Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Sulla Loi Naturelle nel secondo Discours: riferimenti e critiche del primo Rousseau (2 di 4)

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> Giorgio Astone*

Proseguendo nella descrizione del lato morale dell’homme naturel, il filosofo ginevrino fa seguire alla constatazione tecnica della non-necessità della socievolezza per la sopravvivenza le sue conseguenze più intimistiche; difatti i filosofi, a detta di Rousseau, hanno troppo spesso raffigurato lo “stato di natura” nei suoi ipotetici conflitti e nelle forme arcaiche di società senza soffermarsi minimamente sulla lunga gestazione nel ventre della solitudine degli individui. Non nella socievolezza, bensì nell’isolamento, si trova l’essenza naturale del vivere umano: l’intersoggettività è, per Rousseau, solo un’aggiunta: «effettivamente, è impossibile immaginare perché mai un uomo in questo stato primitivo avrebbe avuto bisogno di un altro uomo più di quanto un lupo o una scimmia abbiano bisogno del loro simile1».

Una delle peculiarità più celebri della ricostruzione rousseauiana è l’assenza della necessità di interdipendenza degli individui, la loro originaria autarchia; si può dire che, per Rousseau, «lo stato di natura è uno stato aeriforme2» proprio perché i rapporti intersoggettivi non riescono a coagularsi in base ad una volontà sufficiente. La solitudine non rappresenta in alcun modo un problema per l’individuo delle origini perché è in essa che si ritrova, eccezion fatta per il rapporto madre-figlio comune ad uomini ed animali3; in pace con l’appagamento dei propri desideri che, proprio perché facilmente e frequentemente messi a tacere, rimangono in uno stato di relativa moderazione, il pensatore ginevrino attribuisce all’uomo primitivo anche una cura di sé molto più profonda e matura di quella che altri filosofi gli avevano accordato. Il riferimento polemico esplicito è indubbiamente Hobbes e la sua teoria del «bellum omnium contra omnes»: è impossibile, sostiene Rousseau, attribuire contemporaneamente all’uomo dei primordi l’istinto all’autoconservazione ed un’aggressività immotivata, accompagnata dalla tendenza al predominio sull’altro e al possesso dei suoi beni. Hobbes include erroneamente, nell’amor sui, «il bisogno di soddisfare una quantità di passioni che sono opera della società e che hanno rese necessarie le leggi4». Niente di più falso, a detta del nostro autore, che immaginando di fare un bilancio delle contese e delle barbarie storicamente verificatesi giunge ad una conclusione diametralmente opposta a quella dello stato di natura hobbesiano; è proprio riferendosi al pensatore inglese che Rousseau chiosa: «ragionando sui principi posti da lui stesso, l’Autore avrebbe dovuto dire che, essendo lo stato di natura quello in cui la salvaguardia della nostra conservazione reca meno danno a quella altrui, di conseguenza questo stato era il più propizio alla pace e il più conveniente al genere umano5».

Com’è possibile intuire sin d’ora, le categorie pre-razionali con le quali il filosofo aveva caratterizzato l’uomo naturale vengono penetrate più a fondo nel corso delle argomentazioni della prima e della seconda parte del Discorso e, così come una più perspicua analisi dell’autoconservazione e della sua naturale tendenza alla prudenza e alla solitudine avrebbe evitato tanti equivoci ed interpretazioni sbagliate nella filosofia a lui nota, il pensatore di Ginevra non tarda ad approfondire allo stesso modo il concetto di pietas e le sue implicazioni. A questa «ripugnanza innata a veder soffrire il proprio simile6», spesso bistrattata o ridotta ad un ruolo marginale, viene concessa una potenza inedita e assolutamente centrale: molti sono gli esempi che vengono tratti dallo stesso mondo animale, fra cui la ripugnanza alla vista dei cadaveri dei propri simili, l’istinto della sepoltura in alcune specie e perfino lo straziante muggito del bestiame all’entrata di un macello7. Alla schiera dei pensatori direttamente citati all’interno dell’opera si aggiunge, proprio riguardo la tematica della pietà, Bernard Mandeville ed il suo pamphlet, dal nostro autore letto con attenzione: tale inclusione è motivata dal fatto che, a detta di Rousseau, perfino uno degli osservatori più freddi e cinici della società e dei meccanismi basati sull’egocentrismo umano non poteva non riconoscere un ruolo fondamentale a quell’istinto simpatetico di riconoscimento nell’altro e nelle sue sofferenze8.

