> di Massimo Carloni*
Non mi aspetto più niente dalla vita
se non una sequenza di fogli di carta da scarabocchiare di nero.
Mi sembra di attraversare una solitudine senza fine,
per andare non so dove. E sono io che sono nello stesso tempo il deserto,
il viaggiatore, e il cammello!
FLAUBERT[1]
- Il gioco delle carte e l’isola di Robinson
L’opera cresce ai margini della vita, sulle sue rovine, nell’ «eterna tortura del morire»[2]. Essa emana dall’ombra, dal limbo di chi non è, né tanto meno aspira ad essere. La solitudine ne è la scaturigine. Il demone della scrittura sceglie il deserto, si nutre di negativo, d’assenza, di vuoto, per forgiare e distruggere il mondo nel fuoco della creazione, fino ad innalzarlo «nel puro, nel vero, nell’immutabile».[3]
Nel corso della sua vita Kafka ha percorso una terra di confine, fra «la solitudine e la società»[4]. Landa desolata, popolata di fantasmi, dove la tenebra sconfina nel giorno diventando luce, e la luce si fa tenebra; in cui la realtà stessa è continuamente minacciata, dilaniata dal sogno. In questa notte dell’anima si consuma per Kafka il dramma dell’esitazione, della lacerazione tra due imperativi categorici. Quello interiore della vocazione letteraria, lo isola proteggendolo dagli assalti terrificanti della vita; quello esteriore, rappresentato dall’implacabile universalità della Legge, lo spinge verso i doveri sociali di produrre e procreare, ossia: lavoro, matrimonio e, naturalmente, discendenza. Quando raramente varcherà quella frontiera, tentando di metter radici nello spazio della vita comune, se ne ritrarrà disgustato, annoiato, col rimpianto del tempo sottratto all’unico universo che conta: quello della scrittura [5].
Nell’ottobre del 1921 Kafka ha trentotto anni, si trova nella sua casa di famiglia. I genitori giocano a carte, mentre lui se ne sta solitario in disparte. Il padre lo invita a partecipare o almeno ad assistere da spettatore alla partita. Lui, inventando una scusa, rifiuta.
Che significava quella mia ribellione tante volte ripetuta fin dall’infanzia? La vita comune, la vita, dirò così, pubblica mi era resa accessibile da quell’invito, la prestazione che mi si chiedeva l’avrei data non bene ma passabilmente, anche il gioco probabilmente non mi avrebbe annoiato troppo: ciò nonostante rifiutai. A giudicare da ciò, ho torto di lamentarmi che la corrente della vita non mi abbia mai trascinato, che non mi sia mai staccato da Praga, non mi sia mai dedicato a uno sport o a un mestiere: probabilmente avrei sempre rifiutato l’offerta come l’invito a giocare [6].
Qualche sera dopo decide di accettare l’invito: parteciperà al gioco annotando le vincite della madre. Tuttavia non sente alcuna vicinanza, ricavandone, viceversa, solo noia e tristezza. L’ennesimo tentativo maldestro di varcare il confine, di prender parte al gioco della vita, gli farà rimpiangere la ricchezza solitaria del suo universo interiore: «Quale paese vivo e bello era in confronto l’isola di Robinson!»[7]
Per tutta la vita Kafka si struggerà in un desiderio ambivalente: quando si trova nella riva solitaria aspira ad essere sull’altra sponda, conciliato con il prossimo, pur sapendo per esperienza, che tale condizione è per lui inaccessibile e, qualora lo fosse, sarebbe in ogni caso intollerabile. «Perché dunque aumento l’infelicità di essere su questa riva con la nostalgia di quell’altra?»[8], si chiede. La diserzione della partita a carte è sintomatica del rifiuto di seguire la corrente della vita, di conformarsi alle sue regole del gioco. Nascere, vivere, lavorare, amare, significa in fondo farsi guidare dall’istinto gregario, abbandonarsi alle abitudini collettive, interpretare un ruolo, recitare un copione, partecipare insomma alla comedie humaine.
Kafka tuttavia dichiarerà con forza di essersi fermato ad uno stadio anteriore, di non esser «nato definitivamente», anzi, di aver conosciuto solo «l’esitazione che precede la nascita», così come dell’amore confesserà di aver esperito solo «l’attesa silenziosa che avrebbe dovuto essere interrotta dal mio ti amo» [9]. Folgorato da una qualche prescienza intrauterina, Kafka si affaccia alla tavola imbandita della vita già disingannato e senza appetito. È di quelli, notava Cioran, che sono entrati nella esistenza «con un colpo di vento», per un capriccio del caso, non attrezzati per sopravvivervi. Impossibilitato a parteciparvi direttamente, si limiterà ad osservarla e a raccontarla da spettatore la vita, così come s’è manifestata al suo sguardo limpido, tagliente, crudo, facendosi carico di tutto il negativo del suo tempo. Insomma, la realtà sotto forma di incubo. Ne scaturirà un canto puro, come solamente può esserlo quello cantato «nel più profondo inferno»[10].
- Il digiuno dell’uomo-penna
La capacità di descrivere «la sognante vita interiore» [11], si rivelò a Kafka nella notte tra il 22 e il 23 settembre 1912. Dalle dieci di sera alle sei del mattino, in preda ad un’ispirazione convulsa, a tratti irrefrenabile, scrive d’un fiato Das Urteil [La condanna] dando libero sfogo agli spettri che lo tormentano, generati dal conflitto col padre. Georg Bendemann, il protagonista, vive un rapporto morboso col vecchio babbo, rimasto vedovo. Questi in un crescendo claustrofobico, impedisce al figlio qualsiasi tentativo di fuga verso una vita indipendente (amicizie, matrimonio). Schiacciato dal senso di colpa e completamente plagiato, Georg è condannato dal padre al suicidio mediante annegamento: «Cari genitori, eppure vi ho sempre amati!» esclama prima di gettarsi dal ponte. Il giorno seguente Kafka è pervaso da una sensazione di gioia, di completa apertura del corpo e dell’anima. Davanti a lui si schiude uno spazio infinito, è come se veleggiasse in mare aperto, sente che «tutto si può osare»[12]. Nei Diari paragonerà il racconto ad un «parto coperto di muco e lordura»[13].
