Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Sulla Loi Naturelle nel secondo Discours: riferimenti e critiche del primo Rousseau (1 di 4)

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> Giorgio Astone*

1. Prefazione

Contando poco sull’onore che ho ricevuto, avevo, dopo l’invio, rifuso e accresciuto questo Discorso fino a farne in qualche modo un’altra opera: oggi ho sentito l’obbligo di ristabilirne il testo che fu premiato. Ci ho fatto solo qualche nota e ci ho lasciato due aggiunte facilmente riconoscibili che forse l’Accademia non avrebbe approvato1.

È così che Rousseau, nella prefazione al Discours che gli valse il premio dell’Académie des sciences, arts et belles-lettres di Digione, introduce il suo scritto; un’annotazione di primo acchito meramente tecnica ed apparentemente marginale, che assume tuttavia una valenza peculiare per chi si accinge a far seguire alla lettura dell’opera del 1750 quella seconda fatica letteraria, del 1754, che non gli valse nessuna premiazione se non quell’ingresso effettivo nel mondo dei filosofi per quanto concerne l’argomentazione complessa ed articolata e lo spettro vasto di fenomeni affrontati (storici, intersoggettivi, morali).

Si può inferire, difatti, mettendo a confronto il primo ed il secondo discorso rousseauiano, un’esigenza d’approfondimento e d’analisi dietro il cambiamento stilistico: nonostante le comuni precauzioni, dovute all’occasione pubblica delle opere, rintracciamo un’evoluzione che passa da un’attenzione retorica e una composizione ordinata nelle lunghezze e nella concatenazione di perifrasi, prosopopee e simmetrie argomentative, ad un lavoro di una mole superiore del doppio rispetto a quello antecedente e non privo di riferimenti puntuali e diretti a diversi filosofi (Hobbes in primis) ed alle loro teorie. Certamente, già nel primo dei quesiti dell’Académie («si le rétablissement des sciences et des arts a contribué à épurer les mœurs») si celavano una quantità di questioni filosoficamente rilevanti, degne di risposte spesso provocatoriamente esagerate e coscientemente pensate in contrasto con l’opinione diffusa dei philosophes illuministi. Senonché, inizia a sorgere retrospettivamente nella mente dell’autore, come possiamo evincere dalla prima aggiunta della quale il filosofo ci informa nel passo sopra citato, il desiderio di collocare una serie di argomenti contro la dottrina del progresso dell’uomo nella storia, ed un troppo superficiale ottimismo metafisico-morale in un’opera più ampia e completa, in un libro scribendum; il medesimo proposito accompagnerà Rousseau in tutta la sua produzione letteraria e si ritroverà, tale e quale, fra le pagine conclusive del Discours sur l’origine et les fondaments de l’inégalité parmi les hommes2.

Se si volessero, invece, legare insieme le due prime opere di Rousseau, indubbiamente si avrebbero dinnanzi agli occhi delle corrispondenze evidenti per la maggior parte degli argomenti trattati: soggiacente, nella visione delle diverse arti come ornamenti del giogo del potere3, della sottomissione dei più forti nei confronti dei deboli e della decadenza delle virtù, è la stessa teoria riguardante la nascita degli stati dall’inganno dei ricchi nei confronti dei poveri e la tragica perdita della libertà dell’opera successiva. Medesimo è, inoltre, quel pessimismo storico tranchant e schietto: se nel primo Discorso l’intero sviluppo delle scienze e delle arti, col suo susseguirsi di scoperte ed innovazioni, era connesso alla decadenza e al disfacimento, sic et simpliciter, dei vari regni storici e dell’assetto civico-morale delle popolazioni con la stessa regolarità causale che sussiste fra l’astro lunare e le maree oceaniche4, è nel secondo Discorso che troviamo una delle più celebri e parossistiche espressioni del pensatore francese riguardanti la dis-evoluzione tragica dell’animale umano: «lo stato di riflessione è uno stato contro natura e […] l’uomo che medita è un animale degenerato5».

Come temperare tale formulazione paradossale, proprio perché sulle labbra di uno dei pensatori più lucidi del suo secolo? Cercheremo di ripercorrere passo per passo (intrecciando, ove sarà necessario, frammenti di entrambe le opere) la visione filogenetica del filosofo francese; in secondo luogo verranno scandagliati i riferimenti sotterranei del testo alla dottrina giusnaturalistica per evidenziare meglio la portata critica del primo Rousseau rispetto allo stesso contrattualismo e alla strumentalizzazione fatta dai suoi predecessori del concetto di stato di natura. In conclusione, ci soffermeremo sulla problematicità attribuita all’intersoggettività da parte dell’autore, soprattutto riguardo al meccanismo di attribuzione dell’onore e del rispetto, fondamentale per spiegare le radici del pessimismo rousseauiano nei confronti della società.

