> di Giorgio Astone*
Abstract
In this article we’ll analyze some of the ‘methaphorogical’ processes, illustrated by the German philosopher Hans Blumenberg in his work “Paradigmen zu einer Metaphorologie” (1960). Particularly, in the first chapter we’ll step into the concept of “Truth” and its power in the metaphoric sense of “light”, “revelation” and “human labour”; the second will concern two of the most important paradigmatical shifts at the threshold of modernity: from an organicistic view to a mechanicistic one, and from the Tolemaic astronomic organization to the Copernican model. In the end of the essay, there’ll be a general presentation of Blumenberg’s hermeneutic method of philosophical research.
Introduzione
Avvertire l’equivocità del linguaggio filosofico è probabilmente un motivo ancora oggi d’attrazione e repulsione per i suoi frequentatori non assidui: assiomi auto-imposti, passaggi concettuali e sillogismi più o meno saldi si mescolano a parabole, miti e metafore sin dagli albori del pensiero occidentale. Eppure anche tale ambiguità è già stata sondata, marcata come superandum da determinati indirizzi filosofici e reputata perfezionabile nella volontà di diverse scuole: un tracciato simile, che riflette sul rapporto fra la coscienza dei filosofi e la loro terminologia specifica, si ha nel primo di una lunga serie di lavori che consacrerà Hans Blumenberg come fondatore d’un nuovo filone di studi nella seconda metà del XX secolo. Il percorso viene inaugurato nel 1960, con Paradigmen zu einer Metaphorologie: il tentativo di ricostruire il milieu di una pluralità di campi semantici, apparentemente catalogabile come impresa storica, si trasfigura nella ipostatizzazione di una nuova forma di ermeneutica; la fenomenologia di alcuni autori, paradigmatici exempla della loro epoca, permette di sfiorare il modus operandi della creatività umana in quanto tale, il suo modo di rapportarsi al nuovo o al domandare esistenziale che sembra non avere risposta. È così che il metaforico, come il circolo ermeneutico gadameriano, emerge come struttura che supporta e permette la stabilità teoretico-biologica dell’essere umano.
Tale campo d’indagine, rispetto al quale cercheremo di disegnare alcuni prodromi in rapporto a dei percorsi scelti dall’autore nell’ambito della storia della filosofia, non cessa di esercitare tutt’ora un suo fascino peculiare nell’ambiente accademico: basti qui accennare alla ripresa del tema enigmatico del metaforico nella cosiddetta ‘linguistica cognitiva’ a seguito del volume del 1980 di George Lakoff e Mark Johnson “Metaphors We Live By”; nel nostro ultimo capitolo tenteremo di estrapolare dai passaggi di ricostruzione blumenberghiana alcuni punti fermi per una teoria generale della metafora, utili ai fini del dibattito sulla sua origine e sui suoi perché nella filogenesi umana.
La verità fra revelatio e labor nella filosofia occidentale
Per millenni si è cercato di dare una definizione positiva di “verità”, apparentemente senza successo; in realtà, già prima della relazione logico-teoretica stabilita da Isaac Israeli il Vecchio della stessa come «adequatio rei et intellectus» [1] o delle speculazioni heideggeriane sul concetto di αλήϑεια, la sedimentazione linguistica, attraverso un susseguirsi continuo di metafore, ha copiosamente distribuito risposte e tentativi di chiarimento in ogni epoca storica. In questa schiera tradizionale della sapientia non strettamente scientifica il nostro autore tenta di scavare, precisando fra le righe come nell’utilizzo delle forme simboliche possa avvenire sia un passaggio dal concetto (una teoria pura) alla metafora che l’inverso: non soltanto in forme come la catacresi ed i teologumeni religiosi ma soprattutto nella dialettica dei significati e nei processi di fabbricazione del senso comune si delineano diversi modi d’intendere la verità che nascono e si formano interamente all’interno della dimensione linguistica e sembrano condizionare la possibilità di captazione della stessa da parte della specie umana.
Prima d’ogni altra cosa occorre porre un interrogativo sulla forma della medesima interrogazione: cosa può davvero significare la domanda «che cos’è la verità?» e la ricerca stessa se il presupposto di tale chiedersi è un’assenza avvertita e mai colmata? Le implicazioni sono molteplici ed il filosofo tedesco cerca di risalire alla spiegazione di un tale sentire proponendo subito rimandi metaforici a termini come “luce” [2] e “visione”: è certamente una delle prime formulazioni, riguardanti la verità, quella che pone l’uomo in rapporto con un Tutto o con una divinità che possiede l’onniscienza rispetto al creato nella sua interezza. Il domandare sulla verità non nasce disinteressato: è lo sforzo di un soggetto, l’estensione di un suo desiderio vitale di chiarezza (un ricercare, per l’appunto, la luce); emergono essenzialmente due biforcazioni nella stessa strada, similarmente al poema parmenideo: un prevedere pessimistico, che implica già subito un forzare e un vessare la natura o direttamente un’abnegazione tramite la scepsi da un lato, dall’altro l’aspettativa di una partecipazione a questo sapere tramite l’apertura di una possibilità da parte del Tutto/Dio nei confronti dell’essere umano. Schematizzati in questo modo, i due modi d’immaginare i sentieri praticabili per l’uomo nel cammino verso la veritas sono già disseminati di campi semantici connotati positivamente o negativamente, indicanti le tracce d’una presenza trascendente e d’un pactus in un caso o l’urgente bisogno d’intervento umano nel silenzio metafisico che lo tormenta: «in quale situazione si trova il cercatore della verità: può egli fare affidamento che l’ente gli si apra, oppure conoscere è essenzialmente violentamento, soperchieria, estorsione, penosissimo interrogatorio dell’oggetto? È il lotto della verità dell’uomo assegnato sensatamente, a regola, per esempio per l’economia dei suoi bisogni, oppure per la sua dote di godimento del superfluo secondo l’idea di una visio beatifica?» [3].
A queste due vie corrispondono mutuamente due allineamenti di pensatori: Blumenberg non tarda nell’incastrare i primi tasselli, con l’intento di costruire un puzzle il più variegato possibile. In primis viene incontro al lettore dei Paradigmen un aforisma goethiano, tratto dalle Maximen und Reflexionen, lapidario e conciso: «se Dio avesse contemplato nel suo agire che gli uomini dovessero vivere e operare nella verità, avrebbe dovuto disporre diversamente la sua organizzazione» [4]. La constatazione di Goethe verte su un’evidenza: il mondo e la sua disposizione non facilitano certamente il lavoro della scienza, non v’è alcun motivo di attribuire alla creazione anche l’intenzione divina di rendere il più semplice possibile l’accrescersi dei saperi.
