Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

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Parole di fuoco. Considerazioni sciolte su Gli incendiati di Antonio Moresco

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> di Luca Ormelli

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«Certo non è una filosofia, io aborro la filosofia, è tanto tempo che non dice più niente di interessante» [Jacques Lacan]

Che la filosofia non abbia oggi più alcun senso e dunque che non se ne possa né parlare né, tantomeno, scrivere è drammaticamente evidente a chiunque, della filosofia, abbia conservato una visione netta, scevra dai compromessi, “hegeliana”, se a questo qualificativo attribuiamo valore di “olistico” e “assolutizzante”: «Severino e la non esistenza del dolore: mi immagino suo antagonista in un dibattito televisivo, mentre gli sferro un violentissimo calcio nei coglioni. “Ora, Maestro, è forse nella condizione migliore per illustrarci – gli chiederei un istante dopo, con argomentazione volgare – quella sua teoria sul dolore eternamente oltrepassato dalla gioia, essenza nascosta dei mortali“» [Antonio Moresco, Lettere a nessuno]. I letterati, gli artisti, i facitori di senso, loro sì che meritano ascolto, la loro voce seduce all’attenzione ben più del chiacchiericcio stantio e ammorbante così caratteristico delle nostre “scuole filosofiche” che al più si prestano a rimasticare ciò che da tempo e da intestini ben più nobili era già stato sputato. Sono dunque i marginali, gli irregolari, i randagi coloro cui si deve guardare, la loro parola scava e ferisce, senza gratuità, pesa sullo scheletro insostenibilmente leggero della contemporaneità; Antonio Moresco appartiene alla medesima famiglia senza tempo di Sergio Quinzio: non ne possiede l’afflato mistico ed ecumenico, tutt’altro, ma il suo, al pari di quello del savonese, è un tentativo di colmare l’abisso: «per noi esistono solo magre possibilità di sopravvivenza ai confini tra caos e nulla» [Sergio Quinzio, La speranza nell’Apocalisse]. Dal profondo del Salmo 129 – che è la condizione in cui noi, tutti, si vive – non si leva alcuna invocazione a Dio, Dio non ascolta le sue creature, non ascolta nessuna richiesta di aiuto; Dio, nel creato di Moresco, semplicemente non c’è o, se c’è, prende il nome di caos, entropia. Nessun evemerismo in tutto ciò. Moresco è uno gnostico fatto e (s)finito, reduce dagli sterminati silenzi del seminario: siamo qui – se siamo qui – perché la vita non è che attesa della morte, ne è lo specchio “enigmatico”, il creato è preda del più tremendo non-senso che non ci abbandona neppure dopo la morte, quella morte che non è più evento-limite sotto la cui luce conferire senso orientandoci ad esso ma che, anzi, non fa che spalancare la più sconvolgente delle condanne, quella alla morte eterna, infinitamente ribadita e senza scampo: «forse i morti possono soltanto continuare a morire». L’universo di Moresco è, a dispetto del titolo, prossimo alla morte termica – l’ecpirosi rievocata da Morselli in Dissipatio H. G., che è il negativo del fuoco primigenio di Eraclito, qui non ha luogo e non perché Moresco non si attenda l’Apocalisse per mano dell’uomo ma perché l’Apocalisse, le sterminate legioni di morti sono già qui («”In che mondo siamo?” “Nel mondo dei morti.” “Ma non ci sono più i vivi?” “Sì che ci sono!” “E allora perché noi non li vediamo?” “Perché siamo dall’altra parte, perché siamo morti.” “Però il mondo è lo stesso!” “È lo stesso, però è dall’altra parte.”» pp. 144-145) e nulla, nemmeno la morte, può più riscattarci dal caos – questo nume bifronte, esso stesso lacerato tra caso e necessità – nessun dio, neppure la scienza, figurarsi la ragione – può salvare chi non cova più alcuna speranza. Scrive Moresco con accenti “rorschachiani”: «allora ero completamente infelice. Nella mia vita avevo sbagliato tutto, fallito tutto. Ero solo. Lo avevo capito di colpo, in una notte di forte pioggia in cui non riuscivo a dormire, e ne ero rimasto annientato. Non c’era libertà intorno a me, non c’era amore. Solo aridità, asservimento, vuoto, vita che sembrava morte. Il paese dove vivevo era fottuto, tutto il mondo era fottuto. C’erano solo delle strutture che lottavano le une contro le altre per succhiare ciò che restava del midollo del mondo. Tutta la vita era sotto la cappa della morte. Uomini e donne perpetuavano la menzogna dell’amore. Andavano in giro inalberando i vessilli dei loro volti morti. Sbadigliavano esageratamente, per strada, guardare dentro le loro bocche spalancate era come affacciarsi a una latrina piena di merda morta. Mi ero separato da tutto e da tutti. Avevo troncato ogni legame. Mi ero gettato il mondo alle spalle. Se ero solo, meglio essere solo da solo. Ero uscito di strada, ero deragliato. Inutile raccontare dov’ero finito, le cose che ho fatto. Non sono tenuto a dirlo. Il tempo cambiava, la luce cambiava. Ma io non vedevo niente. Mi muovevo come un sonnambulo in una foresta di corpi morti» [p. 7].

