«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
Se è vero che la morte è e rimane un mistero per l’uomo, è altrettanto vero che non è impossibile riflettervi collettivamente e stabilire un modo comune di porsi di fronte ad essa che sia migliore – o anche solo più consapevole e meno schiavo della coazione a ripetere i comportamenti di chi ci ha preceduti. La morte è infatti ben di più che il termine biologico della vita: da sempre l’uomo ha attribuito un significato simbolico particolare – strettamente correlato all’epoca e alla cultura – a questo evento che, in un modo o nell’altro, ha ritenuto di dover “celebrare ritualmente” e mai su di un piano strettamente individuale. Ma, a stretto rigore,
«Bisogna essere un abisso, un filosofo… Abbiamo tutti paura della verità…» [1]
Scrivere – afferma Eduardo Lago – «è avvicinarsi all’abisso. Per Bolaño “l’alta letteratura, quella che scrivono i veri poeti, è quella che osa addentrarsi nell’oscurità con gli occhi aperti, succeda quello che deve succedere”. Scrivere: addentrarsi nell’inferno; la letteratura è “un lavoro pericoloso”. Pericoloso perché decifrare l’enigma dell’esistenza implica scontrarsi in termini assoluti con il Male e la Morte» [Eduardo Lago, “Sete del male“].
«Con gli occhi che si spegnevano K. vide ancora come, davanti al suo viso, appoggiati guancia a guancia, i signori scrutavano il momento risolutivo. “Come un cane!”, disse, fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere»
F. KAFKA, Il Processo, Garzanti, Milano 1995, p. 187.
Sembra impossibile pensare alla morte in condizioni normali: non vogliamo soffermarci su ciò che oltremodo ci fa soffrire, ci sgomenta, ci fa paura e che sembra il contrario di tutto ciò che vogliamo e desideriamo. Spesso si è data una rappresentazione falsata della morte, oppure si è cercato di nasconderla alla vista ed alla coscienza e, se forzati ad affrontarla, ci si è affidati al rito ed alla fede. Ai giorni nostri c’è stata talvolta una spettacolarizzazione della morte ed al necessario silenzio che sempre accompagna quei momenti si è sostituito un ipocrita applauso: non solo nei casi di morte per la patria, ad esempio, ma anche per la morte di persone innocenti; si capiscono il dolore, lo sgomento, la rabbia, il mancamento, ma perché applaudire se non per risolvere l’angoscia in comode giustificazioni? Nel corso della storia, poi, il suicidio è stato a torto quasi unanimamente condannato; il suicida è stato trattato come un peccatore, uno che di fronte alle difficoltà della vita ha scelto una via comoda per non assumersi responsabilità. Possiamo leggere questa condanna come un non volere indagare sulle vere ragioni che spingono una persona a quel gesto tragico.
Pertanto, il comun denominatore dei comportamenti davanti alla morte, soprattutto nella società contemporanea, è la fuga, ma se il pensiero vuole essere autentico deve affrontarla: essa non può non essere tematizzata, è forse “IL” tema per eccellenza per comprendere e misurare il nostro essere al mondo.
Ci hanno detto che gli uomini sono mortali, che hanno visione del vero solo sul metro della propria finitudine. Ci hanno detto che una vita è fatta di un finito numero di anni e di un finito numero di giorni, che ogni giorno è un finito numero di ore, ogni ora un finito numero di minuti e così i minuti: ma di quanti istanti è fatto un giorno? Sarà possibile mai, elencare il numero e la qualità delle cose che, in un solo Istante, stanno? E nell’immensità di tutte le cose che in un solo attimo esistono, può essere individuata quella in cui quell’attimo ha fine? Se l’Infinito è il contenuto del Finito, è lecito parlare di finitezza?