Ma anche in questa occasione sarà possibile, analizzando direttamente i passi rousseauiani in questione, sondare una possibile conflittualità intrinseca alle varie argomentazioni dell’autore. Proseguendo con ordine, notiamo come Rousseau conferisca alla pietà naturale una portata talmente rilevante da considerarla non una semplice virtù fra le tante, bensì l’unica vera matrice delle qualità morali dell’essere umano; egli chiede, infatti:

Che cosa sono la generosità, la clemenza, l’umanità, se non pietà verso i deboli, i colpevoli o verso la specie umana in generale? Persino la benevolenza e l’amicizia sono, a ben guardare, effetti di una pietà costante, fissata su di un oggetto particolare: giacché il desiderare che qualcuno non soffra che altro è se non desiderare che sia felice?9

L’intero spettro delle virtù morali deriverebbe, in ultima analisi, dalla predisposizione innata all’identificazione con l’altro. Eppure com’è possibile far convivere in uno stesso milieu antropologico quella che prima avevamo definitivo l’originaria “autarchia” dell’individuo naturale con questa facoltà ad empatizzare? Proseguendo nella lettura dell’opera, in una circostanza tutt’affatto eterogenea, Rousseau argomenta contro i vincoli della forza fisica e della violenza: in un contesto privo di leggi, fatto d’individui che vivono come atomi separati, microcosmi non costretti a dover condividere gli stessi tempi e gli stessi spazi (in una vastità ed un’abbondanza originaria difficilmente immaginabile per noi moderni), è sempre presente la possibilità di fuggire, di svincolarsi dagli altri:

Quale catena di dipendenza ci potrà essere fra uomini che non posseggono nulla? Se mi cacciano da un albero, faccio presto ad andare su di un altro; se in un luogo mi tormentano, chi mi impedirà di andarmene altrove? […] È impossibile asservire un uomo senza prima averlo messo in condizione di non poter fare a meno di un altro; e siccome questa condizione non esiste nello stato di natura, vi lascia ognuno libero dal giogo e rende vana la legge del più forte10.

Alla luce di tale “aeriforme” relazionalità, allora, è possibile interpretare la pietas naturale in due modi sostanzialmente contrapposti: o si vede in essa quella sorta di collante sostitutivo della socievolezza11, eterna assente nell’antropologia naturale rousseauiana, e si riflette sulla sua indispensabilità da un punto di vista strettamente “animale”; oppure, e qui si anniderebbe un’ulteriore incompatibilità, la si incastona a forza in una dimensione complessiva di «solipsismo monadico12» in quanto insufficiente a qualsiasi intervento e a qualsiasi proposito proprio per la paura, anch’essa naturale se si vuole, a stabile una qualsiasi forma di legame/vincolo duraturo per evitare di minare la propria autoconservazione.

A dispetto di tali interrogativi, destinati a rimanere senza responso, le ultime pagine della prima sezione del Discours si chiudono sull’analisi della pietà in base alla sua naturalezza e spontaneità. Se prima Rousseau aveva voluto aprire uno spiraglio di luce sul valore delle passioni nello sviluppo storico delle facoltà umane, sottolineando come l’importanza degli stimoli e dei desideri alimentasse la fiamma del “progresso”, egli stesso attribuisce a queste sorelle della ragione una propria storia, fatta di periodi di maggiore intensità e vita e altri di perdita di considerazione da parte della collettività. È questo il caso della compassione, dotata di una carica molto più intensa e trascinante nell’antichità, alla quale si contrappone l’istanza razionale-egocentrica dell’uomo moderno; da questo punto di vista basta sentire la “voce” della Natura per riscoprirla, ove le massime della pura ragione distolgono da qualsiasi rischio ancor più di quell’originario istinto d’autoconservazione13. La pietà odierna è quasi estinta, rimane sbiadita rispetto a quella degli antenati; spesso alterata dai limiti artificiali delle nazioni e dei gruppi di appartenenza, risulta quasi irriconoscibile rispetto all’originale universalità della sua destinazione14. In questo senso si può dire che, nella sua forma più intransigente e pura, sopravvive soltanto «in alcune grandi anime cosmopolite, le quali oltrepassano le barriere che separano i popoli e, a somiglianza dell’Essere sovrano che le ha create, comprendono tutto il genere umano nel loro amore15».