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L’amore, quello pazzo, in-sensato, senza nome (Sophia?), alieno tanto dai web-poetastri quanto dalle emmabovary fuori-tempo-massimo ci farà a pezzi, donandoci – lui solo – schegge luminescenti di realtà incendiata: «non si può impazzire in un’epoca forsennata, ma si può esser bruciati vivi da un fuoco di cui si è l’eguale» [René Char, Ricerca della base e della vetta]. C’è Nietzsche in Moresco ma è un Nietzsche senza più riscatto, disarmato persino dall’amor fati, disinnescato del pessimismo di chi si sa appartenente alle aristocrazie dello spirito. C’è Hegel (ancora lui, che sia maledetto), quello ingerito da Marx per chi, come Moresco negli anni ’70, si è ubriacato d’ideologia in attesa messianica della rivoluzione e oggi, «come un sonnambulo», ne vomita la dialettica servo-padrone lacerando la pelle dell’economia di mercato: «”che cosa sta succedendo nel mondo?” diceva. “Lei le vede, in abito da sera, con gli occhi sfavillanti e le spalle nude, il solco tra le tette gonfie compresse dal vestito, quelle meravigliose bambine belle come angeli… Eppure fanno tutte la fila per poter arrivare un secondo prima delle altre a farsi sfondare il culino da quei vecchi arnesi che stanno duri e diritti solo perché sono tutti pieni di pallini da caccia necrotizzati, imbottiti di farmaci sparati dentro con le siringhe, le flebo… Vecchi gangster, riciclatori di soldi sporchi, mafiosi, squali della finanza, politici, petrolieri, piccoli e grandi oligarchi, gente che lavora nel campo della pubblicità, della moda, bambine che cercano in mezzo alla merda il loro posticino nel mondo… Li tengo in pugno. E’ così in tutto il mondo, che cosa crede? L’accumulazione primitiva del capitale viene dagli schiavi, a noi l’hanno insegnato bene… E’ sempre venuta dagli schiavi. Verrà sempre dagli schiavi”» [pp. 86-87]. La figura del “cacciatore di schiavi” non è che l’allegoria – e in Moresco l’allegoria è lo strumento privilegiato, il medium verrebbe da dire, attraverso il quale, come nei morality plays medievali l’autore che è il narratore che è l’uomo Moresco che è, semplicemente, orribilmente l’uomo tentano di mettere ordine, di farsi tutto, pieno, di dare all’increato forma di cosmo a ciò che è squarciato dalla fosforescenza del male – laterale, tangenziale perché in un mondo squassato dal caos nulla si conserva ma tutto si trasforma – e se fosse la termodinamica la sola metafisica? -, il latte in merda: «”lei chi pensa che sia? Un mercante di schiavi? Io non sono un mercante, sono un cacciatore di schiavi. Io non traggo profitto vendendo gli schiavi come un bottegaio. Io creo gli schiavi. Io li individuo al primo sguardo, li cerco, li aspetto, tengo in pugno le loro vite. Sì, certo… i metodi a volte sono duri, spietati, perché bisogna dare esempi. lezioni, tenere la gente sotto terrore e sotto ricatto, qualche volta bisogna persino tagliare qualche vita in due. (…) Nel mondo non c’è mai stata tanta schiavitù come adesso, nel mercato mondiale del lavoro, tra le nazioni e le razze, nella criminalità, nell’economia, nella politica. corrono tutti da me supplicandoli di farli schiavi. E domani? che cosa crede? si stanno preparando nuove forme di schiavitù che faranno impallidire quelle di oggi. Allora non avranno neanche più bisogno di assoggettar