Ancor prima di quel fulminante concepimento, Kafka era già consapevole che lo scrivere fosse «il lato più fertile» della sua natura, tuttavia, a causa della sua debole complessione, poteva dedicarvisi solo a prezzo di grandi privazioni, rinunciando «alle gioie del sesso, del mangiare, del bere, della riflessione filosofica e soprattutto della musica»[14]. In questo senso Kafka parlava della necessità di «dimagrire» in tutti gli altri ambiti, solo così infatti, poteva raccogliere e convogliare le energie necessarie allo sforzo creativo. La letteratura, per una sorta di economia fisiologica, si alimenta sottraendo risorse alla vita, riducendo al minimo, fino ad eclissarle, le altre esigenze corporali.
Come il protagonista di un suo racconto, Ein Hungerkünstler [Un digiunatore], che riesce nell’impresa di fare della fame (hunger) un’arte di vita (künst), anche Kafka farà della scrittura l’unica forma di vita possibile, la sua «battaglia per l’esistenza»[15]. La narrazione si regge sul malinteso di considerare l’astinenza dal cibo un esercizio ascetico d’alta levatura, un’impresa eroica, mentre in realtà si tratta solo di una necessità imposta dalle condizioni di vita, quindi «la cosa più facile di questo mondo». Il fraintendimento rende il protagonista addirittura un fenomeno da baraccone, un numero da circo. Col passare degli anni, tuttavia, quella stravagante attrattiva cessa di incantare il pubblico. Nonostante il digiunatore continui ostinatamente la sua malinconica e solitaria esibizione, la gente ormai passa incurante davanti alla sua gabbia, finché un giorno un guardiano si accorge di lui. Nascosto nel pagliericcio e prossimo alla morte, il digiunatore chiede perdono a tutti. Pur avendo cercato, tramite il suo numero, l’approvazione del pubblico, non si ritiene degno d’ammirazione.
«Perché non dobbiamo ammirarlo?», chiese il sorvegliante. «Perché io son costretto a digiunare, non posso farne a meno», rispose il digiunatore. «Ma senti, senti!», disse il sorvegliante, «e perché non puoi farne a meno?» «Perché», replicò il digiunatore sollevando un pochino la sua testolina e parlando con le labbra appuntite come per schioccare un bacio proprio all’orecchio del sorvegliante, «perché non sono riuscito a trovare il cibo che mi soddisfacesse. Se l’avessi trovato, credimi! non avrei fatto tante storie, e mi sarei rimpinzato come te e come tutti». Furono le sue ultime parole; ma nei suoi occhi spenti brillava ancora la ferma, anche se non più fiera, convinzione di protrarre il digiuno.
«Adesso però ripulite la gabbia!», disse il sorvegliante; e il digiunatore venne sepolto insieme alla paglia. Nella gabbia, invece, venne messa una giovane pantera [16].
Kafka, come il digiunatore, è un artista malgré lui, un forzato della penna, costretto alla scrittura per non aver trovato un’altra forma di vita che lo appagasse. La letteratura è una sorta di fatalità cui non può sottrarsi; il suo è un destino tragico, vissuto come una colpa, in quanto si pone in diretto conflitto con i doveri familiari, in primis il lavoro.
All’attività impiegatizia presso l’Istituto d’Assicurazioni sociali, di per sé avvilente, si aggiungeranno nel tempo gli impegni presso il negozio paterno e la fabbrica del cognato, che costringeranno Kafka a strappare al sonno notturno le ore utili alla scrittura. Presentarsi al lavoro il giorno seguente è, ovviamente, una catastrofe, al punto che le due attività risultano a conti fatti inconciliabili: «la più piccola felicità nell’una diventa una grande infelicità nell’altra»[17]. Il risultato è un comportamento nevrotico, alla lunga sfibrante.
Il mio posto mi è insopportabile perché in contrasto col mio unico desiderio e con la mia sola professione che è la letteratura. Siccome non sono altro che letteratura e non posso né voglio essere altro, il mio posto non mi attirerà mai, ma potrà invece rovinarmi del tutto [18].
D’altronde la prospettiva di fare della letteratura un mestiere appare nel suo caso improponibile. La letteratura per Kafka è una missione sacrale, un destino (Schiksal) come dicevamo, piuttosto che una professione (Beruf ). Scrivere è una «forma di preghiera» [19], non ci si può guadagnare il pane. Inoltre la debolezza e la vulnerabilità del carattere, mal si prestano ad affrontare le peripezie di una «una vita incerta» ed aleatoria quale quella della scrittore.
Flaubert, uno dei padri letterari di Kafka, suo «consanguineo», aveva già rimarcato l’incompatibilità del ritmo di vita borghese con quello della creazione artistica. L’eremita di Croisset finì per teorizzare ed istituire una sorta di culto della vita solitaria, di stampo monacale, quale esercizio ascetico propedeutico alla creazione letteraria. L’esigenza dell’opera richiede da parte dell’autore una dedizione esclusiva, assoluta, un’adesione per così dire mistica, a cui tutto va sacrificato. Scandita da un altro tempo, indifferente rispetto a quello cronologico ed utilitaristico del mondo borghese, la vita dello scrittore attecchisce preferibilmente nel deserto, nel silenzio di un universo a parte, la cui evoluzione si confonde con il divenire dell’opera. L’autore si perde a tal punto nella propria creazione, da ridursi a mero strumento, un homme-plume, per dirla con Flaubert [20].
Ora leggo nelle lettere di Flaubert: «Il mio romanzo è lo scoglio al quale sono attaccato e non so nulla di quanto avviene nel mondo». Simile a ciò che ho scritto di mio il 9 maggio [21].
Il disprezzo del mondo borghese e la totale estraneità alle logiche utilitaristiche che lo governano, non fortificano in Kafka quel sentimento di fierezza e d’orgoglio che in Flaubert va di pari passo con una certa prestanza fisica, ma, al contrario, acuiranno in lui il senso di colpa, fino a condurlo ad un disperato abominio di sé. Il confronto/scontro con la realtà della Legge lo vedrà soccombente in partenza, poiché nell’immaginario di Kafka ciò significa competere con la figura paterna che più d’ogni altra l’ha incarnata. Autorità dispotica, modello inarrivabile e castrante ad un tempo, Hermann Kafka appare agli occhi del figlio una sorta di modello, di «misura di tutte le cose», emblema dell’uomo virile e socialmente realizzato che si è fatto da sé. In altre parole, rappresenta non solo la Legge, ma anche il Lavoro e la Vita, una triade di fronte alla quale Kafka si sentiva del tutto inadeguato e impotente.