Fin qui la dissertazione del filosofo, pur avendo offerto spunti rilevanti e di notevole profondità, non ha risposto che parzialmente al quesito dell’Académie sull’origine della disuguaglianza. Sarà solo fra la fine della prima sezione e l’inizio della seconda che Rousseau, dichiarando la disparità fra individui totalmente estranea allo stato di natura16, inizierà ad entrare concretamente in merito alla tematica da discutere, introducendo la sua visione riguardante l’origine della società.

Le prime scaturigini d’un processo millenario sono rintracciate da Rousseau nella costruzione di capanne e palafitte per proteggersi dalle intemperie: la semplice aggregazione logistica crea degli sviluppi inaspettati, come il sorgere di nuclei familiari fissi ed il consolidarsi dei primi codici comunicativi riconosciuti da più individui17. È col vivere comunitario e l’impossibilità di rintanarsi ognuno nelle proprie naturalissime solitudini che iniziano a sorgere dei meccanismi sempre più complessi e pericolosi allo stesso tempo: il moltiplicarsi degli sguardi sugli stessi soggetti, l’importanza del rispetto e dalla reputazione (vedremo meglio, nel nostro ultimo capitolo, la situazione critica della celebrazione e delle feste) e la necessità di vendicarsi per ristabilire il proprio prestigio all’interno della comunità (pena, in caso contrario, la propria rovina) porta ad uno stadio che non è ancora quello moderno ma non è più quello naturale: la zona liminale del tribalismo, fra il vero stato di natura e le iniziali civiltà. È a questa «giovinezza del mondo18» che appartengono le popolazioni selvagge citate nella prima parte e disseminate in varie zone dell’Africa, dell’America e dell’India19: un discrimine chiaro e rivelante per distinguerle è, oltre alla stessa sussistenza del vivere comunitario e la divisione dei compiti e delle mansioni, il diffondersi di vendette crudeli e sanguinarie (tipiche di ogni civiltà prima del costituirsi delle leggi).

Rispetto ad altri percorsi storico-filosofici, fra cui il classico passaggio graduale dalle famiglie ai clan e da questi al primo Stato, caratterizzante la Politica aristotelica ed il giusnaturalismo lockiano, per Rousseau i primi rudimenti delle società per come le conosciamo portano con sé una decisiva rottura rispetto a diverse costanti del mondo tribale; il passaggio più drammatico e decisivo è, senza dubbi, la creazione del concetto di proprietà privata e la delimitazione di quelli che furono sin dagli albori della vita beni comuni a tutti a possedimenti di singoli privati. La maggiore differenza fra le “giovani” tribù e le moderne società occidentali è basata, in ultima analisi, su questo concetto e le sue conseguenze; proprio a tale riguardo si può leggere l’apertura della seconda parte del Discours, uno dei passaggi più noti e discussi della produzione rousseauiana:

Il primo che, avendo cintato un terreno, pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide da credergli, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, quante guerre, quanti assassinii, quante miserie ed errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i piuoli o colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal dare ascolto a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra non è di nessuno, siete perduti!20

Se si è voluta tracciare una linea di continuità fra la filosofia di Rousseau e quella di Marx, soprattutto in relazione agli scritti giovanili del filosofo tedesco, pubblicati negli Deutsch-Französische Jarbücher, in merito alle enclosures e all’espropriazione dei beni comuni, spesso è da questi passi del Discorso che sono state prese le mosse. A prescindere da una qualsiasi associazione politica, è d’obbligo far notare la potenzialità eversiva racchiusa nelle righe rousseauiane, contrarie in ogni modo alla tutela “liberale” della proprietà e alle varie dimostrazioni della sua legittimità storica: non solo «storicizzando la nozione di proprietà, Rousseau ne problematizza la legittimità21», ma è con Rousseau che per la prima volta la fondazione (della legittimità della proprietà, poi delle leggi ed infine delle cariche di potere e dello Stato, come vedremo) diventa un problema, un qualcosa di non dato e della cui ragionevolezza è meglio dubitare; proprio perché una fondazione su base strettamente razionale non v’è mai stata, la prima posizione rousseauiana nei confronti del contrattualismo è indubbiamente assai problematica e priva d’una via d’uscita22 (soprattutto se si rimane fra le pagine polemiche di questi scritti prescindendo da quella che sarà la proposta del Contrat social).

