> di Daniele Baron
1. Arthur Rimbaud – il contesto storico-letterario de “La lettera del Veggente”
Io è un altro. Je est un autre.
Questa formula ricorre in due lettere della Corrispondenza di Arthur Rimbaud: nella lettera del maggio 1871 a Georges Izambard – professore di Rimbaud al collegio, ma anche amico e confidente che lo iniziò alla letteratura; ed in quella immediatamente successiva a Paul Demeny amico di Izambard, a sua volta poeta, risalente al 15 maggio 1871. In esse, inoltre, viene delineata quasi con le stesse parole la poetica che ha guidato (in alcune poesie già composte) e poi guiderà (in Une saison en enfer e ancor di più nelle Illuminations) la fulminea carriera come poeta di Rimbaud: una poetica che ha segnato in maniera decisiva lo sviluppo successivo della letteratura francese e non solo. Soprattutto la lettera a Demeny (passata alla storia come “La lettera del Veggente”), più lunga e più dettagliata, sembra configurarsi come un vero e proprio manifesto del suo fare poetico e come un elemento essenziale per la comprensione della sua creazione. Queste due lettere, dunque, spiccano per il fatto di esprimere in poche righe, con stile magnifico, il distillato del pensiero di Rimbaud.
Nel tempo si sono succedute innumerevoli letture e le ermeneutiche più eterogenee delle due lettere di Rimbaud, molti ed eccellenti ingegni si sono esercitati su questi testi e su questa formula in particolare. Per esempio, una delle più famose e rilevanti riprese della formula “Io è un altro” è quella di Jacques Lacan: lo psicanalista francese l’ha valorizzata nella sua personale rielaborazione dell’inconscio.
Lo scopo che mi sono posto in questa disamina è di comprendere, per quanto possibile fedelmente, in che senso Rimbaud scrive che l’Io è un altro e parallelamente di spiegare questo concetto, muovendo dai suoi scritti e guidato da una precedente autorevole ripresa (da parte di Jean-Paul Sartre ne La Transcendence de l’Ego).
Il mio intento è riuscire a chiarificare in che modo si possa predicare dell’Io l’altro; dimostrerò che l’essere della formula “Io è un altro” è comprensibile solo se tradotto in termini di divenire. Il mio discorso verterà su questioni ontologiche e fenomenologiche.
Per penetrare appieno nella formula Je est un autre occorre risalire al contesto in cui viene espressa da Rimbaud. Il Nostro si pone in contrapposizione alla concezione artistica corrente nell’ambiente letterario della sua epoca: le sue parole hanno il tono della sfida e del desiderio di cambiamento. Qual è l’avversario a cui Rimbaud getta il guanto? Ce lo dice lui esplicitamente: «la poesia soggettiva» ricercata da Izambard (A. Rimbaud, Opere, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1975, ristampa 2006, p. 449), la poesia dei Parnassiani e del secondo romanticismo, per la quale il poeta di Charleville passa da una iniziale ammirazione al distacco pressoché completo, che alla fine lo conduce fino alla satira ed al disprezzo (con importanti eccezioni, tra le altre, ad esempio, Verlaine).
Significativa a questo proposito è la vicenda dei suoi rapporti con il letterato e poeta Théodore de Banville, uno degli esponenti del movimento dei Parnassiani. Come attestato dalla lettera ossequiosa che nel maggio 1870 Rimbaud scrive a Banville, inizialmente egli mira addirittura con i suoi componimenti ad entrare «nell’ultima serie del Parnasse: un po’ il Credo dei poeti!» (Ibidem, p. 440) ed in fondo s’ispira a loro per i primi versi. Tuttavia, già nell’anno successivo, il 1871, sviluppa una poetica opposta, considera la poesia soggettiva «tremendamente insulsa» (Ibidem, p. 449) e giunge nel poema Ce Qu’on Dit Au Poète A Propos De Fleurs alla parodia sarcastica ed irriverente di Banville.
Emerge da questo esempio con tutta evidenza che il nemico a cui Rimbaud si rivolge nelle lettere sopraccitate è la poetica parnassiana, tutta incentrata sul soggetto e sull’esaltazione del rigore formale del verso; poetica che si fonda sulla celebre teoria de “l’arte per l’arte” per cui l’artista nella creazione deve avere come unico scopo la bellezza e rifuggire l’impegno sociale e politico.
Nella lettere a Izambard e a Demeny è evidente l’insofferenza di Rimbaud per questa teoria, tanto che la poetica lì tratteggiata sembra stagliarsi come l’opposto di quella parnassiana, come una risposta che, punto su punto, rovescia quella concezione.