D’altronde, anche l’ultimo Flaubert riconobbe all’etica spontanea delle persone semplici, alla loro ingenua adesione alla vita, di essere nel vero[22]. Tuttavia, al di sopra della verità poneva la bellezza, l’assoluto dell’arte, la perfezione dello stile, in cui si barricava a dispetto di tutti. Kafka è senza rifugio, non si compiace della propria arte, è totalmente esposto e indifeso nella sua diversità di scrittore emarginato, simile a «un individuo nudo tra individui vestiti»[23]… Mentre Flaubert, al pari d’uno stilita, sovrastava con i suoi sarcasmi il brulicante mondo borghese, salvo scendere talvolta dalla colonna per civettare sottobanco con l’esecrata società, Kafka, troppo sensibile e puro per accettarne gli avvilenti compromessi, rifugge istintivamente la luce della società, preferendo l’ombra del sottosuolo. Arriva persino a vagheggiare una dimora sotterranea, una sorta di studio-cantina, per realizzare il sogno d’invecchiare «in modo naturale col progredire dei miei lavori»[24].
Ho già pensato più volte che il mio migliore tenore di vita sarebbe quello di stare con l’occorrente per scrivere e una lampada nel locale più interno d’una cantina vasta e chiusa. Mi si porterebbe il cibo, lo si poserebbe sempre lontano dal mio locale, dietro alla più lontana porta della cantina. La strada per andare a prendere il pasto, in veste da camera, passando sotto le volte della cantina, sarebbe la mia unica passeggiata. Poi ritornerei alla mia scrivania, mangerei lento e misurato e riprenderei subito a scrivere. Chissà quali cose scriverei! Da quali profondità le farei sorgere! [25]
L’alterità straniante dello scrittore solitario, disertore dei doveri familiari e sociali, unita ad una chiaroveggenza introspettiva spinta all’estremo, induce Kafka a prendere coscienza di sé come un qualcosa d’abominevole, di repellente. A volte dubita persino di essere un uomo[26]. Per descrivere questa condizione di regressione subumana, non poteva che affidarsi alla morfologia animale, dando vita alle strazianti creature protagoniste dei suoi visionari racconti.
In Die Verwandlung [La Metamorfosi], ad esempio, la trasformazione fisica di Gregor Samsa non è che la ricaduta psicosomatica d’una mostruosità d’ordine morale, monstrum in fronte monstrum in animo. Chi viene meno ai sacri doveri d’ufficio, sottraendosi alla catena produttiva, è un traditore, un individuo spregevole, che si pone hors de l’humaine. Lo sguardo spietato dei familiari e del procuratore, inflessibili inquisitori dell’ordine sociale, suona già come una condanna a morte. L’insetto che disturba il normale vivere comune, va semplicemente schiacciato e rimosso. Pur conservando, a dispetto dell’apparenza, una sensibilità interiore profondamente umana, alla fine anche Gregor Samsa si convince della propria assurda colpevolezza. Le creature di Kafka, commoventi nella loro discrezione – questa sì disumana – per non turbare, con la loro fastidiosa presenza, il quieto vivere della comunità, si eclissano spontaneamente, per consunzione, portando a termine quell’anomalia che è stata la loro vita. Nello spegnersi, durante «l’eterna tortura del morire»[27], gettano tuttavia una luce sinistra sul mondo cosiddetto umano che sopravvive loro, non meno riprovevole e mostruoso nella sua spietata e cinica normalità…
Nel racconto Der Bau [La tana], l’animale, verosimilmente una talpa, costruisce meticolosamente il proprio isolamento dal mondo esterno, scavando un labirintico sistema di cunicoli sotterranei[28]. In questo caso, il sogno d’una tana inespugnabile in cui vivere in totale solitudine e sicurezza, è il frutto di una costruzione, di una strategia di sopravvivenza contro le minacce di un invisibile Nemico, non si sa se reale o immaginario, forse un doppio della talpa, una proiezione della sua solitudine. Sempre in bilico tra possibilità opposte, la realtà in Kafka è sempre indeterminata, ambivalente, e come tale minaccia e disorienta l’individuo inerme. Così, persino la tana, da rifugio inattaccabile, garante della tranquillità e della pace, finisce per trasformarsi nel suo contrario, un’inquietante prigione, in cui si odono rumori sinistri, e dove lo stesso costruttore rischia di smarrirsi. Inoltre, i fantasmi d’una solitudine estrema, inducono l’animale a prefigurare, paradossalmente, uno scontro mortale con il fantomatico Nemico, di modo che la tana possa diventare, se non il suo rifugio, almeno la sua tomba…
Forse non era possibile raccontare più efficacemente le ansie, le angosce, i fantasmi che spaventano lo scrittore intento a scavare ed esplorare il proprio sterminato mondo interiore, alla ricerca affannosa ed ostinata di una perfetta, impossibile solitudine.
- Desiderio e orrore del matrimonio
Nell’agosto del 1912, appena un mese prima della stesura del La condanna, a casa dell’amico Max Brod, Kafka conosce Felice Bauer, un’ebrea di Berlino, con cui inizia un’intensa relazione epistolare a distanza, costellata da qualche fugace rendez-vous. La sera stessa dell’incontro matura già nei suoi confronti «un giudizio incrollabile»[29]. In altre parole è Felice la prescelta, colei che dovrà aiutarlo attraverso il matrimonio a varcare la porta della Legge, liberandosi della duplice colpa d’essere scrittore e per giunta scapolo. Gli «sforzi sovraumani» di contrarre matrimonio[30],- che lo estenueranno tra fidanzamenti e rotture per ben cinque anni, minando ulteriormente la sua incerta salute – cozza subito con la suprema esigenza dell’opera, che richiede una dedizione totale ed esclusiva. Se il lavoro d’ufficio lo affligge oltremisura, costringendolo a scrivere di notte, figurarsi la convivenza forzata a due. Si aggiunga a ciò, la totale incomprensione di Felice nei confronti della sua scrittura.