Le difficoltà incontrate nella ricerca della verità legittimano, dunque, una natura che si cela nei suoi segreti o un deus absconditus irraggiungibile? A questo livello di generalizzazione, quasi innato nella realizzazione della propria esistenza, ossia la non-immediatezza delle risposte (e delle domande), si aggiunge una divisione classica e performativa nelle teorie della filosofia occidentale: quella fra una revelatio divina che permette, prima o poi, di far concordare una verità che rimane al di là del mondo, gradualmente e mai totalmente alle nostre facoltà di comprensione, e la contrapposta idea che sia solamente il labor hominis, con il suo metodo saldo e asintoticamente sempre più sicuro e perfettibile, a dare risposte certe e concrete, verità “utili” proprio in quanto artificiali e paragonabili a qualsiasi strumento. Il divario fra verità naturale e verità tecnica/artificiale non esclude difficoltà comuni e affini metaforiche, ma distanzia lentamente due sensi dell’uomo rispetto a se stesso, al mondo in cui vive e alle sue capacità.
Naturale sarebbe la verità che si fa strada nel tanto discusso passo della Metafisica aristotelica che recita: «αὐτὸ τὸ πρᾶγμα ὡδοποίησεν αὐτοῖς καὶ συνηνάγκασε ζητεῖν» [5]; la riflessione classica greca cerca di scoprire più che di costruire e, nella ricostruzione blumenberghiana, il mistero della realtà sembra un «segreto impellere della cosa stessa» [6] dinnanzi allo sguardo dei filosofi antichi. Per una rivelazione “naturale” è necessario, di volta in volta, specificare il modo del suo rivelarsi ed il messaggio ricevuto o la gradualità che la caratterizza in un ipotetico progresso delle conoscenze umane; in questa impostazione si ritrova anche Locke, che nella proporzionalità fra lo scoprirsi graduale della verità in accordo con la capacità di comprensione della mente vede un segno della bontà celeste:
«Se poi in questa pubblicità dell’essere si mostri davvero la bontà di Dio, ciò dipende da come si intende pregiudizialmente la relazione fra la felicità dell’uomo e il possesso della verità. Se si ammette che per gli uomini sia più salutare ottenere conoscenza solo in una dosatura appropriata, allora la bontà di Dio appare precisamente nell’economia con la quale egli partecipa verità agli uomini: “[…] that portion of truth which he (the Father of Light) has laid within the reach of their natural faculties”» [7].
Nell’insieme della terminologia che appartiene ad una verità che si manifesta spontaneamente, come una luce proveniente da Dio che pervade l’universo e lo rende immediatamente un κόσμος, conoscibile in quanto tale dalle creature predilette, si cela quindi anche il pericolo d’un accecamento, d’una perdita mistica controproducente per la sopravvivenza di un vivente limitato come l’uomo. Molti pensatori ed opere si susseguono sulla medesima scia che naturalizza il vero e lo riconduce ad una benevolenza di Dio (Descartes, ad esempio); è con la modernità che tale sicurezza s’incrina ed il legame si spezza una volta per tutte. Rimanendo all’interno di un discorso che attribuisca una determinata forza alla verità, si passa in un certo qual modo dalla metafora al concetto con il sensibilismo di Hume, rappresentante una forma di riconfigurazione dei termini espressivi: la sostanza della verità si dilegua in senso qualitativo, il suo palesarsi è quantitativamente legato all’intensità della sua manifestazione (in un rinnovato modo di intendere, se vogliamo, la φαντασία καταληπτική stoica):
«mentre la forma tradizionale della metafora presenta la “forza” come un attributo legittimo della verità, che mette in atto l’esecuzione di un diritto originario, in Hume la forza è diventata l’unica e sola “sostanza” della verità. “Verità” è solamente il nome per il fatto che nella coscienza umana determinate rappresentazioni, mediante il quantum di energia loro inerente, hanno il sopravvento su altre e così danno luogo alla costituzione dello status di “belief”; così il criterio di distinzione fra le idee vere e false è la “superior force” delle vere, meglio: di una classe di idee le quali appunto perciò vengono denominate “vere”. “When i am convinc’d of any principle, ‘tis only an idea, which strikes more strongly upon me.” Qui non è più la verità che ha un potere, bensì ciò che ha potere su di noi, questo noi legittimiamo teoreticamente come il vero» [8].
Il modo di scoprire la verità, o le leggi che governano il mondo, non è il solo modo di seguire in maniera argomentativa le due vie che abbiamo accennato all’inizio, visto e considerato che è possibile indagare anche la sua fonte d’origine e considerare la modernità come epoca di rottura radicale con la tradizione del sapere rivelato: «tutto il vero è acquisizione, non più dono; la conoscenza assume il carattere di lavoro» [9]. Lo sforzo, la fatica, il lavoro: è questa la metafora che accompagna la fondazione delle scienze moderne e l’edificazione dei suoi metodi. A questo riguardo il filosofo tedesco, nel suo percorso ermeneutico, riconosce una traslazione concreta tra un fondo metaforico comune e un altro in alcune paradigmatiche righe di Bacone; non è consono alla ragione starsene come uno spettatore di teatro, a contemplare la scena del reale. Essa deve interrogare la Natura, quasi vessarla, fino ad ottenere delle risposte: ante tempore rispetto alla celebre formulazione kantiana, Bacone è il primo ad inaugurare l’accostamento fra l’indagine razionale e filosofica e il tribunale. Egli scrive, ad esempio, nell’Advancement of Learning: «but it is not good to stay too long in the theatre. Let us now pass on the judicial place or palace of the mind» [10].