2. Dallo stato naturale allo Stato: un percorso di dis-evoluzione

L’abbiamo osservata nella stessa condizione in cui si trova Glauco marino agli occhi di chi lo vede: non è più facile scorgerne la natura originaria, perché le parti antiche del suo corpo sono in parte spezzate, in parte corrose e del tutto sfigurate dalle onde, mentre altre vi sono concresciute – conchiglie, alghe, pietre – sicché assomiglia piuttosto a una sorta di bestia che alla sua natura di prima. E anche l’anima, noi la osserviamo ridotta in questa condizione da una miriade di mali6.

Simile alla salma di Glauco che il tempo, il mare e le tempeste avevano sfigurata talmente che assomigliava piuttosto a una bestia feroce che a un Dio, l’anima umana, che in senno alla società è stata alterata da mille cause che si riproducono continuamente, dall’acquisto di una quantità di conoscenze e di errori, dai mutamenti subiti dalla costituzione del suo corpo e dall’urto continuo delle passioni, ha, per così dire, mutato il suo aspetto fino al punto di essere pressoché irriconoscibile7.

Il riferimento al decimo libro dell’opera maxima platonica ci permette d’introdurre quella che, senza ombra di dubbio, insieme agli intenti critici e alle esagerazioni del secondo Discorso, rimane la meta principale dell’indagine di Rousseau: la natura dell’essenza antropologica priva dei fronzoli della storia, i contorni dell’«anima umana». La ricostruzione dell’uomo originario nell’esperimento rousseauiano, quello che spesso è stato tramandato come il “mito del buon selvaggio”, trova le sue radici soprattutto nella prima sezione dell’opera; accingendosi ad un excursus “storico”, ove è necessario ricorrere (così com’è d’obbligo ancora oggi, al di là dei giganteschi sviluppi dell’etno-antropologia) a numerose ipotesi e libere induzioni, l’autore cerca di prendere le dovute precauzioni nella descrizione di uno «stato di natura» dell’umanità. Nonostante non sia un’«impresa da poco […] conoscere bene uno stato che non esiste più, che forse non è affatto esistito e probabilmente non esisterà mai, e sul quale tuttavia è necessario avere delle idee giuste per giudicare bene intorno al nostro presente8», il percorso del filosofo francese preannuncia, al di là delle considerazioni filosofiche che man mano l’autore aggiungerà riguardo ai fondamenti morali e metafisici delle precedenti ricostruzioni mitico-filosofiche, una maggiore verosimiglianza scientifica; a cominciare, ad esempio, da quella «insolita dilatazione teorica e storica del concetto di stato di natura9» che mette in scena un resoconto fatto di plurimi passaggi e stadi evolutivi.

Dovendo individuare tre aspetti che caratterizzano contemporaneamente l’ipotesi rousseauiana e la critica nei confronti delle precedenti formulazioni dello stato di natura si può proseguire, innanzitutto, constatando come Rousseau, pur procedendo in maniera molto cauta, mostri come i testi biblici ed il cristianesimo presentino un’epoca inverosimile ed a-storica, fuori da ogni problematizzazione di sviluppo filogenetico: l’uomo è già dato e, sia prima che dopo il diluvio, il fatto che non si possa trovare una risposta concreta nella religione cristiana riguardo l’originaria forma animae è data dall’assenza di un vero e proprio stato di natura, un «paradosso assai difficile da difendere, e affatto impossibile da provare10». In secondo luogo, uno dei punti di primaria importanza per inquadrare la teoria dei primi uomini e del loro rapporto con la Natura rousseauiana è indubbiamente la falsa attribuzione da parte dei filosofi, soprattutto per quanto concerne quelli di matrice hobbesiana, di qualità, difetti e deformazioni appartenenti al lungo lavorio dei secoli storici e dell’influenza sociale agli esemplari selvaggi: «tutti, parlando continuamente di bisogno, avidità, oppressione, desiderio e orgoglio, hanno trasportato allo stato di natura delle idee che avevano attinte nella società: parlavano dell’uomo selvaggio, e dipingevano l’uomo civile11».