Una volta mi hai scritto che vorresti starmi vicino mentre scrivo, pensa però che non potrei scrivere… Scrivere significa aprirsi fino all’eccesso… Perciò quando si scrive non si può mai essere abbastanza soli, quando si scrive non si può mai avere abbastanza silenzio intorno, la notte è ancora troppo poco notte. Perciò non si può mai avere a disposizione abbastanza tempo perché le vie sono lunghe ed è facile deviare…[31]
Dopo averla faticosamente rimuginata per tutta una settimana, il 16 giugno 1913 Kafka invia a Felice la più insolita e stravagante proposta di matrimonio mai avanzata. Vi enumera tutta una serie d’ostacoli e difficoltà che, da parte sua, renderebbero impossibile la loro vita in comune, chiedendole di pronunciarsi in proposito su ognuna di esse. Le preannuncia una sicura infelicità, a causa del suo carattere egoista, freddo, «chiuso, taciturno, poco socievole, malcontento». Il rapporto d’estraneità che intrattiene con i membri della propria famiglia, aggiunge, è una sicura garanzia circa l’incapacità di fondarne una in futuro. Armato di uno scetticismo implacabile, Kafka si difende strenuamente, mettendo a fuoco con straordinaria lucidità «tutto ciò che è pro e contro il mio matrimonio»[32]. Dall’unione con Felice, spera di ricevere una «forza di resistenza» che dovrebbe aiutarlo a sopportare le vicissitudini della vita, le ingiurie del tempo, a cui non riesce a far fronte da solo, per via di una complessione debole e d’una chiaroveggenza che lo frena ad ogni passo. Passando all’altro corno della scelta, le ragioni del no appaiono molto più persuasive. Innanzi tutto c’è l’aspetto umoristico del matrimonio borghese, le invettive di Grillparzer, le derisioni di Flaubert. Come se non bastasse, si aggiunga a ciò l’esempio negativo dei genitori, che suscita in lui una repulsione fisica: «la vista del letto matrimoniale a casa mia, delle lenzuola usate, delle camicie da notte piegate accuratamente, mi può sconvolgere fino al vomito…»[33]. E poi, tutto il corollario degradante della vita di relazione: le conversazioni insipide, le visite ai parenti, la scelta della casa e dei mobili… Insomma ce n’è di che tediarsi per l’eternità.
Tutto ciò che non è letteratura mi annoia e provoca il mio odio perché disturba o mi è d’inciampo, sia pure soltanto nella mia opinione. Per la vita di famiglia mi manca ogni sensibilità salvo, nel migliore dei casi, quella dell’osservatore. Non ho alcun senso di parentela, e considero le visite addirittura come atti di cattiveria contro di me.
Il matrimonio non può modificarmi come non può modificarmi l’ufficio [34].
L’argomento decisivo, tuttavia, Kafka lo riserva alla fine, lanciando uno dei suoi folgoranti paradossi. Il luogo comune è solito classificare la solitudine tra i motivi pro il matrimonio, lui ribalta il sillogismo e fa dell’impossibilità della solitudine un insormontabile argomento contro.
La paura dell’unione, del passare di là. Allora non sarò mai più solo…. [35]
L’aut-aut è inesorabile: matrimonio e convivenza da un lato, scrittura e solitudine dall’altro. Il dubbio tagliente kafkiano ha già deciso per lui. Del resto, soppesare i pro e i contro del matrimonio significa togliere l’ultimo velo di illusione che ne rende possibile la realizzazione, equivale a frantumare il letto nuziale prima che sia eretto[36]. Il disincanto è incompatibile con l’altare.
Contro ogni previsione Felice accetta la proposta di fidanzamento. Disarmato, nonostante il dispiegamento d’argomentazioni profuse, a Kafka non rimane che la ritirata. Felice non demorde ed invia a Praga un suo emissario, l’amica Grete Bloch, nel tentativo di riallacciare il rapporto. Kafka inizia con Grete un’intrigante liaison epistolaire parallela, non priva di ambiguità e complicità, che comunque gli darà la spinta per chiedere di nuovo la mano a Felice. Questa volta il tentativo arriva in porto. Il 1 giugno del 1914 a Berlino, in casa della famiglia Bauer, si svolge la cerimonia del fidanzamento ufficiale. Le angosce, i dilemmi morali che lo avevano tormentato per un intero anno, divennero orrore reale, come nel più agghiacciante dei suoi racconti.
6 giugno. Ritornato da Berlino. Venni legato come un delinquente. Se con catene vere mi avessero messo in un angolo con davanti i gendarmi e mi avessero lasciato guardare soltanto così, non sarebbe stato peggio. E questo fu il mio fidanzamento. E tutti si sforzavano di farmi vivere e, non riuscendo, di sopportarmi com’ero [37].
Kafka si sente soffocare, la prossimità del matrimonio lo atterrisce. Confessa le sue paure a Grete Bloch – anche lei del resto presente alla cerimonia – la quale, lettere alla mano, riferisce tutto a Felice. L’istruttoria può dirsi conclusa. Appena sei settimane dopo il fidanzamento, Kafka e famiglia vengono convocati d’urgenza a Berlino. «L’udienza», è fissata per il 12 luglio 1914, all’Askanischer Hof, il famoso «tribunale nell’albergo», come lo descriverà Kafka nei Diari [38]. In un’atmosfera sconvenientemente pubblica – oltre alle rispettive famiglie sono presenti, come testimoni di parte, Grete Bloch e Ernst Weiss – la requisitoria di Felice è inflessibile, addirittura «ostile». Kafka non controbatte, rinuncia alla difesa, accetta la condanna chiudendosi in un ostinato, caparbio silenzio. Come interpretare questa chiusura? È una forma di resistenza passiva di fronte ad un potere ingiusto che lo sovrasta e lo schiaccia, oppure è l’accettazione di una fine che, dopotutto, aveva cercato e persino provocato? Si sentiva forse accusatore e condannato ad un tempo? I giudici erano fantasmi, solo apparenza, il tribunale che lo accusava in realtà era quello interiore, la colpa di tutto era solo sua. Mentre sale al «patibolo, diabolico in tutta innocenza», di fronte ai genitori recita la lezione: «Non serbate un cattivo ricordo di me»[39]. Neanche l’umiliazione dell’esecuzione pubblica gli verrà risparmiata: «Come un cane», scriverà nel Processo. Nella bilancia esistenziale kafkiana, la condanna etica inflitta sul piano esteriore dal «tribunale umano», si traduce in una vittoria nel «mondo immenso» che portava dentro. Il demone della scrittura ottiene nuova linfa, si rianima… è salvo!