Non sussiste più, da Bacone in poi, una distinzione fra avanzamenti nel campo della tecnica e quello del disvelamento teoretico della “verità”. Almeno non nell’uso filosofico del concetto di lavoro: in esso sfuma la distinzione fra la ricerca del vero e ricerca del metodo atto a raggiungerlo; sulla genesi di questo processo, che attraverserà completamente il razionalismo in generale e l’Illuminismo francese e tedesco poi, Blumenberg appunta:
«l’uomo non è più, come nella concezione aristotelica del rapporto di natura e tecnica, il cooperatore dei processi della natura, che per imitazione mette a posto e porta a compimento ciò che essa lascia a mezza strada, senza però poterlo modificare, trasformare, foggiare da capo a fondo. Questo, come in generale la distinzione classica di natura e tecnica, è un vecchio errore che, come dice espressamente Bacone, “ha suscitato una esagerata timoratezza dell’uomo nelle sue imprese”. L’uomo non ha bisogno di attenersi allo statuto eidetico della natura, egli deve solo conoscere la regola costitutiva e la forza dei processi naturali, per “poter tutto”» [11].
La traslazione che interessa la filosofia, prima volta alle scienze naturali contemplative e descrittive come massime forme di sapere, verso la tecnicizzazione dei saperi, la fabbricazione di metodi validi e la valutazione del loro funzionamento, sottintende implicitamente un cambiamento nella forma stessa della verità, da luce trascendente a macchina perfetta e governabile; il metodo non è un semplice medium ma sembra diventare, nell’accostamento alla base dell’edificio del sapere umano, il fine stesso del ricercare. A questo proposito chiosa Montesquieu, nel suo Discours sur les motifs qui doivent nous encourager aux sciences, che «ciò che rende stupefacenti le scoperte di questa età non sono le verità come tali, che si son trovate, ma i metodi per trovarle; l’importante non sono le singole pietre per l’edificio, ma i mezzi e gli strumenti per costruirlo come un tutto perfetto» [12].
Mai lo sguardo dell’uomo è stato direzionato dalla divinità ed anche le conoscenze già affermatisi ed il sapere costituito non sono stati nient’altro che frutto degli sforzi del genio della specie: una delle rivoluzioni dell’Illuminismo è tale rivendicazione audace, che porta con sé l’esigenza, oltre ad una nuova fondazione racchiusa in tali proclami, di una riscrittura complessiva delle conoscenze fino ad allora accumulate, pervase di false premesse e speranze. Scrive D’Alembert nel Discours préliminaire de l’Encyclopédie che il pensiero necessita di complicarsi rispetto alla ‘facilità’ medievale, rinnovarsi a tal punto da esigere «une de ces révolutions qui font prendre à la terre une face nouvelle» [13].
È compiuta, dunque, nell’uso dei campi semantici e delle metafore che prima riguardavano il mondo naturale a quello artificiale e tecnico (come vedremo, rispecchianti corrispettivamente due modelli diversi di fisica, organicismo e meccanicismo), la metamorfosi del concetto di verità nella filosofia occidentale. Questa non si nasconde più in qualche remoto luogo edenico o nel futuro messianico, è da costruirsi hic et nunc, estendibile ad infinitum in base alle condizioni, possibilmente senza limiti, dello sviluppo storico. Sebbene la purezza della verità dal punto di vista eminentemente teoretico scompaia nella filosofia nel XVIII secolo, i valori attribuiti al disvelare progressivo rimangono tuttavia adoperati in un altro contesto: quello della riflessione morale. La natura che riemerge si ritrova, qui, nella terminologia affine alla “nudità”: se prima l’αλήϑεια poteva ipotizzarsi sommersa dagli errori dei sensi, adesso determinate “verità morali” sono sepolte dalle vesti mistificanti della cultura storica. Rimane anche qui, come nel caso della luce e dell’auspicabilità di una visione graduale o diretta, la perplessità riguardo allo sconvolgimento che potrebbe causare una verità nuda e cruda, insieme al dovere del moralista di indagare la genealogia dei costumi.
Le dissertazioni sullo stato di natura, fra cui spiccano quelle rousseauiane, utilizzano tale dicotomia di nudità/travestimento come immagine di un possibile superamento della propria realtà sociale: «il concepire il vestimento come travestimento che si può strappare di dosso o gettare via o smascherare è l’inizio della disidentificazione sociale» [14]. Durante la Rivoluzione Francese, le maschere che devono cadere sono principalmente quelle della nobiltà e del clero: la dialettica della verità è una delle armi retoriche della classe borghese; un secolo dopo, nel Kommunistisches Manifest di Marx ed Engels, «nudo» è l’interesse del borghese stesso, contemporaneamente manifestantesi per ciò che è nella nuova estraniazione derivante dai flussi economici e rappresentante una nuova “veste”: quella del Capitale, che conduce la storia più di quanto possano prevedere i singoli contraenti economici. Un ulteriore capovolgimento di metafore e di attribuzione del senso che viene ripercorso dal pensatore tedesco nei Paradigmen:
«Il discorrere della nuda verità fu nell’età moderna primariamente una forma borghese in polemica con il mondo di paludamenti della nobiltà e del clero, ma che poté venir ripresa da ogni successivo ceto che si credette ignudo e voleva strappare le vesti degli altri come travestimenti. Il Kommunistisches Manifest ha indicato con tutta chiarezza quale sia stata l’operazione iniziale della borghesia: “La borghesia, là dove è giunta alla supremazia, ha distrutto tutti i rapporti feudali, patriarcali, idillici. Essa ha lacerato senza misericordia i variopinti legami feudali, che avvicinavano gli uomini ai loro naturali superiori, e non ha lasciato sussistere fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, che il ‘pagamento in contanti’ privo di ogni sentimento […] la borghesia ha spogliato della loro parvenza sacra tutte le attività fino ad ora tenute in onore e oggetto di religioso rispetto. Essa ha trasformato il medico, il giurista, il parroco, il poeta, l’uomo di scienza in suoi salariati» [15].
