> di Daniele Baron
2. Jean-Paul Sartre – L’Io trascendente la coscienza
Jean-Paul Sartre riprende la formula di Rimbaud “Je est un autre” ne La Transcendence de l’Ego. Pur tenendo conto della diversità di linguaggio e di ambito, si può affermare che Sartre qui elabora una concezione particolare della coscienza e del campo trascendentale che sembra collimare con l’intuizione di Rimbaud.
Premetto, in ogni caso, che la riproposizione della formula avviene solo in un punto della “Conclusione” di questo libro e, se consideriamo l’opera nel suo complesso, il riferimento è marginale. L’opera di Sartre, pubblicata nel 1936 nella rivista “Recherches philosophiques”, oltre che segnare il suo esordio filosofico ufficiale, rientra nell’ambito dei suoi studi sulla coscienza trascendentale a partire dalla fenomenologia di Husserl. A La Transcendence de l’Ego deve essere affiancato un altro saggio molto breve, scritto parallelamente, ma pubblicato solo in seguito (nel 1939), vale a dire Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité.
Entrambi sono il frutto della sua elaborazione personale delle dottrine di Husserl e sono stati scritti durante un viaggio-studio a Berlino nel 1933-34. Il suo intento è di radicalizzare alcune nozioni della filosofia del pensatore tedesco sulla coscienza trascendentale. Il lavoro sulla fenomenologia proseguirà poi con i suoi studi sull’immaginazione e sull’immaginario.
Differenti sono gli interessi di Sartre, più prettamente filosofici ed il riferimento a Rimbaud si contretizza nel finale dell’opera, solo en passant.
Tuttavia, solo a prima vista. Io credo, infatti, che un legame di analogia ben più profondo possa essere stabilito a partire dalla formula “Io è un altro” tra le posizioni di Sartre e di Rimbaud.
Il punto di partenza di questi due scritti di Sartre è il cogito preriflessivo, un assoluto non sostanziale, che è cogito, coscienza, ma non è riflessivo, è pre-riflessivo: precede letteralmente la riflessione, vale a dire non pone teticamente sé stesso. Come scriverà poi Sartre con una invenzione grafica efficace ne L’être et le néant questo tipo di cogito è coscienza di qualche cosa, un oggetto nel mondo, ad esempio la penna, il tavolo, e coscienza (di) sé. Il tra parentesi nel “(di) sé” sta a significare che il cogito non pone ancora sé stesso come oggetto, ma che è consapevole di sé nel momento in cui è cosciente di qualche cosa (un oggetto nel mondo) senza porsi teticamente.
Questo tipo di coscienza è senza Io: non ne ha alcun bisogno infatti per porsi in quanto tale, vale a dire come coscienza del mondo e come come coscienza (di) sé. L’Io si costituisce solo in seconda istanza.
Sartre ne La Transcendence de l’Ego, come dice il titolo stesso dell’opera, vuole dimostrare «l’Ego non è né formalmente, né materialmente nella coscienza: è fuori, nel mondo; è un essere del mondo come l’Ego dell’altro» (J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011, p. 26).
L’Ego pertanto è trascendente la coscienza e per questo motivo si può attuare l’epoché, la sospensione del giudizio, nei suoi confronti, così come Husserl la attua per gli altri oggetti del mondo. L’Ego, infatti, pur essendo reale e non ipotetico, come ogni cosa che trascenda la coscienza è incerto e può essere revocato in dubbio. Come abbiamo già accennato, in seguito alla messa tra parentesi del mondo e dell’Ego, pertanto, rimane come assolutamente primo ed indubitabile il cogito preriflessivo o irriflesso, che è coscienza posizionale dell’oggetto e coscienza non posizionale (non tetica) di sé. Sartre fa una importante precisazione: la coscienza preriflessiva ed assoluta, essendo senza Io, è una coscienza impersonale.
«Possiamo dunque formulare la nostra tesi: la coscienza trascendentale è una spontaneità impersonale. Essa si determina all’esistenza di ogni istante, senza che si possa concepire niente prima di essa. Ogni istante della nostra vita cosciente ci rivela quindi una creazione ex nihilo» (Ibidem, p. 90).
L’Ego (in questa nozione rientrano, nonostante le debite distinzioni, anche il Cogito di Cartesio, l’Io penso di Kant ed il Me degli psicologi) compare solo al livello della riflessione impura (che Sartre distingue da quella pura), come qualcosa di costituito, come la totalità concreta degli stati psichici e delle azioni di cui è supporto; compare come il risultato di una operazione riflessiva, dunque come una coscienza di secondo grado, essendo la coscienza impersonale una coscienza di primo grado. In tal modo, l’Ego è un esistente trascendente la coscienza e viene colto con una intuizione inadeguata. Ecco perché può essere revocato in dubbio e sottoposto ad epoché.