Bisogna affiancare a queste considerazioni il fatto che nei giorni in cui Rimbaud scrive queste lettere si sta svolgendo l’esperienza rivoluzionaria de “La Comune di Parigi” (dal 18 marzo al 28 maggio 1871) che lo vede partecipe, se non con l’azione diretta (cosa che non è certa, poiché non documentata), quanto meno idealmente, con le parole: Rimbaud è un fervido sostenitore delle rivendicazioni sociali e democratiche espresse ed attuate dal rivolgimento popolare e dal governo della primavera del 1871. Allegata alla lettera a Demeny figura, ad esempio, la poesia Chant De Guerre Parisien, dedicata proprio a quell’evento.
In quel contesto variegato, in quei giorni convulsi, Rimbaud sente il bisogno di una poesia nuova o «poesia oggettiva» (Ibidem, p. 449), adeguata ai tempi che verranno – «questo avvenire (…) sarà materialista» (Ibidem, p. 456) – che si richiami alla poesia greca che ritmava l’azione o che sia addirittura “in avanti” (en avant) rispetto all’azione. A questo scopo il poeta si farà Veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi» (Ibidem, p. 454) attraversando ogni forma di sofferenza, di amore e follia per raggiungere l’ignoto. Per dare voce alle visioni raggiunte con questo balzo, il poeta dovrà trovare una lingua nuova che «sarà anima per l’anima, riassumendo tutto, profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia il pensiero e tira. Sarebbe compito del poeta definire la quantità d’ignoto che si ridesta nell’anima universale del suo tempo» (Ivi).
Nell’ottica di questo intento viene acclarandosi la nozione che è al centro del nostro interesse: “Io è un altro”; Rimbaud la usa allo scopo preciso di uscire dal soggettivismo, dall’idealismo, dal formalismo, nello sforzo, attraverso lo sregolarsi dei sensi, attraverso il confondersi delle normali distinzioni di senso tra parole, colori e suoni, di parlare una lingua nuova che sia adeguata ai tempi mutati.
E’ significativo che Rimbaud dica Je est e non Je suis, cioè “Io è” in terza persona e non “Io sono”: l’Io qui diventa un corpo estraneo alla coscienza, non sembra più essere a fondamento del pensiero, né poter avere uno statuto privilegiato. L’Io non pensa, è pensato, assiste allo schiudersi del pensiero come uno spettatore esterno, come un altro. E’ importante anche da un punto di vista filosofico questa svalutazione dell’Io come soggetto del pensiero, soprattutto in un territorio come quello francese con alle spalle la tradizione cartesiana.
Ascoltiamo direttamente le parole di Rimbaud.
Nella lettera a Georges Izambard:
«E’ falso dire: Io penso: si dovrebbe dire io sono pensato. – Scusi il gioco di parole. IO è un altro. Tanto peggio per il pezzo di legno che si ritrova violino, e Sprezzo agli incoscienti, che cavillano su ciò che ignorano completamente!» (Ibidem, p. 450).
Ancora più chiaramente in quella a Paul Demeny:
«Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua. Per me è evidente: assisto allo schiudersi del mio pensiero: lo osservo, lo ascolto: lancio una nota sull’archetto: la sinfonia fa il suo sommovimento in profondità, oppure d’un balzo è sulla scena.
Se i vecchi imbecilli non avessero trovato, del “me stesso”, soltanto il significato falso, non avremmo da spazzar via i milioni di scheletri che, da tempo infinito, hanno accumulato i prodotti della loro orba intelligenza, e se ne proclamano gli autori!» (Ibidem, p. 452).
Si percepisce bene in queste parole come l’Io sia del tutto impotente di fronte al pensiero, che è un flusso che esce spontaneo dalle profondità: i pensieri stessi sono improvvise emergenze di un fiume carsico che scorre senza essere visto.
Qui occorre abbandonare ogni stratificazione di significato che ci porterebbe a parlare di Io e di Altro in termini di persona, non perché ciò non sia possibile e lecito, ma perché l’interpretazione sarebbe secondaria e derivata; bisogna infatti intendere queste due espressioni come concetti collegati alla medesima coscienza che nel pensare è sia in-sé, cioè identica a sé stessa, sia altro da sé, cioè identica all’altro.
Ciò che rileviamo dall’analisi dei passi sopra riportati sono fondamentalmente tre cose: 1) l’Io non è soggetto, ma una specie di oggetto rispetto ai pensieri, una forma vuota a cui vengono associati i pensieri, che nascono indipendentemente da lui; 2) se l’Io non è consapevole di ciò, se l’Io pensa di essere Soggetto dei pensieri, scivola nell’incoscienza, insomma è altro da sé pensando di essere in-sé (Rimbaud usa l’immagine del pezzo di legno che si ritrova violino o dell’ottone che si risveglia tromba); 3) c’è un livello di consapevolezza, quello che ci fa dire: l’Io è un altro, che permette di smascherare l’alienazione dell’Io, permette di indicare gli incoscienti, i “dormienti” (potremmo anche dire) che «cavillano su ciò che ignorano», quelli che pensano che l’Io sia a fondamento del sapere.