L’intera vicenda, a cominciare dal fidanzamento considerato alla stregua d’un arresto, fino alla successiva rottura, vissuta come una condanna in tribunale, fornisce a Kafka l’ispirazione per comporre Il processo (Der Prozess), la cui stesura inizia nell’agosto del 1914 e si protrarrà, più o meno ininterrottamente, per i successivi cinque mesi [40]. Vivendo da solo, nella casa messa a disposizione dalla sorella maggiore, senza vedere nessuno, Kafka, a dispetto della rottura, si trova in una condizione ideale e trascorre uno dei periodi più fecondi della sua attività di scrittore.
Nel gennaio 1915 vede di nuovo Felice a Bodenbach. L’incontro si rivelerà, per certi versi, decisivo. Il resoconto è impietoso. La lucidità con cui era solito esaminare se stesso, si rivolge ora, inesorabile, all’immagine di lei, demolendo il suo mondo. L’estraneità di Felice, l’ideale di famiglia borghese, da lei caldeggiata, gli appaiono finalmente in tutto il loro orrore, arrivando a considerarle addirittura nocive per il suo lavoro. Matura l’amara consapevolezza che il suo destino è di rimanere solo, gli orologi delle loro vite non potranno mai sincronizzarsi.
24 gennaio. Con F. a Bodenbach. Ritengo impossibile che un giorno ci si unisca, ma non oso dirlo né a lei né nel momento decisivo a me stesso […] Ognuno dice fra sé che l’altro è inflessibile e spietato. Io non rinuncio alla mia esigenza di vivere in modo fantastico soltanto per il mio lavoro, lei, sorda a tutte le mute preghiere, vuole la mediocrità, la casa comoda, l’interessamento alla fabbrica, il vitto abbondante, il sonno alle undici di sera in poi, la camera riscaldata, e punta il mio orologio che da un trimestre anticipa di un’ora e mezzo sul minuto giusto [41].
Eppure, anche questa volta Kafka ritornerà sui propri passi. Nel luglio 1916 trascorre le vacanze con Felice a Marienbad, furono giorni «belli e leggeri». L’incanto del luogo gli fa credere al miracolo d’una vita in comune. Trovano un accordo: terminata la guerra progettano di sistemarsi in un piccolo appartamento nei sobborghi di Berlino, pensa addirittura di abbandonare il lavoro. Sogna la pace, la possibilità di una vita…
Le lettere si fanno più rade, tra alti e bassi il rapporto si protrae per un altro anno. Nel luglio del 1917 ha luogo il secondo fidanzamento ufficiale, con le visite di rito a parenti ed amici. Ma l’idillio è di breve durata. Nella seconda metà del mese, durante una visita alla sorella di Felice in Ungheria, scoppia l’ennesima crisi. Kafka lascia Felice a Budapest e torna da solo a Praga, passando per Vienna. Le scrive due lettere, «sorprendenti ma mostruose»[42], andate perdute.
Nella notte tra il 9 e il 10 agosto 1917 Kafka è colto da emottisi polmonare. La diagnosi è infausta: tubercolosi all’apice di ambedue i polmoni. La sventura della malattia polmonare non lo sorprende, è solo un simbolo, «lo straripare della malattia mentale» [43],«la cui infiammazione si chiama Felice»[44]. La sua fervida fantasia, immagina un complotto fisiologico tra il cervello ed i polmoni, i quali, esasperati dallo sfibrante fidanzamento, tramando alle sue spalle, hanno deciso per lui [45]. Vi scorge il fallimento generale come uomo, ma la disfatta esistenziale è anche una liberazione, l’agognato riposo del vinto. Finalmente, di fronte al mondo, Kafka può svincolarsi dalla morsa del matrimonio, congedarsi dal lavoro, allontanarsi dalla famiglia. In dicembre scioglie definitivamente il fidanzamento con Felice Bauer. La tensione accumulata negli ultimi cinque anni lo gettano nello sconforto, al punto da scoppiare in lacrime nell’ufficio dell’amico Max Brod. «Ognuno ama l’altro come quest’altro è,» – aveva osservato un giorno a proposito del rapporto con Felice – «ma così com’è crede di non poter vivere con lui»[46].
Malgrado il decorso della malattia e lo scacco subito, sebbene senta scorrere inesorabilmente la sua vita verso la solitudine, «come l’acqua al mare», non si rassegna alla condizione di scapolo. Nel 1919 si fidanza con Julie Whoryzek, ma i genitori, ancora una volta, gli tarpano le ali. Emulando la figura paterna protagonista del La condanna, Hermann Kafka disprezza le umili condizioni della futura sposa, mortifica ferocemente il figlio per aver perso la testa dietro una camicetta slacciata, suggerendogli di recarsi al bordello piuttosto che sposare “la prima venuta“. La madre, concorda in silenzio col marito. Kafka, ferito nell’intimo, scrive una lettera al padre, che non consegnerà mai, in cui analizza la propria condizione di figlio infelice, cresciuto all’ombra minacciosa del genitore. Comprende quanto l’educazione autoritaria e castrante del padre sia stata decisiva nella formazione del suo carattere, debole e vacillante, al pari della sua costituzione fisica. Il matrimonio sarebbe stata certamente un’occasione d’indipendenza, d’autonomia e d’integrazione sociale. Ma era anche il terreno etico nel quale il padre eccelleva, in cui si era socialmente realizzato, poiché in possesso di tutte quelle caratteristiche necessarie per mantenere e guidare una famiglia: «forza e disprezzo del prossimo, buona salute e una certa mancanza di misura, eloquenza e inettitudine, sicurezza di sé e incontentabilità verso tutti gli altri, senso di superiorità di fronte al mondo e tirannia, conoscenza degli uomini e diffidenza verso la maggior parte di essi; e poi anche virtù senza difetti come operosità, tenacia, presenza di spirito, intrepidezza…»[47] tutte qualità di cui lui, il figlio, era naturalmente sprovvisto, o quasi.