La riflessione impura si compone di due elementi: la coscienza riflettente e quella riflessa e si concretizza nel dirigersi da parte della coscienza riflettente su quella riflessa. La coscienza riflettente è a sua volta irriflessa, senza Io. L’Ego compare pertanto solo dietro la coscienza riflessa attraverso un atto irriflesso di riflessione senza Io (di una coscienza riflettente) che si dirige su di essa. È, dunque, la coscienza irriflessa impersonale che nella sua unità immediata rende possibile l’Ego e non viceversa. Da qui risulta con tutta evidenza che l’Ego e l’Io penso riguardano solo uno dei modi, quello riflessivo-conoscitivo, di questa coscienza trascendentale.
Espellendo l’Ego dalla coscienza, Sartre compie una purificazione del campo trascendentale, poiché nulla è più in esso, ma nondimeno esso rende possibile tutto, tutto si dà ad esso.
Per questo, secondo Sartre, la posizione di Husserl, nel passaggio dalle Logische Untersuchungen a Ideen, I e Cartesianische Meditationen, è scivolata verso l’idealismo ed il solipsismo, perché ha introdotto un Io trascendentale nella coscienza con la funzione di dare unità ai vissuti della coscienza. Per Sartre questa introduzione dell’Io nella coscienza come suo elemento costitutivo è non solo inutile, ma anche nociva, perché infiltra nella trasparenza o traslucidità della coscienza un nucleo d’opacità inintellegibile. Con questa operazione, inoltre, Husserl non sarebbe coerente con l’intuizione fondamentale dell’intenzionalità della coscienza; la coscienza intenzionale non ha affatto bisogno per Sartre d’un Io trascendentale, perché è già di per sé un’unità immediata.
Veniamo dunque al punto in cui Sartre richiama direttamente a Rimbaud:
«L’atteggiamento riflessivo è espresso correttamente da questa famosa frase di Rimbaud (nella Lettera di un veggente): “Io è un altro”. Il contesto prova che egli ha voluto dire che la spontaneità delle coscienze non potrebbe emanare da un Io, essa va verso l’Io, lo raggiunge, lo lascia intravedere sotto il suo limpido spessore, ma si dà in primo luogo come spontaneità individuata e impersonale. La tesi comunemente accettata, secondo la quale i nostri pensieri scaturirebbero da un inconscio impersonale e si “personalizzarebbero” divenendo coscienti, ci sembra una interpretazione grossolana e materialista di una intuizione giusta. Essa è stata sostenuta da alcuni psicologi che avevano compreso molto bene che la coscienza non “usciva” dall’Io, ma che non potevano accettare l’idea di una spontaneità autoproducentesi» (Ibidem, pp. 89-90).
Analogamente a quanto espresso dalla poetica di Rimbaud, qui la coscienza assume le caratteristiche di un flusso impersonale che pone capo all’Io. Ma l’Io non appare più certo dell’Io di un altro, forse solo più intimo: ecco perché può essere considerato “un altro”.
Al di là delle importanti implicazioni teoretiche e della vicinanza da questo punto di vista dei due autori non è da trascurare un’altra analogia fondamentale: La Transcendence de l’Ego di Sartre non è soltanto una fine disquisizione teoretica in ambito fenomenologico, ma è anche un’opera che nasce da esigenze più profonde di tipo morale e politico. Non dimentichiamo che è stata scritta in un periodo tragico con l’Europa scossa dalle tensioni create dall’ascesa al potere del fascismo e del nazismo e che è animata dalla volontà da parte di Sartre di trovare una via d’uscita per il pensiero dalle secche dell’idealismo solipsistico e del materialismo metafisico. Per Sartre la fenomenologia è più che una semplice dottrina filosofica, è la soluzione per un realismo non più dogmatico, è il punto di partenza per una filosofia morale e per una praxis. Ecco perché egli intende difendere la fenomenologia dalle accuse, soprattutto dei teorici di estrema sinistra, di essere un idealismo; per Sartre invece «erano secoli che non si era sentita nella filosofia una corrente così realista» (Ibidem, p. 97).
