come principio, funzioni, e che tale uomo deve rappresentarli, dunque attualizzarli, farli divenire in Essere. In questo aspetto di rappresentazione si attua il divenire individuale e storico dell’uomo. In questo senso si può parlare di Uno che diviene molteplice, dunque Movimento. Il fatto che si può considerare statico, riguarda la ripetizione dell’eguale, essendo il divenire circolare.
20 maggio 2015 alle 13:42
Articolo interessante. Tuttavia vorrei spezzare una lancia a favore di Parmenide il cui pensiero è stato, forse un po’ frettolosamente, assimilato a quello dei sui discepoli, complice anche un certo timore reverenziale nei confronti del genio di Aristotele. A mio avviso Aristotele deve molto di più a Parmenide di quanto si sia disposti ad ammettere. Lo stesso principio di non contraddizione, che è il fondamento della logica Aristotelica, è stata il fulcro dell’ontologia parmenidea. Quella della negazione della molteplicità nel pensiero parmenideo, risulta più il frutto di una genuflessione alla tradizione aristotelica “senza se e senza ma”, che non il risultato di una e vera e propria esegesi dell’unica e parziale testimonianza concentrata nel poema “Sulla natura”. Ed il titolo dell’opera dell’Eleate, dovrebbe pure suggerire una certa considerazione del mondo fenomenico, come si affanna a sottolineare Roberto Radice. Tutta la tradizione esegetica che accomuna autori come Ruggiu, Severino, Radice, Sangiacomo è fortemente tesa a rilanciare una nuova immagine del pensiero parmenideo che si emancipa dalla “deriva ontologica” dei sui discepoli, in particolare dell’eleate Melisso. In questo nuova dimensione, viene dato molto spazio all’esegesi della seconda parte del poema “Sulla natura”, quella meno nota, in cui chiaro emergerebbe il riferimento alla molteplicità, non più elemento illusorio dell’esistenza, bensì costitutivo di quell’essere che è “uno”. L’uno parmenideo è nell’esegesi tradizionale ipostatizzato. Cosi non è nella nuova interpretazione, là dove costituirebbe un aporia ingiustificata nella esposizione complessiva del poema. Radice, ipotizza cosi una “terza via”, quella denominata dell’”opinione vera”. La terza via è quella imboccata dall’uomo che esplora il mondo dei fenomeni alla luce del criterio appreso sulla via “che è” dove giace la “ben rotonda verità” principio dell’essere. In questo senso, che fai ben notare, il principio deve essere principio di qualcosa. E, con la stessa logica, Sangiacomo riconosce che l’uno non potrebbe esistere senza il molteplice. Pertanto, come ammette lo stesso Ruggiu “Il molteplice delle cose che appaiono, costituisce non un’alterità, rispetto all’Essere, ma un momento dell’Essere, un espressione dell’Essere nella sua manifestazione. La manifestazione del molteplice, sia nella sua forma come nei suoi contenuti concreti, esprime lo stesso essere, è l’essere del suo dispiegarsi nell’apparire”. L’etimologia del termine “apparire” (la traduzione del termine utilizzato per descrivere la fenomenologia anche nella concezione parmenidea) è piuttosto chiara: dal latino “apparere”, presentarsi allo sguardo, essere manifesto. Non c’è un giudizio di merito nella significazione del termine. Dunque l’apparire è qualcosa che percepiscono i sensi ed è legittimo attribuirne l’esistenza. In conclusione, Parmenide non avrebbe avuto motivo di negare il molteplice che si manifesta nella fenomenologia della natura. Aspetto che aveva compreso bene Empedocle, il quale ha certamente preso ispirazione dal “maestro” Parmenide. Con il molteplice l’Essere emerge in superfice, mutevole, ma pur sempre determinato da un lògos, questo si unico ed unificante, immutabile ed eterno, che soggiace al di là del fenomeno e che non ha esitazioni o fraintendimenti, È.