Kafka patisce la sudditanza psicologica che, introiettata, gli provocherà un macerante senso di colpa, un misto di venerazione e repulsione verso quel gigante che lo sovrasta e sistematicamente demolisce in lui ogni tentativo d’emancipazione e di crescita.
Talvolta mi par di vedere spiegata una carta della terra mentre Tu vi sei disteso sopra trasversalmente. Allora ho l’impressione che a me rimangano per viverci solo le regioni che Tu non copri o che sono fuori della Tua portata. Secondo l’idea che mi sono fatto della Tua grandezza, le regioni sono poche e non molto gradevoli, e il matrimonio non ne fa parte [48].
Lo spazio della scrittura, in questo senso, diventa l’unico territorio affrancato dall’imperialismo paterno in cui Kafka trova rifugio, un tentativo disperato per emanciparsi da un potere totalitario che soffoca la sua fragile libertà.
- Il profumo di Canaan
Naufragato pubblicamente il secondo tentativo di fidanzamento, Kafka si rifugia in un’altra relazione epistolare, intima, con la giovane scrittrice boema Milena Jesenskà-Pollak, traduttrice dei suoi primi racconti. Siamo nel 1920, lei è giovane – «una fanciulla» – fresca, bella, coraggiosa, «un fuoco vivo» come non ne ha mai visti, con un lampo negli occhi che «abbatte il dolore del mondo»[49]. Lui, alto, scarno, con i capelli imbiancati dalle notti insonni. Dal profondo della sua angoscia non osa neanche porgerle la mano, quella mano «sudicia, convulsa, unghiuta, incerta e tremula, cocente e fredda[50]. Nell’ottobre del 1921 affida a Milena i suoi Diari, consegnandole, di fatto, le chiavi della sua anima. Kafka vede in lei la donna che può salvarlo, in grado di comprendere come nessun altra le sue paure, aiutandolo a sopportare l’orrore di vivere. «Tu mi appartieni, anche se non dovessi vederti mai più», le scrive disperato il 12 giugno 1920. Sentirla al suo fianco «vorrebbe dire essere sostenuto da ogni parte, avere Dio»[51].
Sebbene infelicemente sposata con Ernst Pollak, uomo colto e intelligente, Milena subisce troppo il fascino del marito per abbandonarlo, nonostante i continui tradimenti di lui. Dopo i primi ardenti, appassionati incontri, le visite si fanno fiacche, «un po’ forzate, come le visite agli ammalati»[52]. Consapevole dell’indissolubilità del matrimonio convenzionale di Milena, Kafka s’impone di non rivederla più, e prega Max Brod d’intercedere affinché lei non torni a Praga a trovarlo. Anche l’amore per Milena, paragonato da Kafka ad un coltello con il quale fruga dentro se stesso, si affievolisce a poco a poco, l’immagine di lei sbiadisce, fino a scomparire nella nebbia del malinteso universale. Tutta colpa di quelle maledette lettere, a cui affidiamo così facilmente il nostro destino, mentre in realtà alimentano solo illusioni e incomprensioni. «Questo incrociarsi di lettere deve cessare, Milena, ci fanno impazzire, non si ricorda che cosa si è scritto, a che cosa si riceve risposta e, comunque sia, si trema sempre».
La disillusione lo fa sprofondare nella rassegnazione. Il mondo stesso perde consistenza, tutto appare impalpabile, evanescente come in sogno: «la famiglia, l’ufficio, gli amici, la strada, tutto fantasia, lontana o vicina, la donna». Si sente completamente solo, abbandonato, prigioniero della sua solitudine: «La verità più prossima è che tu premi la testa contro il muro d’una cella senza finestre e senza porte»[53]. Matura amare riflessioni sulla sua condizione, la distanza che lo separa dagli altri gli appare incolmabile. Ritornano gli spettri bestiali de La Metamorfosi…
Che cosa ti lega a questi corpi delimitati, parlanti, lampeggianti dagli occhi, più strettamente che a qualunque altra cosa, diciamo, al portapenne che hai in mano? Forse il fatto che sei della loro specie? Ma non sei della loro specie, perché appunto hai formulato questa domanda. La solida delimitazione dei corpi umani è spaventosa [54].
Invidia «tutte le coppie». La felicità coniugale, «nella sua infinita molteplicità», diventa una terra inaccessibile ed insopportabile ad un tempo. Escluso da questo mondo, sente di non poter appartenere a nessun altro.
Pur vivendo da quarant’anni nel deserto, «senza antenati, senza nozze, senza discendenti», è ancora attratto dal profumo di Canaan – la terra biblica della promessa, in cui la Legge esteriore si concilia con quella interiore – «con una voglia selvaggia di antenati, di nozze e di discendenti» [55]. Come per Mosè la possibilità di vedere Canaan prima di morire «è inverosimile», così K., l’agrimensore, lo straniero senza radici, si aggira errabondo intorno al Castello senza riuscire a penetrarvi e a soggiornarvi. Non è la brevità della vita ad impedirlo, ma il fatto di essere una vita umana, e pertanto imperfetta, incompiuta nella sua essenza[56].
Proprio dopo aver perso ogni speranza di approdare a quella terra inesplorata che albergava, sotto forma di speranza, nel profondo del suo cuore, Kafka torna a sentirne l’incantevole profumo. Accade nel luglio 1923, durante una vacanza a Müritz sul Baltico, in compagnia della sorella Elli e dei nipoti. Qui, nella colonia estiva della Casa popolare ebraica di Berlino, incontra Dora Dymant, che lavora in cucina sventrando pesci. Abituato a riconoscere la bellezza anche quando è nascosta sotto le più umili sembianze, Kafka la sorprende: «Che lavoro sanguinoso per mani così delicate!» Dora è una giovane ebrea polacca, discendente di una famiglia chassidica. Lo studio dell’ebraico, praticato da entrambi, fa scattare subito l’intesa. Sognano la Palestina, dove progettano di aprire un ristorante: lei tra i fornelli, lui come cameriere. Ma è solo una fantasia, tipica d’un incurabile «convinto di non lasciare mai il letto» [57]. Molto più realistica è l’eventualità di vivere insieme a Berlino, una sua vecchia idea sin dai tempi di Felice.