Cercare di circoscrivere questo tipo di usurpazione alla base del concetto di proprietà, di «accumulazione originaria» storicamente imprecisata, ad un filone esatto della critica filosofica o ad una tradizione come può essere quella marxista o storicista è un compito estremamente delicato: una delle difficoltà nelle quali s’imbatterà chi tenterà simile impresa è la forma narrativo-letteraria utilizzata da Rousseau. Uno dei passaggi più essenziali, ad esempio, che segnano la creazione delle prime norme a favore della tutela del privato (corrispondenti alle prime norme in generale) viene svolto tramite una sorta di prosopopea: un “ricco”, che rappresenta certamente la categoria dei primi “accumulatori”, cerca tramite un’orazione di convincere gli individui appartenenti alla sua stessa comunità a fissare delle regole scritte che possano tornare a vantaggio di tutti, occultando dietro d’esse, nella loro forma, il bisogno per lui più recondito di fissare ed immortalare i suoi privilegi nel tempo:

Egli inventò facilmente delle ragioni speciose per tirarli al suo scopo. “Uniamoci”, disse loro, “per garantire i deboli dall’oppressione, per contenere gli ambiziosi e assicurare a ognuno il possesso di ciò che gli appartiene; istituiamo dei regolamenti di giustizia e di pace a cui tutti siano obbligati a uniformarsi, che non facciano eccezione per nessuno e che in qualche modo pongano rimedio ai capricci della fortuna sottomettendo ugualmente il forte e il debole a doveri reciproci. In breve, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, uniamole in un potere supremo che ci governi secondo sane leggi, che protegga e difenda tutti i membri dell’associazione, sconfigga i nemici comuni e ci tenga in una perpetua concordia23.

La situazione precedente all’istituzione delle prime norme doveva essere quella, e solo ora ci avviciniamo ad un parallelo con la ricostruzione hobbesiana, di una precarietà generica per i possidenti, soggetti alla “legge del più forte” e alle possibili usurpazioni dei proprietari vicini: senonché, nell’ottica di Rousseau, questo tipo di dis-equilibrio era ancora più “coerente” rispetto allo stesso atto della fondazione del diritto, basato su un vero e proprio inganno perpetuato ai danni della collettività e, con la sua futura estensione, all’intera specie umana: «il ricco, spinto dalla necessità, alla fine ideò il progetto più meditato di quanti siano mai stati nell’intelletto umano: e fu di usare a suo vantaggio le forze stesse di coloro che lo assalivano, di trasformare i suoi avversari in suoi difensori, di ispirare loro delle altre massime e di dare loro delle altre istituzioni che gli fossero altrettanto favorevoli quanto il diritto naturale gli era contrario24». Queste pagine rappresentano forse il punto più distante da tutta da tradizione giusnaturalistica nei riguardi della creazione delle leggi: poiché, non riconoscendo la natura malevola ed occultatrice di equilibri di potere conferita ad esse dagli sfruttatori che le avevano concepite, i popoli «corsero incontro alle loro catene credendo di assicurarsi la libertà25».

