> di Paolo Calabrò*
La lingua che parliamo può influenzare la percezione che abbiamo del mondo e il nostro modo di pensarlo? In che senso? E fino a che punto? Guy Deutscher, docente onorario di Linguistica all’Università di Manchester, è convinto che la risposta alla prima domanda sia affermativa e si impegna – nelle oltre 300 pagine del suo ultimo La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà (Bollati Boringhieri, 2013) a dimostrarlo in maniera scientifica, con dovizia di dettagli ed esempi, e con uno stile fluido e amabile cui non sacrifica la precisione.
Con buona pace dei tanti sostenitori dell’oggettività della realtà – molti dei quali, nella fretta di dire “addio” a Kant, hanno erroneamente voluto immaginare che potesse essere “immediatatamente data” – la realtà si dà a noi secondo la misura del nostro modo di percepirla, almeno relativamente a certi aspetti. Ovvero non esiste una “mente trasparente” in grado di accogliere la realtà “come essa è”. Considerazione che investe anche la lingua; è infatti un errore credere che la lingua sia trasparente rispetto alla realtà: non solo perché non esiste nessuna lingua che sia perfettamente traducibile in un’altra (il che rende di fatto impossibile rendere nel linguaggio “la stessa” realtà), ma anche e soprattutto perché la nostra lingua influenza la nostra percezione delle cose.
Ma, continua l’autore, è possibile affermare ciò in maniera meno vaga, anzi, scientifica, con tutti i crismi della sperimentabilità e della ripetibilità? È possibile sostenerla con prove di laboratorio – linguistiche, psicologiche, neuroscientifiche – “evidenti”?
Pare proprio di sì. E sono tre ambiti nei quali la lingua sembra influenzare la nostra percezione della realtà: il colore, lo spazio e il genere grammaticale. Per concisione prenderemo in esame solo il primo (le medesime conclusioni valgono parimenti per gli altri due). Deutscher racconta con l’abilità del narratore consumato la storia dell’influenza della lingua sulla percezione del colore. Storia che comincia nel marzo del 1858, quando sir William Ewart Gladstone, parlamentare già ministro delle finanze e stimatissimo grecista, dà alle stampe il ponderoso Studies on Homer and the Homeric Age, opera di smisurata erudizione che non manca di esaminare, nella miriade di questioni affrontate, l’uso dei termini di colore nelle opere omeriche. Gladstone, colpito da espressioni come “il mare colore del vino”, si rese presto conto della “anomalia cromatica” presente nell’intero testo omerico, che riassunse in cinque punti: l’impiego dello stesso vocabolo per denotare colori che, ai nostri occhi, sono diversi; la descrizione di uno stesso oggetto mediante epiteti di colore che sono fondamentalmente in disaccordo l’uno con l’altro; l’uso esiguo del colore e la sua assenza in certi casi nei quali ci aspetteremmo che fosse invece presente; la grande prevalenza delle forme cromatiche più rudimentali e basilari, il bianco e il nero, a scapito di tutte le altre; le ridotte dimensioni del vocabolario di colore omerico.
Nessuna interpretazione poetica o storiografica riusciva a dare conto di tutte queste “stranezze”: Gladstone finì per ipotizzare un difetto visivo in Omero (e almeno in tutti i Greci, che lo ascoltavano senza notare nulla di anormale nella sua poesia), ipotesi che culminò nelle ricerche di Lazarus Geiger – il quale allargò il “problema” a tutti i popoli antichi – e Hugo Magnus, che approfondendo le cause dell’incidente ferroviario di Lagerlunda (Svezia, 1875), propose di spiegare la cosa in termini di evoluzione storica della percezione umana del colore.
Ma l’idea di Magnus era sbagliata perché, tanto per cominciare, si basava su quella lamarckiana a sua volta sbagliata dell’ereditarietà delle caratteristiche acquisite. Quando la sua teoria venne definitivamente abbandonata, si passò all’estremo opposto: contro l’ipotesi naturalista di Magnus (per cui l’effetto dipendeva esclusivamente dalla natura umana in evoluzione), nacque l’ipotesi culturalista, per la quale tutto dipendeva dalla incapacità delle lingue antiche di esprimere adeguatamente i concetti cromatici.