L’irresistibile profumo di Canaan, infonde a Kafka una vitalità insperata. «Con l’ultimo resto di energia ancora disponibile», anzi, pressoché «pronto alla sepoltura»[58], nel settembre del 1923 parte per Berlino. Affrancato dalla famiglia, svincolato dal lavoro, finalmente Kafka si sente felice, libero di scegliere la propria vita, lontano dai fantasmi della solitudine. Il rigido inverno berlinese, la crisi economica, l’inflazione che piega la Germania, accelerano il decorso della malattia. Le derrate e il denaro scarseggiano, Kafka riceve aiuti alimentari dalla famiglia.
Nel marzo 1924 le condizioni di salute si aggravano ulteriormente. Kafka è trasportato d’urgenza a Praga, in casa dei genitori. Per fornirgli cure più adeguate viene trasferito in Austria, prima al sanatorio Wienerwald, da lì in una clinica viennese, infine al sanatorio di Kierling, assistito amorevolmente da Dora e dall’amico Robert Klopstcok, un giovane studioso di medicina. A dispetto del deperimento fisico – la tubercolosi ormai gli blocca la laringe – Kafka si aggrappa ancora alla vita: ironizza, corregge le bozze dei suoi racconti, si riconcilia con i genitori e… fa progetti di nozze. Scrive al padre di Dora, un ebreo praticante, chiedendo di sposare la figlia. Per tutta risposta ottiene un secco rifiuto. Viene meno anche l’ultima speranza: per lui la porta della Legge rimane sbarrata, questa volta definitivamente.
All’amico Max Brod un giorno aveva confidato che sul letto di morte sarebbe stato contento, purché gli fossero risparmiate inutili sofferenze. Non è la morte a fargli paura – «una fine apparente» dopotutto – ma la tortura del dolore sulla carne ancora viva, ciò «è un brutto segno» [59]. Al medico che sul letto di morte gli rifiuta la morfina, lancia il più straziante dei suoi paradossi: «Mi uccida altrimenti è un assassino!».
La sua presenza al mondo si è andata sempre più affievolendo, Kafka arriva a pesare appena 49 chili. Come lo scapolo infelice di un suo racconto, «morto già di mille morti», trascina con discrezione il suo esile corpo, accontentandosi di uno spazio vitale sempre più piccolo. Quando muore, «la bara è giusto ciò che gli conviene»…In una lettera a Milena, un giorno aveva scritto:
Uno è stato mandato fuori come colomba biblica, non ha trovato niente di verde e s’infila di nuovo nell’arca buia [60].
MASSIMO CARLONI
[1] Lettera a George Sand del 27 marzo 1875.
[2] Franz Kafka, Diari, 6 agosto 1914, a cura di Ervino Pocar, Mondadori, Milano, 1996, p. 469.
[3] Diari, 25 settembre 1917, cit., p. 572.
[4] Diari, 25 ottobre 1921, cit., p. 585
[5] Kafka metterà a fuoco questa lotta interiore in una lettera a Felice Bauer del novembre 1914, dove parla di due persone che si combattono in lui. L’una, la «buona», vuole perseguire la vita etica, attraverso il matrimonio, il lavoro e la discendenza; mentre l’altra, la «cattiva», egoista e senza scrupoli, s’interessa solo alla scrittura, sul cui altare, spietatamente, è disposta a sacrificare tutto, persino l’amicizia e l’amore.
[6] Diari, 25 ottobre 1921, cit., pp. 584-585.
[7] Ibidem.
[8] Diari, 24 gennaio 1922, cit., p. 598.
[9] Diari, 12 febbraio 1922, cit., p. 607.
[10] Franz Kafka, Lettere a Milena, a cura di Willy Haas, trad. Ervino Pocar, Mondatori, Milano, 1979, p. 186.
[11] Diari, 6 agosto 1914, cit., p. 469.
[12] Diari, 23 settembre 1912, cit., p. 357.
[13] Diari, 11 febbraio 1913, cit., p. 360.
[14] Diari, 3 gennaio 1912, cit., p. 300.
[15] Diari, 31 luglio 1914, cit., p. 467.
[16] Un digiunatore, in Franza Kafka, Racconti, Bur, Milano, 1996, p. 203. La pantera dal «corpo nobile», «attrezzato per dilaniare», a differenza del digiunatore, sembrava fatto apposta per imporsi nella battaglia dell’esistenza. Dalle sue fauci infatti, prorompeva una «gioia di vivere» che conquistò subito gli spettatori. Tale racconto contiene elementi fortemente autobiografici. È noto che Kafka adottava un regime dietetico di tipo vegetariano, e che inoltre si è sempre vergognato a causa della magrezza del suo corpo, troppo debole, secondo lui, per affrontare le vicissitudini della vita, appena sufficiente per sostenere il suo cappotto d’inverno! Cfr. Lettere a Milena, cit., pp. 217-218.
[17] Diari, 28 marzo 1911, cit., p. 151.
[18] Diari, 21 agosto 1913, cit., p. 380.
[19] Cit. in Frammenti da quaderni e fogli sparsi, p. 374, in Franz Kafka, Aforismi e frammenti, a cura di Giulio Schiavoni, trad. di Elena Franchetti, ,Bur, Milano, 2004, p. 424.
[20] «Sono un uomo-penna. Sento attraverso di essa, per causa sua, in rapporto a essa, e molto di più con essa.», lettera a Louise Colet del 31 gennaio del 1952.
[21] Diari, 6 giugno 1912, cit., pp. 346-347.
[22] «Essi sono nel vero», disse, riferendosi alle cure amorose di una madre per le figlie. Testimonianza raccolta dalla nipote Caroline Commanville in Souvenirs sur Gustave Flaubert, Paris, 1895, p. 90. Secondo Max Brod, questa frase impressionò molto Kafka, che amava ricordarla spesso.
[23] Cfr. lettera di Milena Jesenskà a Max Brod, cit. in Max Brod, Kafka, trad. di Ervino Pocar, Mondatori, 1978.