Le parole conclusive dell’opera confermano l’esigenza di fondo che muove tutto il discorso: «Questa coscienza assoluta, quando è purificata dall’Io, non ha più niente di un soggetto, non è nemmeno una collezione di rappresentazioni: è semplicemente una condizione prima ed una sorgente assoluta di esistenza. (…) Non occorre altro per fondare una morale e una politica assolutamente positive» (Ibidem, p. 98).
Che questa sia una delle preoccupazioni più urgenti per Sartre risulta anche evidente nell’altro scritto al centro dei nostri interessi: Une idée fondamentale de la phénoménologie de Husserl: l’intentionnalité. Si tratta di un saggio molto breve, di poche pagine, ma assai importante a livello teorico. Come suggerisce il titolo dell’opera Sartre analizza il concetto di intenzionalità, un’idea essenziale della fenomenologia di Husserl. Anche qui è lampante come il filosofo francese prenda a prestito una nozione del suo maestro per poi radicalizzarla ed interpretarla in modo nuovo.
Per la nozione di intenzionalità ogni coscienza è sempre “coscienza di” qualche cosa e, pertanto, mondo e coscienza sono dati nello stesso momento. La coscienza, inoltre, non è più nulla in sé; l’oggetto non è più contenuto nella coscienza in alcun modo (neanche a titolo di rappresentazione), le cose sono fuori dalla coscienza ed essa diventa un assoluto non sostanziale.
E’ interessante l’immagine che Sartre usa per meglio simbolizzare la coscienza: l’esplosione; la coscienza è “esplodere verso” (s’éclater vers), una trascendenza che ci getta «sulla strada maestra, in mezzo alle minacce, sotto una luce accecante. Esistere, dice Heidegger, è essere-nel-mondo. Questo “essere-nel-mondo” va inteso in senso dinamico. Essere è esplodere nel mondo, è partire da un nulla di mondo e di coscienza per esplodere-come-coscienza-nel-mondo d’improvviso (…). Husserl chiama “intenzionalità” questa necessità della coscienza di esistere come coscienza d’altro da sé» (J.-P. Sartre, Un’idea fondamentale della fenomenologia di Husserl: l’intenzionalità, in Idem, Materialismo e rivoluzione, Il Saggiatore, Milano 1977, p. 141).
Anche la dottrina dell’intenzionalità era stata per Sartre una scoperta fondamentale, poiché gli aveva permesso di superare contemporaneamente realismo ed idealismo (quelle che chiama filosofie “alimentari”, in cui conoscere è mangiare: o il soggetto assorbe l’oggetto o l’oggetto il soggetto).
Dalla lettura di queste pagine si evince che Sartre è spinto soprattutto da una necessità profonda: il superamento delle dottrine filosofiche idealiste in voga nell’insegnamento del tempo (sono citati in particolare Brunschvig, Lalande e Meyerson). In esse ogni cosa veniva diluita nel soggetto, nello spirito, tutto diventava contenuto di coscienza: «I possenti spigoli del mondo venivano corrosi da queste diligenti diastasi: assimilazione, unificazione, identificazione. Invano i più rudi tra noi, i più semplici, cercavano qualcosa di solido, qualcosa che non fosse lo spirito; dappertutto non incontravano che una nebbia soffice e raffinata: se stessi» (Ibidem, p. 139).
L’intenzionalità è ciò che permette di ridare al mondo il suo peso e la sua concretezza.
Leggiamo, a questo proposito, con quale entusiasmo e con quale radicalità Sartre conclude il saggio:
«Eccoci liberati da Proust. Liberati, nello stesso tempo, dalla “vita interiore”: invano cercheremmo, come Amiel, come un bambino che s’abbracci le spalle, i crogiolamenti, le lusinghe della nostra intimità, perché finalmente tutto è fuori, tutto! persino noi stessi: fuori, nel mondo, tra gli altri. Non in un ipotetico rifugio scopriremo noi stessi: ma per la strada, per la città, in mezzo alla folla, cosa tra le cose, uomo tra gli uomini» (Ibidem, pp. 140-141).
In queste affermazioni ci sembra di sentire, anche nello stile sferzante, un’eco del disprezzo di Rimbaud per ogni ripiegarsi su di sé, per ogni soggettivismo, solipsismo e spiritualismo.
Nel concetto di intenzionalità, dunque, definita come trascendenza ed interpretata come un “esplodere verso”, si conferma quanto già detto: la coscienza non è nulla in-sé, ma flusso, un movimento, una spontaneità individuata ed impersonale, che non esce da un Io, in quanto tutto è fuori nel mondo, tra gli altri.