Ultima caratteristica (ma non per importanza) è la ferma negazione della categoria della socievolezza fra quelle innate alla specie umana: sfidando una tradizione che risale all’antropologia classica di Platone e Aristotele, Rousseau immagina uno stato naturale precedente quello dei gruppi dei cacciatori e dei coltivatori (stadio pur analizzato nell’opera) e fa risalire proprio all’unione in piccole comunità, come vedremo, i primi effettivi mali morali dell’umanità: «la maggior parte dei nostri mali è opera nostra e […] li avremmo evitati quasi tutti conservando la maniera di vivere semplice, uniforme e solitaria che ci era stata prescritta dalla natura12». L’homme naturel non è certo crudele, né tanto meno bestiale13; questo perché è connotato sin dai primordi da «due principi anteriori alla ragione14», che gli permettono di sopravvivere in armonia con gli altri senza aver bisogno d’una socievolezza innata: l’istinto di autoconservazione (o cura di sé) e la pietas naturale verso i suoi simili e gli esseri viventi in generale15. Sono questi due istinti, se così è lecito definirli, che hanno il predominio nella natura umana originaria; ed è così che il filosofo descrive il loro agire interdipendente:

È dall’unione e dalla combinazione che il nostro spirito sa fare di questi due principi, senza che sia necessario di farvi entrare quello della socievolezza, che mi sembrano derivare tutte le regole del diritto naturale, regole che in seguito la ragione è costretta a ristabilire su altre basi, quando in virtù del suo sviluppo successivo è arrivata al punto di soffocare la natura16.

Abbiamo già scovato, perciò, le due radici più profonde non tanto di un effettivo (in quanto storicamente non documentabile) stato di natura ma, nella maniera più credibile e spontanea possibile, di una “legge” universale: e tali norme, derivate da autoconservazione e pietà, sono comuni sia agli uomini che alle bestie, tant’è che anch’esse partecipano a tale livello alla legislazione naturale e non sono, per questo, prive di diritti dinnanzi a noi17.

In quest’ottica, la Natura è dipinta in tinte chiare e benevole a tratti, tutt’al più neutrale e mai negativamente: ciò si denota da una totale agibilità nel suo ventre per i primi uomini, che non avevano nessun problema a procacciarsi il cibo e vivere appagando i propri desideri, avendo in sé l’abilità di imitazione che gli permetteva d’appropriarsi delle tecniche migliori delle altre specie18. Identica era la posizione di Rousseau nel primo Discorso, ove, per proteggere l’uomo, l’osticità delle scoperte e la difficoltà di comprendere i meccanismi fisici del mondo erano poste dalla stessa Natura affinché i suoi figli potessero bearsi, accontentandosi, d’una «felice ignoranza19». Gli uomini naturali potevano tranquillamente appagare i propri appetiti, di qualsiasi tipo essi fossero: molte pagine, a titolo d’esempio, vengono dedicate all’aspetto sessuale e alla concupiscenza non eccessiva e controllata che i rapporti occasionali, privi di complicazioni morali, concedevano ai maschi primigeni20.

L’opera è divisa in due grandi macro-sezioni, così come la sua predecessora; è nella prima di queste che il filosofo dedica la maggior parte delle pagine all’aspetto mansueto e sereno del buon selvaggio e alle sue peculiari capacità fisiche, che permettevano a lui e ai suoi simili una vita relativamente appagante; il corpo robusto ed i sensi estremamente sviluppati concordano con quella facilità ad accedere a quelli che oggi diremmo beni comuni concessi dalla madre terra. Diverse sono le immagini che ripercorrono tale possanza delle prestazioni corporali degli antichi esemplari della specie: dal paragone con gli uomini contemporanei e la loro fragilità il pensatore si diverte a delineare un corrispettivo con le differenze che intercorrono fra animali selvatici ed animali domestici21. Curiosi sono i riferimenti, inoltre, a quella tipologia di “selvaggi” provenienti dalle zone tropicali delle Americhe e delle Indie, che tanto attraevano la curiosità degli intellettuali europei del XVII e del XVIII secolo; il nostro autore si riferisce, ad esempio, alla vista da falco degli Ottentotti o all’olfatto sopraffino dei nativi americani22, sottolineando, in aggiunta, come a queste capacità invidiabili s’accompagni negli stessi individui un’inconscia attenzione sul presente, un carpe diem che, lato sensu, focalizzerebbe la loro attenzione sulle esigenze più stringenti senza quella cura/affanno nei confronti del futuro e quel rimorso/rimuginare volto al passato che caratterizza il comune uomo occidentale: un ironico inciso riportato dallo scrittore, che lascia vedere come tale ingenuità possa ripercuotersi sui soggetti nell’epoca moderna, è l’aneddoto del caraibo che «la mattina vende il suo letto di cotone e alla sera viene a piangere per ricomperarlo, non avendo previsto che ne avrebbe avuto bisogno la prossima notte23».