Il senso di disfatta e corruzione insito nella fondazione della proprietà e delle leggi è declinato da Rousseau in molteplici direzioni: non è soltanto illegittima l’appropriazione dei beni precedentemente comuni ma, ammesso e non concesso che una sorta di “votazione” fosse realmente avvenuta e steso un velo di silenzio sull’argomento dell’inganno a detrimento delle classi sociali meno istruite e non in grado di realizzare l’andazzo degli eventi, rimarrebbe comunque ingiustificata l’estensione di tale meccanismo sui posteri e sulle generazioni venture o, per meglio dire, parrebbe in ogni caso angosciante e limitante la fredda rigidità delle norme: in primis perché la libertà era quella condizione naturale, concessa dalla divinità e alla quale soltanto l’uomo era stato fatto partecipe, che così verrà per sempre negata e mai si potrà realizzare a pieno26; un secondo motivo, inoltre, è che non spetta nemmeno ai padri rinunciare ad un diritto naturale per conto dei figli: il presente non dovrebbe poter condannare il futuro27. La privazione della libertà, condizione per un’esistenza superiore, dell’uomo da parte dell’uomo stesso, rimanda subito alla mente, con le dovute differenze, a quello stato di minorità auto-imposto sull’uomo dall’uomo nei riguardi delle sue potenzialità razionali ed intellettive abbozzato da Kant in Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?. Infine, tale sottrazione è di per sé sui generis: a differenza di qualsiasi altro tipo di bene, Rousseau mette sullo stesso piano “vita” e “libertà”, suffragando perfino la conclusione che aver tolto la libertà ha deteriorato indissolubilmente l’essenza stessa dell’uomo: «togliendosi questa (la libertà) si degrada il proprio essere, togliendosi quella (la vita) lo si distrugge almeno per quanto dipende da noi28». La tragicità delle stringenti riflessioni rousseauiane ed il loro stile letterario oscillano fra l’originarietà del peccato biblico29 e la caduta da «una perfezione originaria, divina e animalesca insieme, che non poteva perdersi e di fatto si è perduta30».

In conclusione, sono essenzialmente tre i passaggi individuati alla fine del Discours dallo stesso filosofo francese che rappresentano il diffondersi ed il radicarsi nella storia della disuguaglianza fra gli uomini, corrispondenti non sempre a svolte storiche distinte ed individuabili: la prima è la forma strutturale che regge le altre, il momento dell’istituzione del diritto di proprietà e delle leggi che lo sanciscono, eternando a loro volta il dominio dei ricchi sui poveri; successivamente, vengono istituite delle cariche, ad esempio quelle della magistratura; quand’anche queste fossero stabilite su base elettiva, la loro funzione diventa quella di custodire il primo tipo di disuguaglianza già impostasi, costituendo un nuovo livello di degradazione. A questi due stadi, iscrivibili al funzionamento regolare degli stati occidentali moderni dei tempi del filosofo ginevrino (e ai nostri), si aggiunge quell’ultimo picco di corruzione, il rapporto padrone-schiavo (che può essere concepito, in questo caso, anche come dominio di alcune popolazioni su altre ridotte in schiavitù), che non ha più bisogno di fondarsi nella stessa, ipocrita, “legittimità” e può essere arbitrario ed aprire delle zone extra-giuridiche nei rapporti fra esseri umani31.

Queste, dunque, le tre tappe fondamentali che hanno portato alle disuguaglianze fra gli uomini: questi i loro “fondamenti”. Ma a ben vedere rimane intricato un nodo, quello del nesso fra vivere collettivo e discriminazione immediatamente successiva, che se preso alla lettera potrebbe essere considerata una condizione patologica non unicamente delle società basate sull’occultamento di un inganno ma di tutte le possibili società o di qualsiasi pluralità/gruppo in quanto tale. Da una parte il meccanismo dell’attribuzione della stima, proprio perché “donata” e “conferita”, è considerabile come una quarta degenerazione o tappa della disuguaglianza nelle società: meta di questo tipo è quella rincorsa ad un titolo che rende «tutti gli uomini dei concorrenti32» e che può nascere con il magico pronunciarsi, dalla bocca di un re, di parole come «sii grande tu e tutta la tua stirpe33», scatenando un effetto domino che può perdurare per secoli (qui è fuor di discussione un riferimento implicito al lignaggio e alla nobiltà). Dall’altra il desiderio di stima è soltanto la punta di diamante di tutte quelle passioni che necessitano di uno stare fuori di sé, un’eteronomia costitutiva; interessante è notare, en passant, l’utilizzo da parte dell’autore dell’espressione «mises en action34» riferita a tutte quelle qualità innate, ad esempio quelle fisiche (la bellezza) o mentali (intelligenza, furbizia, ecc.), che solo nella dimensione sociale e collettiva vengono «messe in azione» nel senso di “coltivate-per-fruttare”. Simile era la distinzione fra talenti e virtù delineatasi nella parte conclusiva del primo Discorso: la valorizzazione dei primi, compiuta dalle scienze e dalle arti moderne, non faceva altro che incrementare il divario delle disuguaglianze naturali rispetto alle potenzialità livellatrici e all’insegnabilità morale della seconda35. È legittimo, perciò, designare il “riconoscimento” (l’Anerkennung hegeliano) come momento antropologicamente negativo nella filosofia di Rousseau?