Conclusione a sua volta eccessiva, perché per quanto ne sappiamo, non esiste nessuna lingua intrinsecamente incapace di esprimere concetti anche estranei ad essa (anzi: le culture avanzano e si evolvono proprio grazie al nuovo che riescono ogni volta ad esprimere) – nonostante non si possa dire che abbiano tutte “la stessa complessità” (ingenuità accademica molto accreditata che Deutscher critica aspramente: che cosa sarebbe la “complessità”? Come si dovrebbe misurare? Anzi: chi dovrebbe averle già misurate tutte, per poter infine affermare che le complessità sono tutte uguali?). E allora, come stano effettivamente le cose? Con una brillante esposizione delle teorie più recenti e degli ultimi esperimenti, Deutscher ci rivela che in buona parte (anche se non del tutto) avevano ragione i culturalisti: la differenza linguistica può davvero generare una differenza percettiva. Ma non a causa di limitazioni intrinseche alla lingua (come pensavano i culturalisti), bensì proprio per l’effetto contrario: cioè non a causa di ciò che la lingua ci impedisce di pensare, ma a causa di ciò che la lingua – con le sue forme invalicabili – ci impone di pensare. È per questo che alcuni test cromatici sul riconoscimento delle gradazioni di blu danno esiti diversi se effettuati sugli inglesi (che posseggono una sola parola per indicarlo) rispetto a quelli effettuati sui russi (il cui lessico conosce almeno due parole in cui viene frazionato lo stesso intervallo cromatico).
Un saggio scritto con maestria e leggerezza, due qualità che è difficile trovar riunite in un’opera tanto nutriente. In una splendida edizione Bollati Boringhieri rilegata con sovraccoperta e un inserto a colori fuori testo di 8 pagine.
Indice:
Prologo. Linguaggio, cultura e pensiero
Parte prima – Lo specchio del linguaggio
1. I nomi dentro l’arcobaleno
2. A caccia di spettri
3. Le rozza popolazioni che abitano terre straniere
4. Coloro che hanno detto le stesse cose prima di noi
5. Platone e il porcaro macedone
Parte seconda – La lente del linguaggio
6. Einstein riveduto e corretto
7. Dove il Sole non sorge a oriente
8. Sesso e sintassi
9. Blu di Russia
Epilogo. Perdonate la nostra ignoranza
Appendice. Colore: nell’occhio di chi guarda
Note
Bibliografia
Ringraziamenti
Fonti iconografiche
Indice analitico
Guy Deutscher (Tel Aviv, 1969) ha insegnato al St. John’s College di Cambridge, in Inghilterra, e al Dipartimento di Lingue e Culture della Mesopotamia antica all’Università di Leiden, in Olanda. Laureato in Matematica a Cambridge, si è poi specializzato in Linguistica nella stessa Università. Attualmente è Docente onorario presso la Scuola di Lingue, Linguistica e Cultura dell’Università di Manchester. La lingua colora il mondo è il suo terzo libro, il primo tradotto in italiano.
> Guy Deutscher, La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà, Bollati Boringhieri, Torino 2013, pp. 340, euro 23,50.
*Paolo Calabrò, laureato in Scienze dell’informazione e in Filosofia, gestisce dal 2009 il sito ufficiale del filosofo francese Maurice Bellet in italiano (www.mauricebellet.it). Collaboratore dei mensili «Lo Straniero» e «Sapere», del bimestrale «Testimonianze» e delle riviste online «Filosofia e nuovi sentieri» e «Pagina3», è redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta e del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello. Ha pubblicato Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sulla filosofia di Raimon Panikkar e Maurice Bellet. Il suo secondo libro, La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet, è in corso di pubblicazione (febbraio 2014).