Il selvaggio di Rousseau trova la sua collocazione in un tempo antecedente alla comunicazione linguistica e semiotica (i primi insediamenti verranno analizzati nella seconda parte del Discours e, anticipiamo, verranno motivati da esigenze di natura tecnica per la protezione dalle intemperie naturali); così è, di conseguenza, sans mémoire: non potendo divulgare le sue scoperte ai simili, l’arco di una vita singola esplica tutte le possibilità di innovazione. Tali risultati, lucidi e precisi, rimandano ad un attento studio di Rousseau dell’opera dell’abate di Condillac, che solamente otto anni prima aveva pubblicato il suo Essai sur l’origine des connaissances humaines e a cui Rousseau fa esplicito riferimento24. Ma l’opera del filosofo va ben oltre le ipotesi di carattere naturalistico e linguistico: è nel campo impervio e faticoso del «lato metafisico e morale25» che il pensatore di Ginevra vuole compiere i passi più intraprendenti ed è lì, da un punto di vista strettamente logico-argomentativo, che iniziano a sorgere diversi problemi per il lettore moderno.

Dopo aver passato in rassegna le caratteristiche comportamentali, alimentari e sessuali dell’uomo allo stato di natura, l’autore non fugge dal definirlo, nonostante il suo essere profondamente radicato nella Lebenswelt, sostanzialmente “libero” fin dai primordi. Era già presupposta una forma di “libertà” tecnica, intesa come maggiore capacità d’azione, nella possibilità della creatura presa in esame di “appropriarsi” degli istinti delle altre specie: ed è in questo senso, inizialmente, che il filosofo prosegue nel fare diversi esempi fra la cogenza a cui sono sottoposte tutte le altre specie viventi e l’uomo. Si può pensare, sostiene Rousseau, ad un felino ed un volatile che si ritrovino, per la volontà sadica di un esperimento o una casualità spontanea, corrispettivamente di fronte ad un mucchio di cereali e delle porzioni di carne: entrambi moriranno d’inedia, avendo la natura predisposto per loro un unico codice d’interpretazione fenomenica ed un solo modo per soddisfare i loro appetiti26. Questa non può essere la condizione umana, al quale è concessa una libertà di scelta indubbiamente maggiore; ma col libero arbitrio è inestricabilmente connessa la possibilità di sbagliare o di agire contro i propri interessi:

La natura sola compie tutte le operazioni della bestia, mentre l’uomo partecipa alle sue in qualità di agente libero. La prima sceglie o scarta per istinto e l’altro mediante un atto di libertà, il che fa sì che la bestia non possa deviare dalla regola che le è prescritta anche quando le sarebbe di vantaggio il farlo, mentre l’uomo ne devia spesso a suo danno27.

Sul libero arbitrio, dunque, è possibile avanzare immediatamente ben al di là della superiore capacità di adattamento, tirando fuori da tale argomento molteplici conseguenze e problematicità. Essenziale è comprendere che già nell’uomo primitivo, a detta di Rousseau, sorgerebbe una “spiritualità” strettamente connessa con la libertà costitutiva del suo essere e che tale «spiritualità della sua anima si manifesta soprattutto nella coscienza di questa libertà», nella sua «facoltà di volere28».

Ma come è possibile legare insieme un’innata facoltà di volere ed una libertà di scelta alla visione storicamente pessimista e dis-evolutiva del percorso umano nel mondo dipinta da Rousseau? Il selvaggio, anche quello isolato e non ancora dotato della capacità di tramandare ciò che ha appreso, è dotato della facoltà della «perfettibilità29»: può apprendere dai propri sbagli, perfezionare i suoi strumenti, fare sempre delle scelte migliori di quelle precedenti; eppure l’uomo è contemporaneamente l’unico essere al mondo in grado di regredire, combinando insieme l’inevitabile sapere che ha acquisito ed il libero arbitrio con l’ago della bilancia pendente verso la direzione “sbagliata”. Così scrive Rousseau a questo proposito: «non è forse perché in tal modo egli ritorna al suo stato primitivo e perché, mentre la bestia, che nulla ha acquistato e nulla ha da perdere, resta sempre con il suo istinto, l’uomo invece, perdendo per opera delle vecchiaia o di altri eventi accidentali tutto ciò che la sua perfettibilità gli aveva fatto acquistare, ricade anche più in basso della bestia?30».