[Fine prima parte – continua]
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14 gennaio 2013 alle 10:32
C’è un altro che non vedo che comanda
com’io comando a quelli che stan sotto
e mi comanda di assumere il comando
perché egli è stato innalzato.
Wilmo
24 gennaio 2013 alle 23:23
Grazie molte Wilmo per esserti soffermato qui e avere aggiunto questi versi sapienziali e significativi del rapporto con l’altro. Nelle parole che scrivi scorgo, ma correggimi se sbaglio, un’interpretazione dell’altro in termini religiosi, di modo che in tal senso l’altro è la trascendenza.
Un caro saluto
D.
19 febbraio 2013 alle 17:26
Caro Daniele.
Quando lungo la via che porta all’eterno ritorno dell’uguale ho visto questo segnale, non ho colto aspetti religiosi o trascendenti. C’era solo da tener fede ad un accordo con l’altro: l’eterno ritorno in cambio del mio andare, dove i passi son diventati impronte ed esse il tracciato della via.
Di quell’accordo, la prima formulazione di tanti anni fa che ricordo suona così:
IL PATTO
Mi pareva di poter fare quel patto/ ma dell’altro nome non conoscevo/ né immagini sapevo fingermi./ “Chiedo sia salva la strada di sasso/ nel sasso tracciata/ che alla mia casa conduce,/ il volto di mia moglie e la mia bambina,/ così preziosa ai miei occhi/ e cara al mio cuore”./ E tacqui per non chiedere ancora/ per non chiedere troppo./ Finché voce mi parve di udire:/ “Senza misura sono i sassi laggiù,/ e i volti e i corpi e passano. Perché proprio quelli dovrebbero restare?/ Son segni, son segni,/ trascorrono verso l’oblio.”/ “Ed io voglio che restino”, gridai,/ e mi pareva di avere voce potente/ atta al comando./ “In cambio ti darò ciò che vorrai,/ ancora luce che dagli occhi trascorre/ e suoni e danze di immagini/ e qui ancora per te cercherò./ Ma lì nel tuo libro/ che tutto raccoglie senza date né indirizzi/ segna per me questo giorno/ e le immagini qui del mio cuore”.
9 marzo 2013 alle 23:49
Grazie mille Wilmo per avere precisato la tua concezione e per avere riportato questo passo notevole.
E’ di particolare interesse poi per me il fatto che in questa interpretazione tu abbia visto l’eterno ritorno dell’uguale: questa espressione per me racchiude al massimo grado, in modo esemplare, quell’unione impossibile tra trascendenza ed immanenza che è il divenire.
Un caro saluto.
D.
16 aprile 2013 alle 15:19
Caro Daniele.
Una crepa si è aperta nell’ “unione impossibile tra trascendenza ed
immanenza che è il divenire”, e il post “Essere e mondo e ciò che li
separa” http://wilmoboraso.wordpress.com/, la mette in luce, assieme a ciò che li collega.
Forse si potrà dire di più e meglio.
Comunque, l’avventura è cominciata.
Un cordiale saluto
Wilmo
24 gennaio 2013 alle 14:24
Illuminante :)
Grazie
24 gennaio 2013 alle 23:27
Grazie a te Pink Jane per la tua lettura.
Sapere che ciò che scrivo suscita interesse è una giustificazione al mio scrivere, perciò ti sono grato per il tuo apprezzamento.
Un caro saluto.
D.
8 marzo 2013 alle 19:25
C’è un nesso tra il “Pensiero” che Rimbaud riesce ad identificare rispetto all’IO come “altro da sé” e, ad esempio, l’Orfeo rilkiano e il Demone di Kipling?
Interessante articolo, grazie.
9 marzo 2013 alle 23:56
Grazie per la lettura e per questa interessante suggestione.
La risposta è affermativa senz’altro, secondo me. In ogni forma di personificazione presente nella creazione, si cerca di dare voce, carne, forza, a quell’altro che abita il creatore.
Si tratta di personificare l’impersonale che ci abita.
C’è sempre un alter-ego che parla al posto del creatore: questo è il segreto della creazione: costitutiva alter-azione, azione dell’altro nello stesso.
D.
28 agosto 2015 alle 17:13
Spiegazione chiara e efficace. Grazie!
28 agosto 2015 alle 21:16
Grazie Elena per la lettura e per il commento di apprezzamento.
Daniele