Il valore di una metafora non è, dunque, vincolato al suo primo utilizzo o alla sfera del vivere sociale a cui si riferisce: la versatilità del linguaggio permette di tracciare un diagramma di continuità e discontinuità particolarmente proficuo per la storia del pensiero. Rousseau e Marx utilizzano la stessa metaforica per colpire obiettivi critici diversi: eppure permane un desiderio intellettuale simile e strutturante un’esigenza morale, quella dello “scoprire” il falso; solo lo storico, a posteriori, può vedere come la serie degli sforzi di disvelamento non abbia portato che al rinvenimento di «nuove quinte» [16]. Nonostante l’abbandono progressivo del modello della revelatio naturalis, l’attrazione verso una dimensione più “reale” connota gli ambiti diversi della filosofia occidentale, pur nel suo svincolamento teologico; paradossalmente, è possibile rinvenire una tale esigenza nella critica che i filosofi stessi muovevano ai retori e alle loro tecniche discorsive, fra cui l’utilizzo di metafore. La metaforica della nuda verità diventa essa stessa quella caratterizzante la filosofia, più o meno consciamente [17]; si leggano, ad esempio, le dichiarazioni enfatiche di Pico della Mirandola (interpretate da Blumenberg), nella sua lettera a Ermolao Barbaro (1485), riguardanti il ruolo del filosofo: «“È lecito a una vergine onorata imbellettare il suo volto?”. Può il filosofo avere qualcosa a che fare col retore, la cui magia consiste nel “poter dare a ogni cosa un aspetto diverso da quello che realmente ha”, e che deve intendersi nell’arte di “imprestare al falso la parvenza della verità e gabellare ai suoi uditori pure invenzioni come fossero realtà”?» [18].
Metafore della realtà e codici di orientamento
Se la metafora soddisfa in maniera inconscia, pur provvisoriamente, l’angoscia derivante dal non sapere che cosa sia una “verità”, ancora più cogente è la sua funzione riguardo ad un’altra domanda non meno vitale e dalle molteplici sfumature esistenziali: «che cos’è il mondo?» [19]. Non potevano le singole branche del sapere, nel corso dei secoli, soddisfare una tale esigenza completamente: ed è tuttora chiaro come rapportarsi al “mondo” non si esaurisca né nella geologia né in una visione sociologica d’insieme. Se si intende qui il termine “mondo” come quel «Tutto portante e onnicomprensivo» [20] che ci accerchia e nel quale ci muoviamo (e dal quale “prendiamo le mosse”), le espressioni linguistiche che i filosofi davano alla luce dovevano naturalmente rispondere ad un’esigenza d’orientamento antropologico ben più grande di quella delle sciente esatte: per l’uomo è impossibile destreggiarsi senza punti di riferimento ed una Weltanschauung che abbia in sé una teleologia? Il rapporto fra l’individuo ed il suo mondo è sempre antropocentrico o la prospettiva può esondare verso una forma acentrica ed antispecista di cognizione dell’universo? La metafora è, in questo caso, un abbozzare necessario dal fondamentale valore epistemologico: una «vérité à faire» [21].
È, inoltre, di vitale importanza considerare ogni espressione linguistica galleggiante in una sua «metaforica di sfondo» [22] per una sufficiente ricezione ai fini dell’orientamento e dell’ermeneutica; nonostante ogni enunciato che rimandi all’intuizione sensibile possa avere un orizzonte comune, empatico, non esclusivamente definibile nei valori strutturali del linguaggio, la comprensione dell’enunciato nasce dalla ricostruzione sempre più esatta del contesto di partenza del soggetto enunciante. Con un esempio calzante, che anticipa di nove anni l’impresa dell’allunaggio dell’Apollo 11, Blumenberg ironizza sul fatto che sarà forse necessario, nel prossimo futuro, conoscere alcuni modi di descrivere linguistici degli “allunatori”, americani o russi, per comprendere la loro esposizione di quanto visto per la prima volta (e dunque “nuovo”, in rimando alla teoria generale dell’ermeneutica blumenberghiana) sulla superficie lunare [23].
La descrizione delle metafore indicanti il “mondo” e la loro interpretazione occupa quasi un terzo dell’opera del filosofo; più specificamente, l’orientamento dell’essere umano nella totalità oscilla fra il campo semantico del viaggio che, come nell’Odissea omerica, pur nelle sue peripezie, consente un controllo e nobilita le facoltà che in esso trovano la sua più completa realizzazione, e quello del naufragio o della nave alla deriva (spesso metafora mutuamente utilizzata nella dimensione morale e politica), che non conosce timoniere o destinazione ma continua imperterrita a muoversi, atterrita dall’oscurità dietro di sé [24]. Nonostante ciò, più che soffermarsi su una possibile distinzione fra differenti metaforiche in rapporto al valore antropologico e teologico (come per la verità), il filosofo tedesco tratta la trasposizione del concetto di mondo in una serie di “modelli” scientifici che via via si sono succeduti nel corso del pensiero occidentale, mostrando come il ricorso ad un “come se-” della lingua si sia sempre più spostato, da un potenziamento espressivo, verso una consapevolezza della necessità di adattamento a un succedaneo. Non potendo studiare il “Tutto” in sé, ma dovendo assolutamente produrre una scienza in grado di sopperire alle mancanze e alle difficoltà degli individui, la creazione di modelli teoretici che potessero “rappresentare” l’universo in modo tale da poter agire su di esso ha portato a delle conseguenze teoriche che possono essere cristallizzate nel passaggio da una concezione organicistica ad una meccanicistica della realtà.
La metafora della «machina mundi» [25] consta di attestazioni antiche e presenze significative anche all’interno del pensiero classico: tuttavia, sostiene Blumenberg, il termine “machina” ebbe a lungo una vaghezza di significati che poteva essere considerato analogo a “struttura” e non del tutto agli antipodi del figurare biologico dell’organicismo. Con una sorta di pseudomorfosi spengleriana invertita, il vero significato di tale parole nei termini di pura forza contrastante emerge soltanto nell’ottica del materialismo francese, ove si accompagna a specificazioni, come «la machine de l’univers» o «la machine du corps humain» [26]. Decisiva, in questa lenta traslazione verso il moderno significato di macchina, diviene la scoperta del principio di inerzia: «si vede facilmente che solo la scoperta del principio d’inerzia poté soddisfare appieno questa esigenza di bandire in esilio metafore organiche, quali si trovavano a disposizione nella tradizione stoica, in piena reviviscenza all’inizio dell’età moderna» [27].