Concluderemo il nostro articolo proprio analizzando i passi più strettamente connessi alla problematica dell’intersoggettività e alla relazionalità dopo aver passato brevemente in rassegna la fitta rete di rimandi ai pensatori giusnaturalisti sottesa al secondo Discours.

Bibliografia

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Lorenzo Coccoli, Rousseau critico della proprietà moderna: il Discorso sull’origine della disuguaglianza, in Bollettino telematico di filosofia politica, 2010, 26 Agosto 2015, http://archiviomarini.sp.unipi.it/

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NOTE:

1Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 58.

2Coccoli, op. cit., p. 6.

3È lecito chiedersi, a questo punto, perché nell’ottica dei continui raffronti fra mondo animale e mondo dei primi uomini, Rousseau non ipotizzi dei “branchi umani” ai fini della caccia e per altre funzioni legate esclusivamente alla sopravvivenza.

4Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 60.

5Ibid.

6Ivi, p. 61.

7Ibid.

8Ivi, p. 61. In realtà Mandeville, nel testo originale del pamphlet, è molto più neutrale o, se vogliamo, pessimista nei riguardi della pietà naturale, in quanto neutralizza qualsiasi forma di tensione spontanea ed altruistica verso l’altro e rende il gesto di pietà un ennesimo appagamento egocentrico. Visti i numerosi riferimenti di Rousseau all’opera, che lo portano a trarre direttamente degli esempi dalla stessa, sarà opportuno riportare interamente uno dei passi principali riguardanti la pietà come mera affezione dell’autore della Favola: «Poiché è un impulso della natura che non tiene conto dell’interesse pubblico né della nostra ragione, può produrre tanto il male quanto il bene. Essa ha contribuito a rovinare l’onore delle vergini e ha corrotto l’integrità dei giudici. E chiunque agisce in base ad essa come principio, qualunque bene possa apportare alla società, può vantarsi soltanto di avere assecondato una passione che per caso è risultata benefica al pubblico. Non vi è merito nel salvare un bambino innocente che sta per cadere nel fuoco: l’azione non è buona né cattiva, e per quanto il bambino ne abbia ricevuto un beneficio, non abbiamo fatto altro che compiacere noi stessi. Infatti vederlo cadere e non cercare di impedirlo ci avrebbe causato un dolore, che l’autoconservazione ci ha spinto ad evitare». Bernard Mandeville, La favola delle api, Roma-Bari, Laterza, 2008, pp. 33-34.

9Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 63.

10Ivi, pp. 69-70.

11Come fa, ad esempio, Reale: «se la socialità è, per rigore di esigenza politico-rivoluzionaria, tenuta fuori, la pietà svolge un ruolo suppletivo di equilibrio, impedisce che l’autoconservazione si sviluppi in una direzione hobbesiana». Reale, op. cit., p. 35.

12Coccoli, op. cit., p. 7. Dallo stesso è possibile riportare uno spunto interessante: la totale avversione del filosofo ginevrino nei confronti di una qualsiasi forma di interdipendenza fra soggetti potrebbe essere fatta risalire all’intuizione delle nuove forme economiche; scrive per l’appunto Coccoli: «l’avversione rousseauiana per la dipendenza aveva un obiettivo polemico preciso: la nascente economia di mercato, che, tramite la divisione del lavoro e la generalizzazione dei rapporti di scambio, legava tutti in un sistema di vincoli e legami reciproci». Ibid.

13«È evidente che questa identificazione è dovuta essere infinitamente più stretta nello stato di natura che nello stato di ragione. È la ragione che genera l’egoismo ed è la riflessione che lo rafforza; è questa che fa ripiegare l’uomo su se stesso e lo allontana da tutto ciò che lo angoscia e lo affligge. È la filosofia che lo isola: è in virtù della filosofia che egli, vedendo un uomo soffrire, dice in cuor suo: crepa, se vuoi – io sono al sicuro». Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 63.