[24] Diari, 6 giugno 1912, cit., p. 300.
[25] Lettera a Felice Bauer 14 gennaio 1913. Situazione molto simile a quella descritta da Flaubert in una lettera a Louis Colet nel 1853: «Mi corico e mi alzo tardissimo. Il giorno La sera cala presto, vivo alla luce dei candelabri o piuttosto della mia lampada. Non odo né un passo né una voce umana, non so cosa fanno i domestici, i quali mi servono come delle ombre. Ceno col mio cane: fumo molto, mi riscaldo tanto e lavoro forte: è splendido!»
[26] cit. Lettera a Felice Bauer del 7 luglio. Scrive nei Diari, 7 febbraio 1915, cit., p. 507: «A un certo livello della conoscenza di se stessi, e quando ci siano circostanze favorevoli all’osservazione, avverrà regolarmente che uno si veda abominevole. Ogni misura del bene – per quanto le opinioni in proposito siano diverse – sembrerà troppo grande. Si comprenderà che non siamo se non una topaia di miserabili riserve mentali».
[27] Diari, 6 agosto 1914, cit., p. 469.
[28] In una lettera a Milena Jesenska, Kafka si paragona ad una bestia silvestre che vive in un lurido fosso, Op. cit., pp. 198-199. Inoltre è probabile che Kafka, quale assiduo lettore della corrispondenza di Flaubert, non ignorasse il passo in cui questi paragonava la vita segregata dello scrittore al lavoro cieco e ostinato della talpa: «Bisogna rinchiudersi e continuare a testa bassa nella propria opera come una talpa», Lettera a Louise Colet, del 22 settembre, 1853.
[29] Diari, 20 agosto 1912, p. 350.
[30] Lettera al padre, cit., p. 218.
[31] Lettera a Felice del 14 gennaio 1913 in Franz Kafka, Lettere a Felice, a cura di Ervino Pocar, Mondatori, Milano, 2001, pp. 233-234.
[32] Diari, 21 luglio 1914, p. 373. Nei Frammenti da quaderni e fogli sparsi leggiamo: «Scarsa forza vitale, educazione ambigua e celibato producono lo scettico; ma non necessariamente: per mettere in salvo il loro scetticismo ci sono scettici che si sposano, almeno idealmente, e diventano credenti», in Franz Kafka, Aforismi e frammenti, cit., p. 424.
[33] Lettera a Felice, 18 ottobre 1916, cit., p. 776.
[34] Diari, 21 agosto 1913, cit., p. 380-381
[35] Diari, 21 luglio 1913, cit., p. 374.
[36] Diari, 31 gennaio 1922, cit., p. 603.
[37] Diari, 6 giugno 1914, cit., p. 436.
[38] Diari, 23 luglio 1914, cit.,p. 457.
[39] Diari, 27 luglio 1914, cit., p. 458.
[40] Questa almeno è la tesi, ampiamente condivisa dallo scrivente, sostenuta da Elias Canetti nel libro L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, traduzione di Alice Ceresa, Mondadori, Milano, 1980.
[41] Diari, 24 gennaio 1915, cit., p. 504.
[42] Lettera a Felice, 9 settembre 1917, op. cit., p. 802.
[43] Lettere a Milena, cit., p. 60.
[44] Diari, 15 settembre 1917, cit., p. 568.
[45] «Ecco, il cervello non riusciva più a tollerare le preoccupazione e i dolori che gli erano imposti. Diceva: ‘Non ne posso più; ma se c’è ancora qualcuno cui importi di conservare il totale, mi tolga un po’ del mio peso, e si potrà campare ancora un tantino’. Allora si fecero avanti i polmoni che, tanto, non avevano molto da perdere. Queste trattative tra il cervello e i polmoni, che si svolgevano a mia insaputa, devono essere state spaventevoli», in Lettere a Milena, cit., p. 30.
[46] Diari, 24 gennaio 1915, cit., p. 506.
[47] Franz Kafka, Lettera al padre in Id., Confessioni e immagini, con una prefazione di Elemire Zolla, trad. di Italo A. Chiusano, Anita Rho e Gisella Tarizzo, A. Mondadori, Milano 1960, p. 231.
[48] Ivi, pp. 229-230.
[49] Lettere a Milena, cit., p. 54.
[50] Lettere a Milena, cit., p. 77.
[51] Diari, 4 maggio 1915, cit., p. 518. Nel suo necrologio di Franz Kakfa, Milena lo descrive così: «Era timido, timoroso, dolce e buono, ma scrisse libri crudeli e dolorosi. Era lungimirante, troppo saggio per poter vivere e troppo debole per combattere: ma la sua debolezza era quella degli uomini nobili che non sanno misurarsi con la paura, i malintesi, la mancanza d’amore e le menzogne intellettuali. Aveva una conoscenza degli uomini che è data soltanto a quelli che vivono in solitudine…» cit. in Milena Jesenskà, Necrologio di Franz Kafka, pubblicato nella rivista Narodny listy il 6 giugno 1924.
[52] Diari, 19 gennaio 1922, cit., p. 592.
[53] Diari, 21 ottobre 1921, cit., p. 584.
[54] Diari, 30 ottobre 1921, cit., p. 586.
[55] Diari, 21 gennaio 1922, cit., p. 594.
[56] Diari, 19 gennaio 1921, cit., pp. 582-83.
[57] Lettere a Milena, cit., p. 234.
[58] Ibidem
[59] Ivi, p. 208.
[60] Ibidem
* Massimo Carloni, studi in scienze politiche e filosofia all’Università di Urbino. Ha dedicato diversi studi a Cioran, pubblicati in volumi collettanei e in riviste internazionali. Ha realizzato il progetto editoriale per la traduzione italiana del libro di Friedgard Thoma, Per nulla al mondo. Un amore di Cioran (éd. l’Orecchio di Van Gogh, 2009). Libri di prossima pubblicazione: edizione italiana delle lettere di Cioran al fratello (con H.- C. Cicortaş, Archinto, Milano, 2014), a Wolfgang Kraus (con Pierpaolo Trillini, Bietti, Milano, 2014), e la corrispondenza Eliade-Cioran (con H.- C. Cicortaş, 2015).
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