Il modello come conditio sine qua non dell’epistemologia interessa Blumenberg per diversi aspetti; uno di essi riguarda la sovrapponibilità, dal punto di vista filosofico ed assiologico, che intercorre fra tale necessità e quella della stessa metafora linguistica dinnanzi all’inintelligibile. L’epoca moderna si apre con i passi da gigante della tecnica, che coi suoi supporti sperimentali permette agli uomini di scienza (spesso contemporaneamente inventori) di verificare ed elaborare nuovi metodi applicativi. La sfera armillare, per quanto concerne l’astronomia, incarna questa forma di sottrazione all’universo organico della sensibilità e la proiezione di un modello artificiale dell’universo; scrive Blumenberg:
«la costruzione meccanica ha quindi un’entità propria di fronte al fenomeno di natura, che noi non penetriamo, pur concesso che il prodotto dello spirito umano si possa sostituire al posto del prodotto dello spirito di Dio. E proprio questa possibilità viene colta nella funzione del modello astronomico: il modello viene proiettato al posto di ciò che sembra essenzialmente sottratto all’esperienza teoretica di oggettivazione. La struttura di questo procedimento ci è già perfettamente familiare: è la struttura della “metafora assoluta”. Il moderno meccanicismo cosmologico è lo sviluppo di una metafora assoluta, il cui presupposto fu una nuova concezione delle capacità di prestazione dello spirito umano» [28].
Un’esigenza simile è quella che spinge Cartesio all’elaborazione della sua fisiologia sul modello della macchina[29]; la riconversione della fisica nell’insieme meccanicistico dell’illuminismo francese produce una nuova visione d’insieme della realtà e la metafora del Tutto e quella che interviene nei suoi singoli processi di trasmissione (del movimento, dell’energia, ecc.) dà luce ad una visione complessiva del pianeta come enorme orologio. Lo stesso Cartesio, nei Principia philosophiae (1644), sembra perspicuamente cosciente di una tale sovrapposizione epistemologica universale, della quale si fa pioniere, ed enuclea una complessa metafora riguardante l’interpretazione crittografica d’una lettera [30]: se usiamo un codice che ci permette d’interpretare un testo e di dargli progressivamente sempre più senso compiuto ci persuadiamo che quello sia il codice di cui necessitavamo, pur non potendo conoscere mai con sicurezza se il medesimo codice in nostro possesso sia quello utilizzato dallo scrittore. In questo caso, se il filosofo è l’interpretante e Dio l’autore della realtà, ci accontenteremo di studiare il libro del mondo [31] per poi trascriverlo in termini a noi più accessibili ed immediatamente comprensibili.
Il ricorrere del razionalista francese al campo semantico del libro e della sua interpretazione permette a Blumenberg di compiere una lunga digressione, di primaria importanza per la comprensione di una teoria metaforologica che preveda la possibilità di fasi di transizioni storiche e cambi di paradigmi, vertente le conseguenze del passaggio dalla metaforica del mondo come libro a quella dell’orologio cosmico. Si presuppone in questo orizzonte:
«che un libro abbia un contenuto che si comunica, ancorché dovesse essere stato scritto in una lingua cifrata e quindi solo potenzialmente leggibile, è cosa inseparabile dalla rappresentazione basilare: l’autore deve avere qualcosa da partecipare e comunicare, sia pure solo agli iniziati, ed egli ha bisogno di lettori che siano interessati a queste comunicazioni ovvero vogliano leggere. Un orologio ha, come misuratore ed indicatore del tempo, egualmente una funzione d’informazione; ma la metaforica vi si riferisce solo accidentalmente, essa è interessata eminentemente all’automaticità e regolarità del congegno di corsa: l’orologio-del-mondo è un orologio senza lancette e senza quadrante. Il senso di questo orologio consiste solo nel fatto che esso funziona, e precisamente solo per la sua costituzione immanente, assegnatagli una volta per sempre. La metafora del congegno a orologeria rafforza (come doveva mostrarsi prima di tutto nelle conseguenze del deismo) il teologumeno della “creazione” a scapito di altri: quello, cui si volgeva sempre più la preferenza dell’ultimo Medioevo, del “concursus divinus generalis” che vincola, per così dire, di continuo e sostanzialmente il corso della natura a un atto di decisione sovrana della divinità, anziché vedere nella costituzione della natura una definitiva decisione vincolante la potenza divina stessa, come intende suggerire la metafora del congegno» [32].
La lettura è la simbologia più prossima all’ermeneutica stessa: il contenuto dell’opera ha bisogno di un “lettore” per concretizzarsi, la sua realtà è strettamente commisurata al rapporto vitale che il lettore/interpretante intrattiene con esso. L’orologio ed il meccanicismo, nel loro travalicare inevitabilmente il mero pragmatismo metaforologico, tagliano fuori il ruolo dell’uomo nel processo di “creazione del senso” della realtà ed escludono la stessa divinità, nell’accezione della creazione permanente affermatasi nell’ultimo Medioevo. Nel momento in cui il filosofo meccanicista par excellence ritorna alla metaforica della leggibilità per modificarla e ridurre l’atto dell’interpretazione ad una ritraduzione per un uso immediatamente pratico, s’incrociano di fatto due tradizioni, prima complementari, adesso contrapposte: è chiaro che la trasposizione dei modelli, nati come exempla, ha prodotto una forma performativa di lettura dei fenomeni. La conseguenza, inoltre, forse ancora più “grave”, è quella legata al fatto che se, nella tradizionale identificazione di indagatore/lettore, l’uomo poteva ambire ad una posizione privilegiata (con l’atto della sua attenzione contribuiva al concretizzarsi dell’essenza del reale), nel meccanicismo che invade anche il corpo egli diventa un elemento fra tanti del congegno stesso, determinato aprioristicamente dalla materia che lo forma: «mentre la metafora del libro implica che l’uomo, nella sua prevista funzione di “lettore”, non sia egli stesso un elemento del libro del mondo, bensì il partner dell’autore, messo a confronto con il tutto della natura, nel quadro della metafora dell’orologio l’uomo rientra come elemento funzionale al congegno stesso» [33].
Una casistica a parte, invece, va affrontata per quanto concerne la rivoluzione copernicana. Si tratta, anche in questo caso, di un’ottima occasione d’indagine per l’ermeneuta, visto e considerato che geocentrismo ed eliocentrismo si portano dietro un apparato di metafore legate alla teleologia e all’antropologia sin dal momento della loro genesi in quanto teorie scientifiche. Esistono, perciò, due rivoluzioni copernicane: quella riguardante stricto sensu l’astronomia e quella della coscienza dell’uomo nel mondo rispetto alla sua posizione:
«Nessuna di esse ha niente a che fare con l’evento della riforma copernicana come opera di astronomia a livello teoretico-terminologico. Esse prendono ciò che è avvenuto in quella scoperta non come conoscenza, non come ipotesi, bensì come metafora. E proprio come metafora assoluta, dal momento che la ristrutturazione copernicana del cosmo viene assunta a modello orientativo per rispondere a una questione che non ammette le si dia risposta con mezzi puramente teoretici e concettuali: la questione della posizione dell’uomo nel mondo, nel senso del suo essere previsto e pensato come centro o della sua periferica partecipazione al meccanismo del mondo, insomma del suo rapporto con ogni altro ente e di questi con lui. Geocentrismo ed eliocentrismo, ovvero acentrismo, diventano diagrammi dai quali si deve poter derivare una qualche indicazione per capire cosa ci stia a fare l’uomo nel mondo» [34].