e domare gli schiavi, li fabbricheranno, li cloneranno e li duplicheranno direttamente, a stock interi, tutti vorranno avere il loro schiavo, anche gli schiavi. Li staranno già fabbricando da qualche parte, che cosa crede… E allora il maiale russo che adesso sta nel punto dell’intestino dove il latte si trasforma in merda non servirà più, farà schifo, storceranno tutti quanti la bocca. Ma tutto il mondo, tutta la vita, sta in piedi perché c’è la schiavitù. La vita è schiava della morte, la morte della vita, le donne sono schiave degli uomini e gli uomini delle donne, il cervello è schiavo del cuore che pompa il sangue e il cuore del cervello, l’intestino è schiavo dello stomaco e lo stomaco dell’intestino, il buco del culo è schiavo della bocca e la bocca del buco del culo, (…) i cazzi sono schiavi delle fiche, e le fiche dei cazzi, i cazzi sono schiavi dei cazzi e le fiche delle fiche, i cani sono schiavi degli uomini e gli uomini sono schiavi dei cani, e tutti noi siamo schiavi dell’ossigeno che c’è dentro l’atmosfera… Senza la schiavitù non ci sarebbe la vita, non esisterebbero i sistemi politici, economici, religiosi, culturali. Gli uomini hanno paura del caos e l’unica cosa che li salva dal caos sono la schiavitù e le catene della schiavitù, perché non sono liberi, perché non possono esserlo, perché hanno paura di vivere, più ancora che di essere schiavi del caos”» [pp. 88-89]. C’è Lacan, quello della intervista concessa ad Emilia Granzotto per “Panorama” il 21/11/1974, finalmente scevro del consueto compiacimento: «io non sono pessimista. Non succederà niente. Per il semplice fatto che l’uomo è un buono a nulla, nemmeno capace di distruggersi. Personalmente, un flagello totale promosso dall’uomo lo troverei meraviglioso. La prova che finalmente è riuscito a combinare qualche cosa, con le sue mani, la sua testa, senza interventi divini, naturali, o altro. Tutti quei bei batteri supernutriti a spasso per il mondo come le cavallette bibliche significherebbero il trionfo dell’uomo. Ma non succederà. La scienza ha la sua brava crisi di responsabilità. Tutto rientrerà nell’ordine delle cose, come si dice. L’ho detto: il reale avrà il sopravvento, come sempre. E noi saremo, come sempre, fottuti».

Ma è la lingua di Moresco che stordisce. Non il laboratorio linguistico anestetico, asettico di Houellebecq – fateci caso: Michel scrive autentici manuali del vuoto, vittima egli stesso della compulsività della elencazione, della metastasi enciclopedica – no; Moresco non prende per mano il lettore, non lo guida: lo sbrega. Avviluppato in reiterazioni senza soluzione, dall’accento veterotestamentario, epica della germinazione – la vita ha forse una soluzione altra dalla morte? Forse la morte può sottrarsi alla vita? – il lettore capitola e ciò che può sembrare, che è inverosimile nel bulimico mondo narrativo di Moresco trova posto, tutto ha spazio e voce, carne e sangue, merda perché: «là dove si sente la merda/si sente l’essere./L’uomo avrebbe potuto benissimo non andare di corpo,/non aprire la tasca anale,/ma ha scelto di andare di corpo/come avrebbe scelto di vivere/invece di acconsentire a vivere morto» [Antonin Artaud, Per farla finita col giudizio di Dio].

– Antonio Moresco, Gli incendiati, Mondadori, Milano, 2010.

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