Crediamo di aver dimostrato come ci sia un profondo legame tra le due posizioni, che la ripresa della formula di Rimbaud “Io è un altro” da parte di Sartre, al di là di tutte le differenze terminologiche, avvenga su un substrato di profonda analogia.
Possiamo sintetizzare la consonanza, la prossimità, dei pensieri nei seguenti punti:
1. Esigenza pratica e realismo.
Il pensiero filosofico del primo Sartre e la poetica di Rimbaud hanno alla base un’esigenza essenzialmente morale che nasce come reazione alla contingenza degli avvenimenti storici e politici riguardanti la loro epoca. La preoccupazione di Sartre è di «fondare una politica e morale assolutamente positive»; Rimbaud avverte l’urgenza dell’impegno concreto e parla della poesia in rapporto all’azione.
2. Critica dell’idealismo e di ogni sapere riconducibile all’Io come fondamento.
In entrambi avvertiamo la stessa insofferenza verso ogni forma di ripiegamento su di sé, di ogni assolutizzazione della vita interiore (o vita intima), lo stesso auspicio per un pensiero che esca da sé per essere-nel-mondo, che non sia mero rispecchiamento (rappresentazione) del mondo, o contemplazione che riduce lo spessore del mondo alla conoscenza che il soggetto ne ha, che riduce tutto a contenuto di coscienza, ma che sia prima di tutto azione e che “sia già mondo”, vale a dire che sia già presso le cose e le persone nel mondo, prima di essere in sé. Ciò è una diretta conseguenza dell’esigenza acclarata al punto precedente.
3. Riduzione dell’Io ad oggetto.
La spinta ideale che li muove, infine, ha come esito comune la ricerca di un fondamento posto prima o su un altro piano rispetto all’Io. Ecco che a questo punto, sia in Rimbaud che in Sartre l’Io diventa un oggetto, non è più un soggetto, è come uno straniero rispetto ai territori in cui abitano i pensieri. Al soggetto viene sostituito un che di impersonale, un flusso, una creazione dal nulla. La formula “Io è un altro” è prima di tutto la spiegazione di questo fatto: il soggetto è altro da sé ed è alienato quando cerca di porsi come in-sé e il fondamento va cercato in qualcosa di posto prima, non in senso temporale, ma logico.
Se l’Io è trascendente, se l’Io è un oggetto opaco, chi o cosa è originario?
Su questo punto l’analisi precedente rende palpabile una differenza, apparentemente incolmabile, tra i due autori: in Sartre originario è il cogito pre-riflessivo, in Rimbaud l’ignoto. Da un lato, come abbiamo visto, la coscienza perfettamente trasparente, traslucida, in cui essere e apparire fanno tutt’uno, dall’altro lato, l’ignoto che sembra in un certo senso caratterizzarsi come ineffabile, inaccessibile ai normali mezzi di conoscenza; da una parte, in Sartre, l’esperienza comune dell’essere coscienti di sé essendo coscienti del mondo, certo non raggiungibile nella sua certezza se non attraverso l’epoché, ma comunque – potenzialmente – alla portata di tutti; dall’altra parte, in Rimbaud, una regione “a venire” che sembra richiedere particolari requisiti, non accessibile a tutti: per poterne accogliere le “illuminazioni” il poeta deve farsi Veggente, attraverso lo sregolarsi di tutti i sensi.
Tale importante discrasia a proposito dell’originario potrebbe suonare come un’obiezione a quanto detto fino a qui. Non volendo minimamente sminuire o cancellare questa difficoltà, credo che solo in apparenza il punto a cui approdano Sartre e Rimbaud sia antitetico e perciò che il contrasto tra le loro concezioni, pur presente e non eliminabile, possa essere sfumato.
Per prima cosa rimarco come questa differenza sia anche conseguenza di uno iato tra sensibilità differenti e diverse tonalità di stile: la concezione di Sartre appare sicuramente più razionalista, quella di Rimbaud più mistica. In fondo, la distanza tra i due autori in termini di linguaggio e di modalità creative, può indurci a scambiare espressioni formali differenti per diversità sostanziali, quando, per lo più, la loro proposta teorica è univoca pur se pronunciata con termini dissimili.