L’eredità delle nuove scoperte astronomiche si dilaziona nel corso dei secoli, ottenendo una recezione estremamente positiva o drammaticamente negativa nella maggior parte dei casi; esempi riportati da Blumenberg sono Goethe e Nietzsche. Il primo, nei suoi Materialen zur Geschichte der Farbenlehre, reputa benefico il crollo delle precedenti certezze, paragonate ad una cortina di nebbia e fumo che impediva una corretta visuale e giudicando la scoperta un’incredibile apertura di «prospettive fino allora ignote e insospettate» [35]; il secondo, nella Genealogie der Moral, attribuisce a Copernico l’inizio di quel processo di «autominimizzazione dell’uomo» che avrebbe portato, nel corso dei secoli e con una curiosa integrazione della religione cristiana, ad una esistenza umana «ancor più fortuita, ristretta, superflua nell’ordine visibile delle cose» [36].
Prima ancora di tali assimilazioni posteriori, provenienti da epoche diverse, una figura emblematica del cambiamento di paradigma dovuto alla rivoluzione copernicana è, per il filosofo tedesco, Galileo Galilei: in lui Blumenberg rintraccia massimamente il crocevia del pathos copernicano fra due tendenze diverse, quella della riduzione umiliante e dell’elevazione glorificante del pianeta e, con esso, dell’uomo. Nello scienziato italiano e nelle sue principali opere, come il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e il Sidereus Nuncius, s’incontra in modo del tutto particolare la problematica morale connessa alla rivoluzione della metaforica copernicana: essa viene formulata interamente in termini aristotelici e, più che della centralità e dell’acentralità della Terra rispetto al cosmo, s’impernia sulla «stellarizzazione della terra» [37] (o, viceversa, sulla «tellurizzazione del mondo stellare» [38]).
Lo sforzo di Galilei è principalmente difensivo: con lo scopo di sostenere le sue scoperte, legate indissolubilmente alla nuova conformazione astronomica, senza vergogna, lo scienziato ripiega sull’attribuzione della perfezione dei moti e della materia incorruttibile, da parte di Aristotele, al mondo “sopralunare”, per inferire quanti degli stessi attributi ‘divini’ appartenevano ora, a buon diritto, anche al globo terrestre. Il sovvertimento delle degradazione recepita (ad esempio, da Nietzsche) è perfettamente evidente in questa apologia del copernicanesimo galileiana: «si potrebbe dire che Galilei risolve il dualismo aristotelico (e tolemaico) di mondo sublunare e sopralunare, sublimando “verso l’alto”; così la scoperta della somiglianza della luna con la terra non è per lui indicativa che la luna sia qualcosa come una piccola “terra”, bensì l’effetto è, al contrario, l’assimilazione della terra a una sorta di essere cosmico che da Aristotele in poi era stato elevato senza paragone al di sopra di ogni specie terrestre» [39].
La lingua come spazio metacinetico per lo sviluppo del pensiero
La complessa analisi di contenuti storici svolta da Blumenberg non si appiattisce in una forma di studio erudito senza costruire, en passant, una teoria della metaforologia generale. Essa non è, difatti, soltanto una riflessione consapevole sulle metafore utilizzate nel corso della storia del pensiero in base all’appropriatezza o al successo delle stesse, ma rappresenta un tentativo di connotazione della forma-metafora nel suo valore specifico di elemento del pensiero. L’attribuzione di senso concessa al mezzo espressivo utilizzato si contrappone ad una logicizzazione della filosofia in toto, al ricondurre la lingua nei suoi punti più problematici ad un’insufficienza provvisoria, che potrebbe rimandare ad una futura “concettualizzazione”: all’ideale di una perfetta realizzazione della prima regola cartesiana del Discours de la méthode si accompagnerebbe il definitivo abbandono della forma metaforica ed una nuova formulazione dei problemi in termini logico-matematici: «tutto può essere definito, quindi tutto deve essere definito, non c’è più nulla di logicamente “in sospeso”» [40].
Il tentativo di salvaguardare la dimensione espressiva analogica del linguaggio sapienziale implica un rapporto fra filosofia e retorica meno schematico (rispetto allo stesso Pico della Mirandola) e conflittuale, non essendo possibile liquidare esclusivamente come abbellimenti o ornamenti tutte le espressioni non immediatamente ostensive o concettuali e conferendo una funzione positiva, nell’argomentazione, all’utilizzo di un particolare campo semantico e delle sue sfumature; a questo riguardo il filosofo tedesco aggiunge che una «perfetta congruenza di logos e cosmo esclude che il discorso traslato possa fornire qualcosa che il κύριον ʹόνομα non riesca a fare in modo equivalente. L’oratore, il poeta non possono in fondo dire nulla che non potrebbe anche essere esposto in forma teoretico-concettuale; in essi non è affatto specifico il “che cosa”, ma solo il “come”» [41]. Un tentativo simile di appiattimento, di riduzione dei termini in gioco ad un “pre” e un “post” evoluzionistico, si può trovare unicamente nei confronti del mito come parabola informe, allegorica e «forma primitiva dello sviluppo umano» [42] rispetto ad un λόγος manifesto.
Un’anticipazione della prospettiva ermeneutica che si cerca d’inferire per non ricorrere alla strumentalizzazione di uno dei due poli nel rapporto fra pensiero e linguaggio viene scoperta dall’autore all’interno dell’opera di Winckelmann dedicata al tema dell’allegoria; nel Versuch einer Allegorie (1766) il pensatore aveva distinto il velamento ed il travestimento in questi termini: «poiché fra i greci la sapienza cominciò a diventare più umana e a parteciparsi ai più, essa gettò via il riparo che ne rendeva difficile il conoscerla, ma rimase tuttavia travestita, pur senza velame, cosicché essa era riconoscibile per coloro che la cercavano e la osservavano, e in questa figura essa appare notoriamente nei poeti» [43]. Superata la trascendenza del velamento inaccessibile, il travestimento è da considerarsi, perciò, il vero e proprio modo di manifestarsi della verità, l’unione della luce con la sua inseparabile ombra: è nell’interpretazione, sempre limitata ad un contesto e legata ad un tempo, che essa si scorge, al contrario di quanto vorrebbe il costruttore di un’oggettività pura ed astraentesi dal transeunte.