Ma non è forse vero che la coscienza del proprio volere, da un lato, e l’intelligenza che lo ha reso in grado di avvertire la decadenza della sua condizione31 rispetto ai primordi, dall’altro, non sembrano connettersi fra di loro? La perfettibilità della specie umana è, sì, ammessa nei casi strumentali, empirici e tecnici, ma non viene in alcun modo prospettata da un punto di vista morale e sociale, generando una prima contraddizione. Come scrive giustamente Reale a riguardo:

Un uso positivo della perfettibilità è rigorosamente impossibile […] anzitutto perché è in linea di principio contraddittorio con lo stato di natura (o c’è l’uno o c’è l’altro, e posto lo stato di natura, la perfettibilità può costituirne solo il rovesciamento negativo); quindi perché di fatto non ci viene mai mostrato quale avrebbe potuto essere l’incidenza positiva della perfettibilità32.

In questi termini, la contrapposizione fra la dimensione potenziale e l’attualità continuamente presente della storia è difficilmente risolvibile; è doveroso, però, accennare al fatto che la perfettibilità potrebbe essere teorizzata esclusivamente come una sorta di strumento alla portata degli uomini, che hanno a loro volta la possibilità d’impiegarlo bene o male. Oltre a descrivere, come vedremo, una discesa storica da una condizione armoniosa ad una dilaniata da ingiustizie, contese e superbia, Rousseau è uno dei filosofi disposti a riconoscere anche alle passioni una funzione di sviluppo catalizzatrice nel flusso storico: contro una pura nozione di ragione, dalla quale far derivare tutti gli stadi futuri della scienza e delle arti umane, sono il bisogno ed il desiderio i veri responsabili delle prime applicazioni della facoltà di perfettibilità ed adattamento dell’uomo33. La perfettibilità è, dunque, ricondotta ad una valore meramente strumentale e neutro.

Bibliografia

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Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Scritti politici, Roma-Bari, Laterza, 1971.

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Mario Reale, Rousseau tra i giureconsulti romani e i giusnaturalisti moderni. A proposito di un passo del «secondo discorso», in La Cultura, Anno XV n° 2-3, Roma, Il Mulino, 1977.

Lorenzo Coccoli, Rousseau critico della proprietà moderna: il Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Bollettino telematico di filosofia politica, 2010, 26 Agosto 2015, http://archiviomarini.sp.unipi.it/

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Alessandro Bellan, Lucio Cortella, Il riconoscimento come reificazione. Sartre e la critica dell’intersoggettività, in A.A.V.V., Teoria della reificazione, storia e attualità di un fenomeno sociale, Milano, Mimesis, 2013.

* Giorgio Astone,laureato magistrale in “Filosofia e Studi Teorico-Critici” dell’università La Sapienza con una tesi su Günther Anders (“L’inumano latente nella filosofia andersiana”). Attualmente sta scrivendo un progetto di ricerca che tratta prevalentemente di post-modernità, più specificatamente le accezioni filosofico-culturali nate dagli effetti dell’Accelerazione e Velocità nelle società contemporanee. È membro dell’Associazione Athene Noctua e di un progetto chiamato Supernova, legato alla creazione di un sito multidisciplinare a carattere universitario.

1Jean-Jacques Rousseau, Discorso sulle scienze e sulle arti, in Scritti politici, Roma-Bari, Laterza, 1971, p. 3.

2Cfr. Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, Milano, Feltrinelli, 2014, p. 102 e seguenti. C’è chi, come Giulio Preti, ha voluto vedere nelle anafore dei paragrafi di conclusione del discorso un annuncio già ordinato delle tematiche del Du contrat social: ou principes du droit politique. Per altri commentatori è possibile, senza indugio, considerare il Discours una pars destruens atta a preparare la via per la pas costruens del Contratto sociale: cfr. Lorenzo Coccoli, Rousseau critico della proprietà moderna: il Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Bollettino telematico di filosofia politica, 2010, p. 17. Il testo è interamente disponibile al link: http://archiviomarini.sp.unipi.it/

3Id., Discorso sulle scienze e sulle arti, p. 6.