Aggiungo il fatto che quando Rimbaud utilizza la formula “Io è un altro” per esprimere l’alienazione dell’Io deve, per forza di cose, posizionarsi in un punto di vista che definirei di consapevolezza: solo chi è consapevole di sé, cosciente pertanto, può smascherare l’incoscienza dell’Io che crede di essere in-sé mentre è altro da sé. Che questa coscienza sia poi il viatico per illuminazioni provenienti dall’ignoto evocate da parte del poeta con i poteri acquisiti dallo sregolamento dei sensi, che poi l’ignoto si ponga, pertanto, come qualcosa di trascendente rispetto alla consapevolezza raggiunta, di trascendente la coscienza (essendo l’ignoto propriamente l’al-di-là di ciò che è noto e cosciente), è un passo successivo rispetto a ciò che possiamo considerare il dato primo ed indubitabile: la coscienza. Passo essenziale in Rimbaud, ma, ripeto, successivo.
L’originario in Rimbaud è consapevole apertura all’ignoto; vi è, in questa consapevolezza, un elemento essenziale: il passaggio dall’individuo, inteso come soggetto chiuso narcisisticamente in sé (l’Io), all’impersonale flusso caotico dei pensieri del veggente-poeta. Ciò ha come conseguenza benefica di portare alla luce zone d’ignoto. Questa azione di svelamento dell’ignoto, dunque, non può che avvenire sulla base di una coscienza di sé (affatto differente dall’Io).
D’altro canto, domando: la coscienza sartriana è davvero totalmente trasparente a sé stessa, è davvero traslucida? O rimane sottaciuto un nucleo opaco, non riducibile all’identità tra essere ed apparire propria della coscienza irriflessa (identità affermata in modo perentorio in questi scritti dal filosofo francese)?
Nella prefazione all’edizione italiana a cui qui si è fatto riferimento de La Transcendence de l’Ego, il curatore Rocco Ronchi fa un’acuta osservazione a proposito della coscienza pre-riflessiva: mostra come Sartre per descrivere questa forma paradossale di coscienza che è mediazione immediata ricorra a parafrasi e a procedimento apofatici (Cfr. J.-P. Sartre, La Trascendenza dell’Ego, cit. p. 17). La coscienza, infatti, a tratti sembra serbare in sé, contenere, qualche cosa di ineffabile, inaccessibile, che si sottrae alla trasparenza e pertanto ignoto: Sartre per dirci ciò che essa è, utilizza spesso parafrasi, immagini, trovate grafiche e linguistiche, ad esempio “coscienza (di) sé”, espressioni contraddittorie quali: “atto irriflesso di riflessione”, o la descrive in modo negativo, dicendoci cosa essa non è.
Ronchi aggiunge significativamente che «tali espressioni descrivono nei termini del costituito il costituente. Il costituito è la correlazione Io-mondo, il nesso soggetto-oggetto. Il costituente è l’evento di quella correlazione, ma che non può essere detto come correlazione (di qui appunto l’apofatismo). Facile di fronte a queste costruzioni linguistiche è vestire i panni del critico severo e smontare il giocattolo sartriano mostrandone tutta la contradditorietà. Più difficile è accettare la sua sfida e procedere nella direzione di un Assoluto indecostruibile come solo fondamento di un materialismo altrettanto assoluto» (Ivi).
Contrariamente a quanto affermato in più passi dallo stesso Sartre, in fin dei conti, la spontaneità impersonale autoproducentesi, la coscienza sartriana, già nella sua stessa descrizione e definizione non sembra essere affatto trasparente a sé, o meglio pur ponendosi come trasparente sembra contenere in sé qualche cosa di opaco che sfugge all’identità di essere ed apparire. Nell’essere cosciente (di) sé la coscienza non posizionale sembra scaturire da un al-di-là del rapporto soggetto-oggetto, un assoluto indecostruibile appunto, un evento, che tuttavia non è dicibile e pensabile chiaramente.
Ciò che abbiamo notato, pertanto, è che ci troviamo di fronte ad un problema di espressione a proposito dell’originario: il linguaggio impedisce di dire e rappresentare in modo univoco e preciso il “luogo” che precede la correlazione soggetto-oggetto e che viene individuato dopo la riduzione dell’Io all’altro.
Esso è dicibile, rappresentabile, pensabile o ineffabile, indicibile? E’ parola o silenzio? E’ trasparente a sé o opaco? Coscienza assoluta o ignoto che viene alla luce? Oppure entrambe le cose insieme? E ancora: è davvero qualcosa, un oggetto?
Per il momento sospendo le domande e affermo che non occorrono altre precisazioni per comprendere come il “luogo” indicato da Sartre e da Rimbaud sia il medesimo. Tuttavia, è nella natura stessa dell’originario di essere ambiguo ed aperto a differenti espressioni.
Misticismo e razionalismo sono sfumature che nascono da modi differenti di abitare l’apertura dell’originario.
[Fine seconda parte – continua]
[Clicca qui per il pdf]