14«È essa che, nello stato di natura, tiene il luogo di legge, di costume e di virtù, con il vantaggio che nessuno è tentato di disobbedire alla sua dolce voce; è essa che distoglierà ogni selvaggio robusto dal togliere a un bambino debole o a un vecchio infermo il cibo acquisito con tanta fatica, quando abbia la speranza di trovare altrove il suo; è essa che, al posto di questa sublime massima di giustizia razionale “fa agli altri quello che vorresti fosse fatto a te”, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale, assai meno perfetta ma forse più utile della precedente: “procura il tuo bene con il minor male possibile per gli altri”»; Ivi, p. 64. A mo’ d’esempio, è utile pensare alla relazione triadica sussistente nell’Antigone sofoclea fra la protagonista, il cadavere del fratello Polinice da seppellire e l’autorità legale di Creonte: in tale conflitto risiede una simbolizzazione della realtà normativa-positiva delle leggi e della ragione che si contrappone al valore primigenio della pietas naturale. Senonché è opportuno ricordare che Rousseau stesso respingerebbe simili accostamenti, vedendo nella civiltà greca una fase enormemente posteriore rispetto alla stato naturale da lui stesso ipotizzato; basti pensare alla centralità del tema della vendetta, unica linfa vitale dell’Orestea eschilea, e alla lontananza delle stessa con la seguente sentenza rousseauiana: «(i primi uomini) non pensavano neppure a vendicarsi, se non forse meccanicamente e immediatamente, come il cane che morde il sasso che gli si tira – perciò le loro dispute dovevano difficilmente avere delle conseguenze concrete». Ivi, p. 64.

15Ivi, p. 89.

16«La disuguaglianza nello stato di natura si fa appena sentire e […] la sua influenza è quasi nulla». Ivi, p. 70.

17Particolare è l’ipotesi che la formazione delle lingue e il processo agglomerante in toto delle prime società avvenisse con maggiore facilità nelle isole, per la loro frammentazione territoriale e la ridotta superficie. Ivi. p. 77.

18Ivi, p. 80.

19Ivi, p. 77-78.

20Ivi, p. 72.

21Daniel Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni. Citato in Coccoli, op. cit., p. 2.

22«Rousseau, immaginando una condizione originaria di naturalistica perfezione, smaschera la convenzione giusnaturalistica, ma si rinchiude in un principio che non offre vie d’uscita». Reale, op. cit., p. 275.

23 Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, pp. 87-88.

24Ivi, p. 87.

25Ivi, p. 88.

26«Non mi indugerò a ricercare se, essendo la libertà la più nobile delle facoltà umane, il rinunciare senza riserve al più prezioso di tutti i doni e il rassegnarsi a commettere tutti i delitti che esso ci proibisce per compiacere a un padrone feroce o insensato, non equivalga a degradare la nostra natura, a metterci al livello delle bestie schiave dell’istinto, persino a offendere l’Autore del nostro essere – e se questo sublime artefice debba esser più irritato di veder distruggere che di veder disonorare la sua più bella opera». Ivi, p. 94.

27Ivi, p. 95.

28Ibid. Corsivo mio; è dunque lecito inerire alla libertà, basandoci su questo passaggio, una rilevanza assiologicamente superiore alla stessa vita.

29«Lo schema narrativo adoperato qui da Rousseau sembra la versione secolarizzata del modello biblico del peccato originale: ad un’originaria situazione di candore naturale segue un movimento degenerativo di decadimento e di allontanamento progressivo da quella prima condizione edenica». Coccoli, op. cit., p. 1.

30Reale, op. cit., p. 271.

31 Jean-Jacques Rousseau, Origine della disuguaglianza, p. 99.

32Ivi, p. 101.

33Ibid.

34Jean-Jacques Rousseau, Discours sur l’origine et les fondaments de l’inégalité parmi les hommes. Discours sur les sciences et les arts, Parigi, Flammarion, 1992, p. 235.

35Id., Discorso sulle scienze e sulle arti, p. 14.

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