Di una tale visione ermeneutica ed in fieri della conoscenza sono testimonianza vivente proprio le metafore, considerate come «elementi primi della lingua filosofica, “traslati” irriducibili alla proprietà della terminologia logica» [44]. All’interno di una riconsiderazione complessiva della fenomenologia umana e della formazione del pensiero, esse non sono che cardini particolarmente significativi accanto a tutti quegli elementi cristallizzati nel linguaggio che «nella tonalità, nella coloritura, nella strutturazione» [45] del designare la realtà implicano sempre un reticolo interpretativo semi-conscio; non è mai stata possibile un’epoca che non avesse non solo una sua verità dominante ma una pluralità (spesso sussistente come un ecosistema) di risposte possibili, differenziantesi a vicenda. Questo indipendentemente da una nostra libera scelta; è nella natura dell’uomo rapportare la propria cognizione delle cose al suo modo di manifestarle o, ancora più consequenzialmente, nella sola forma umanamente possibile della ragione è perennemente implicita la sua necessità d’essere comunicata e compresa da altri: «non solo la nostra lingua ci precede nella nostra visione del mondo; in modo ancor più cogente noi siamo determinati da un apparato di immagini e dalla loro selezione, “canalizzati” in ciò che in generale ci si può mostrare e che noi possiamo tradurre in esperienza» [46].
All’interno del panorama filosofico, Blumenberg considera risolutivamente tramontata l’utopia d’una matematicizzazione del linguaggio filosofico, auspicata da Leibniz e Cartesio; ma, fra le righe, si potrebbe leggere nel suo riferirsi ad una simile tradizione una possibile critica alla diffusione della logica proposizionale e al suo porsi come metodo applicabile ad ogni campo filosofico nella tradizione analitica del XX secolo. Pretese d’un linguaggio univoco, privo di riferimenti alla sfera della sensibilità e puramente concettuale, sono destinate ad «infrangersi di fronte all’esistenza di traslati assoluti» [47]. Proprio la presa di coscienza della progressività storica all’interno del percorso della costruzione di senso mette in evidenza la necessità d’una nuova disciplina che possa auscultare le direzioni-guida di tali combinazioni fra la sfera teoretica e quella espressiva: lontana da una relativizzazione retorica, la filosofia e la sua nuova metaforologia si proporranno il nuovo compito d’indagare tale «meta-cinetica» di concetto e linguaggio, pensiero ed espressione, intelletto e sensibilità, e di evidenziare le possibilità ermeneutiche delle civiltà di tutte le epoche:
«Che queste metafore siano denominate assolute significa soltanto che esse si mostrano resistenti alla richiesta di riduzione in termini logici, che non possono venir risolte in forma concettuale; non però che una metafora non possa essere sostituita da un’altra, oppure corretta da una più precisa. Anche metafore assolute hanno quindi storia. Esse hanno storia in un senso più radicale che i concetti, poiché il processo delle mutazioni storiche di una metafora porta in primo piano la metacinetica stessa degli orizzonti di senso della storia e delle prospettive entro cui i concetti subiscono le loro modificazioni. […] La metaforologia cerca di riattingere la sottostruttura del pensieri, lo strato primario, la soluzione nutritizia delle cristallizzazioni sistematiche, ma vuole anche far conoscere con quale “coraggio” lo spirito si proietta nelle sue immagini, e come in questo coraggio di “congetturare” progetta la sua storia» [48].
Bibliografia
Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Raffaello Cortina, Milano, 2009.
Hans Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna, 2009.
Paolo Caloni, Il mito, la filosofia ed il problema della realtà nel pensiero di Hans Blumenberg, in «Acme», vol. LXIII fascicolo III, Milano, 2010. Reperibile integralmente su www.ledonline.it/acme/
John Locke, Saggio sull’intelletto umano, Laterza, Bari, 2011.
Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1993.
NOTE:
[1] Hans Blumenberg, Paradigmi per una metaforologia, Raffaello Cortina, Milano, 2009, p. 7.
[2] «“Che cos’è la verità?”. Dal materiale offertoci dalla terminologia noi apprendiamo ben poco del contenuto di questa domanda nella sua pienezza. Se però seguiamo la storia della metafora che è più strettamente associata col problema della verità, quella della luce, allora la domanda si esplicita nella sua occulta pienezza, sempre elusa da ogni tentativo sistematico». Ivi, p. 8.
[3] Ibid.
[4] Johann Wolfgang Goethe, Maximen und Reflexionen. Ivi, p. 9.
[5] In riferimento ai filosofi precedenti le sue scoperte, Aristotele scrive che: «la realtà stessa tracciò loro la via e li costrinse a ricercare ulteriormente». Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano, 1993, p. 19.
[6] Blumenberg, op. cit., p. 10.
[7] Ivi, p. 9. Il passo integrale nella traduzione italiana è il seguente: «la religione è una rivelazione naturale, mediante la quale l’eterno Padre della Luce e fonte di ogni conoscenza comunica all’umanità quella parte di vero che Egli ha messo alla portata delle loro facoltà naturali. La rivelazione è una ragione naturale ampliata da un nuovo fondo di scoperte comunicate immediatamente da Dio; della verità delle quali la ragione dà garanzia mediante la testimonianza e le prove, che essa ci fornisce, che quelle scoperte vengono da Dio. Per cui, chi toglie via la ragione per far posto alla rivelazione, spegne la luce di entrambe, e si comporta in modo molto simile a chi convincesse un uomo a strapparsi gli occhi onde meglio ricevere, mediante un telescopio, la luce remota di una stella invisibile». John Locke, Saggio sull’intelletto umano, vol. II, Laterza, Bari, 2011, pp. 794-795.
[8] Blumenberg, op. cit., pp. 14-15.
[9] Ivi, p. 24.
[10] Francesco Bacone, Advancement of Learning. Ivi, p. 25.
[11] Ibid.