4«Il quotidiano alzarsi ed abbassarsi delle acque dell’oceano non è soggetto al corso dell’astro che la notte ci illumina, più regolarmente di quanto i costumi e la probità dipendano per la loro sorte dal progresso delle scienze e delle arti. Man mano che la loro luce si levava sul nostro orizzonte si è vista la virtù dileguarsi e lo stesso fenomeno è stato osservato in tutti i tempi e in tutti i luoghi». Ivi, p.8.

5Id., Origine della disuguaglianza, p. 44.

6Platone, La Repubblica. Libro X, Napoli, Bibliopolis, 2007, pp. 69-70.

7Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, pp. 27-28.

8Ivi, p. 29.

9Mario Reale, Rousseau tra i giureconsulti romani e i giusnaturalisti moderni. A proposito di un passo del «secondo discorso», in La Cultura, Anno XV n° 2-3, Roma, Il Mulino, 1977, p. 226.

10Jean-Jacques Rousseau, op. cit., p. 35.

11Ivi, p. 36.

12Ivi, p. 44.

13Nonostante l’enorme apertura alla comunanza uomo-animale, soprattutto nell’ambito della sensibilità, del filosofo francese, è possibile riflettere sull’assenza di una continuità evolutiva; la dinamica complessa di co-appartenenza ed indipendenza dell’uomo dal suo sostrato animale è ben espressa, come suggerisce Reale commentando l’opera rousseauiana, dal seguente passo delle Lezioni di Filosofia della Storia di Hegel; «l’uomo non può aver preso le mosse da uno stato di ottusità animale. Ciò è giusto: esso non poteva evolversi partendo da un’ottusità animale: da un’ottusità umana sì. Umanità animalesca è tutt’altra cosa che animalità. L’inizio è dato dallo Spirito, ma questo è anzitutto in sé, spirito naturale, su cui però è impresso pienamente il carattere dell’umanità». In Reale, op. cit., p. 276.

14Jean-Jacques Rousseau, op. cit., p. 31.

15«Una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire qualunque essere sensibile, e soprattutto i nostri simili». Ibid.

16Ibid.

17Ivi, p. 35. Sul comune appartenere degli esservi viventi ad una legge naturale e sui rapporti fra il filosofo francese ed il giusnaturalismo torneremo più diffusamente nel capitolo 3 del nostro saggio.

18Ivi, p. 40.

19Id., Discorso sulle scienze e sulle arti, p. 14.

20Su questo aspetto particolare del discorso rousseauiano si vedano in particolare pp. 65-67. A tal riguardo, scrive Reale: «lo stato di natura russoiano, una descrizione che meriterebbe di esser letta, più che con gli occhi di Lévi-Strauss, con gli occhi di Freud, come intemporale dispiegamento dell’inconscio non represso»; Reale, op. cit., p. 276. Si tengano presente, soprattutto, Das Unbehagen in der Kultur di Freud e Eros und Kultur di Marcuse. Per quanto concerne la tara maschilista e la misoginia di Rousseau, si veda Coccoli, op. cit., p. 2.

21Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 45.

22Ivi, p. 46.

23Ivi, p. 50.

24Ivi, p. 52.

25Ivi, p. 47.

26Ibid. Esempio di dubbia veridicità etologica ma che chiarisce bene il fine argomentativo di Rousseau.

27Ibid.

28Ivi, pp. 47-48.

29Ivi, p. 48.

30Ibid.

31È forse proprio questa nota che provoca una dissonanza nell’argomentazione di Rousseau: la sua prospettiva pessimistica è forse, indebitamente, estesa a tutti gli esemplari della specie umana.

32Reale, op. cit., p. 272.

33Sulla valorizzazione delle passioni ed il loro ruolo nella storia cfr. Ivi, p. 49 e seguenti. Stando, però, unicamente a questi due primi scritti, la posizione del filosofo riguardo alle passioni diverge abbastanza a seconda dei casi. Pensiamo, ad esempio, alla conclusione del primo discorso rousseauiano: «O virtù! Scienza sublime delle anime semplici, occorre proprio tanta fatica e tanto apparato per conoscerti? Non sono forse i tuoi principi scolpiti in tutti i cuori e non basta per imparare le tue leggi rientrare in se stessi e ascoltare la voce della propria coscienza nel silenzio delle passioni? Ecco la vera filosofia: sappiamocene contentare»; Id., Discorso sulle scienze e sulle arti, p. 27. Qui non solo le passioni debbono venir messe a tacere per scorgere ed applicare le vere virtù di cui l’animo umano è capace ma la stessa vera filosofia è connessa ad un classico “rientrare in se stessi” ed alla sua funzione catartica, che ricorda il «noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» agostiniano.

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