> di Pietro Piro
Maria Grazia Turri aveva già dato prova del suo talento filosofico con lavori importanti come: Biologicamente sociali culturalmente individualisti, Mimesis, Milano-Udine 2012 e La distinzione fra moneta e denaro: Ontologia sociale ed economia, Carocci, Roma 2010. Con il suo recente contributo Gli dei del capitalismo: teologia economica nell’età dell’incertezza, Mimesis, Milano-Udine 2014, inaugura una nuova collana della casa editrice Mimesis (da lei diretta) con un nome non molto familiare nel panorama dell’offerta accademica italiana: Filosofie dell’economia. Si tratta di lavoro approfondito e impegnativo il cui intento è quello di «mettere sul banco degli imputati l’astoricità del pensiero e dei valori che sottostanno ai comportamenti economici e politici, tradizionalmente letti come autonomi» (p. 11).
L’autrice procede per progressivi approfondimenti, cercando di dipanare il groviglio di pregiudizi che avvolge definizioni circolanti con troppa superficialità nella pratica socio economica. Per riuscire nel proprio intento, deve procedere demitizzando concetti chiave come mercato, denaro, razionalità, felicità, perché: «il mercato è stato individuato sia come il luogo salvifico ai mali prodotti dalle convenienze personali sia come il demone responsabile di tutte le disuguaglianze economiche; il denaro è assurto a unico obiettivo per la realizzazione nella vita e metro di paragone del riconoscimento per le proprie capacità, oppure è stato indicato come lo sterco sul cui altare vengono sacrificati i valori di una vita autentica: la libertà è stata individuata come il valore individuale al quale è necessario piegare i comportamenti economici di tutti i soggetti che agiscono in questo ambito della vita o, di converso, il demone al quale porre limiti perché il dilagare della libertà personale genererebbe l’affermazione dei più forti e dei più potenti; la razionalità è stata identificata sia come la caratteristica unica alla quale dover fare riferimento per caratterizzare comportamento ottimale degli agenti economici, sia come il demone che nega le emozioni e i sentimenti; la felicità è diventata lo stato d’animo in grado di misurare la qualità della vita garantita dai processi economici o, di converso, il paradigma da difendere perché proprio i processi economici in atto la intaccherebbero e sarebbero invece le relazioni non economiche che la garantirebbero» (p. 25). L’autrice, sottoponendo il percorso della razionalità occidentale a una serrata critica, giunge a denunciare un processo dissociativo dualistico che ha creato pericolose distinzioni tra «interno ed esterno allo Stato, fra privato e pubblico, fra mente e mondo, fra soggetti e oggetti, fra esseri umani e natura, fra natura e cultura, fra software e hardware e ovviamente tra politica ed economia o fra economia e politica» (p. 45). Queste distinzioni sono pericolose perché impongono la gerarchia stabilita da chi vuole negare il divenire molteplice e incessante della realtà per imporre la propria visione parziale e funzionale. Visione dominante che ha reso la politica uno spazio mercantile dove «vendere le singole personalità» (p. 103) e che ha adottato come metodo il dīvide et īmpera, perché: «la frammentazione (…) è stata la sostanziale attività che si è messa in pratica negli ultimi quarant’anni. Un lungo processo di frammentazione non può che avere indebolito e quasi del tutto spezzato le dimensioni individuali, sociali e istituzionali» (p. 106). Turri denuncia l’uso del debito come dispositivo di potere biopolitico: «Il debito funge, pertanto, da struttura intorno alla quale si impernia il potere del controllo. Un controllo che si esercita per la promessa non saldata da parte del debitore, che nel frattempo specula nel vano tentativo di risarcire il creditore per sottrarsi al controllo a cui lui stesso ha dato vita» (p. 167). In questa prospettiva, il debito infinito diventa la condizione principale di esistenza. Una forma di schiavitù. Se si vuole uscire dalla gabbia d’acciaio nella quale siamo rinchiusi è necessario, per l’autrice, riappropriarsi di un senso della libertà legato alla responsabilità di sé e degli altri, un idea di libertà relazionale, che implichi l’ascolto e il riconoscimento, ma soprattutto, una forte spinta verso la dimensione dell’uguaglianza (p. 218). L’esaltazione della razionalità economica che procede per scelte calibrate, necessarie, matematiche, che esclude dalla valutazione degli avvenimenti gli spiriti animali (p. 260), nega la dimensione comunitaria e relazionale dell’eudaimonia (p. 285) e riduce l’intera vita al mero calcolo degli interessi privati. L’individuo è tanto esaltato quanto spogliato di dimensioni relazionali. Una possibilità di ristabilire il senso della partecipazione pubblica è offerto solamente dal recupero della dimensione comunitaria perché: «La comunità è un terzo genus rispetto alla classica ripartizione fra privato e pubblico che è fondata su un duplice connotato, cioè la rivalità nel e l’esclusività dal. È solo nella e con la comunità che è possibile superare questa dicotomia a favore di una serie di regole generali che vanno dalla definizione dei limiti dell’espressione della libertà individuale all’appropriazione delle risorse, al controllo dell’utilizzo dei beni fattone dagli appropriatori, dal disciplinamento del controllo delle risorse, all’organizzazione su più livelli della gestione dei mezzi collettivi. E un terzo genus che fa si che la relazione non sia un mezzo per procurarsi altri beni ma venga a essere il bene stesso, la cui caratteristica è la reciprocità. La relazione è reciproca se co-prodotta e co-consumata dai soggetto coinvolti ed è gratuita se scaturisce da motivazioni intrinseche in una dimensione che può comprendere il non monetario e il monetario» (p. 289). Per Turri la comunità non è il luogo in cui scompare l’individualità, ma l’opportunità in cui l’individualità di rafforza e si completa nella relazione che da senso (p. 292), reciprocità, redistribuzione e riconoscimento rappresentano «il filo inscindibile delle dinamiche sociali, che tali rimangono se avviene la com-prensione, quell’atto che consente di passare dalla società alla comunità» (p. 298). Alla fine del libro, emerge chiaramente come il desiderio profondo che anima la scrittura del testo sia un bisogno di libertà, un conato d’indocilità ragionata, un amore per l’incontro con il volto dell’altro che riconoscendoci ci ricorda il nostro nome. Volere essere liberi dal debito, non obbligati alla conformità dei tempi di restituzione, attinenti alla dimensione propria dell’essere «la sua intrinseca dynamis, la sua forza, la sua potenza, la sua energia» (p. 317). Si tratta di un libro importante che dovrebbero leggere gli economisti e i banchieri. Ma è noto che chi compie delitti, difficilmente vuole indagare le cause profonde del proprio crimine (tranne che non sia seriamente intenzionato alla via del pentimento).