[12] Montesquieu, Discours sur les motifs qui doivent nous encourager aux sciences. Ivi, p. 31.
[13] Jean Baptiste D’Alembert, Discours préliminaire de l’Encyclopédie. Ivi, p. 30. La citazione è preceduta immediatamente dal seguente commento di Blumenberg: «Questa è una formula molto indicativa! Da dove deriva questo “rendersi le cose troppo facili”? È pur sempre un’eredità medievale quella che qui perdura, la parvenza che il Bello e il Vero si offrano tali quali all’uomo, mentre si richiede piuttosto un nuovo atteggiamento attivo dell’uomo».
[14] Ivi, p. 49.
[15] Ivi, p. 50.
[16] Ibid.
[17] È qui da evitare una confusione teoretica fra metaforica della nuda verità e prospettiva di logicizzazione del linguaggio filosofico, di cui parleremo nel capitolo 3.
[18] Ivi, p. 54.
[19] Ivi, p. 17.
[20] Ibid.
[21] Ibid.
[22] Ivi, p. 73.
[23] «Enunciati che si riferiscono all’intuizione sensibile presuppongono appunto che nel comprendere un’intenzione ce ne possiamo fare una rappresentazione entro lo spazio di gioco di una tipica: le relazioni di viaggio che ci porteranno o ci telecomunicheranno i primi allunatori potrebbero metterci nell’imbarazzo di doverci prima occupare a fondo di geografia americana o russa, per essere a livello della tipica selettiva delle descrizioni corrispondente all’origine (probabile) dei testimoni. Quando ci troviamo di fronte una costruzione di enunciati speculativi, l’interpretazione ci “riuscirà” solo se saremo arrivati a entrare completamente nell’orizzonte rappresentativo dell’autore, a rendere scoperta la sua “trasposizione”». Ibid.
[24] Blumenberg si rifà, in particolare, alla conclusione del romanzo Giacchetta bianca o il mondo visto da una nave da guerra di Herman Melville. Ad esempio: «Per Melville, dando un senso metaforico alle conclusioni del suo romanzo White-Jacket: or the World in a Man of War, il mondo è una fregata che ha lasciato per sempre il suo porto e naviga con ordini sigillati verso una meta sconosciuta a tutti coloro che sono a bordo. L’antica metafora del destino, “la nave sul mare”, si combina qui con la coscienza nuova dell’entropia del processo mondiale, la quale fa propria la figura della “metafora del viaggio”, che ha nell’Odissea di Omero la sua fonte inesauribile, ora però nella forma opposta dell’impossibilità del ritorno, dell’irreversibilità, della non-ciclicità». Ivi, p. 20.
[25] Ivi, p. 75.
[26] Ibid.
[27] Ivi, p. 77.
[28] Ivi, pp. 78-79.
[29] «L’uomo sostituisce ciò che egli “può”, o “potrebbe”, in luogo del prodotto, ritenuto inconoscibile, della divina “potentia absoluta”. Il supremo concentrato di ciò che l’uomo “può” è per Cartesio la macchina, come struttura finalistica costituita in piena intenzionalità, che diviene ora addirittura un concetto di contrasto rispetto alla “natura”, la cui esplicazione teleologica è preclusa all’età moderna dal divieto più rigoroso». Ivi, p. 80.
[30] «Cartesio fa seguire […] l’esempio della decifrazione di una lettera cifrata: chi ottenga con una determinata chiave un senso leggibile, può certamente solo congetturare (“sola coniectura cognoscat”) che questo sia stato anche il codice dello scrivente, ma quanto più nel procedere si certifica penetrante e comprensiva la tenuta di senso del testo messo in chiaro, tanto più cresce la verosimiglianza dell’identità». Ivi, p. 82.
[31] Cfr. Blumenberg, La leggibilità del mondo, Il Mulino, Bologna, 2009.
[32] Ivi, pp. 83-84.
[33] Ivi, p. 84.
[34] Ivi, p. 117.
[35] Ivi, pp. 115-116.
[36] Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale. Ivi, p. 116.
[37] Ivi, p. 125.
[38] Ibid. In particolare relazione alle conclusione di Galilei sulla nobilitazione della Terra nel suo ascendere di grado, si possono leggere tali spunti critici blumenberghiani nelle pagine successive: «È straordinariamente indicativo per l’”interesse” immanente della cosmologia di Galilei che egli si sforzi di conservare la dignità aristotelica del mondo stellare, per farne partecipe la terra, invece di “tellurizzare” gli astri, come pure di fatto accade sul piano metodologico». Ivi, pp. 128-129.
[39] Ivi, p. 128.
[40] Ivi, p. 1.
[41] Ivi, p. 2.
[42] «L’esegesi allegorica dei miti, quale hanno praticato prima la sofistica e poi soprattutto la Stoa, ha inteso il mito come “forma primitiva” del logos, come enunciazione insuscettibile, per principio, di mutamento, e con questo schema coincide una spiegazione del mito ancor oggi non superata, la quale l’intende come fenomeno “pre-logico”, subordinato a una forma primitiva dello “sviluppo” dello spirito umano, che fu poi sopravanzata e sostituita da forme più precise di intelligenza del mondo. Ma ciò che nelle nostre riflessioni fu rilevato come “metafora assoluta” dà modo di sostenere, per la sua irriducibilità a risolversi sul piano della logicizzazione, che un simile cartesianesimo in anticipo comporta una norma incompatibile con lo status dei dati storici». Ivi, pp. 89-90.
[43] Johann Joachim Winckelmann, Versuch einer Allegorie. Ivi, p. 55.
[44] Ivi, pp. 3-4.
[45] Ivi, p. 8.
[46] Ivi, pp. 73-74.
[47] Ivi, p. 4.
[48] Ivi, p. 6.
* Giorgio Astone, laureato magistrale in “Filosofia e Studi Teorico-Critici” dell’università La Sapienza con una tesi su Günther Anders (“L’inumano latente nella filosofia andersiana”). Attualmente sta scrivendo un progetto di ricerca che tratta prevalentemente di post-modernità, più specificatamente le accezioni filosofico-culturali nate dagli effetti dell’Accelerazione e dell’incremento di Velocità nelle società contemporanee. E’ membro dell’Associazione Athene Noctua e di un progetto chiamato “Supernova”, legato alla creazione di un sito multidisciplinare sempre a carattere universitario.
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