Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Introduzione alla metodologia della ricerca di Dario Antiseri

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> di Alberto Rossignoli*

Come procede una ricerca?
Quali sono i cardini su cui essa sussiste?
E soprattutto, quali problemi metodologici e deontologici si presentano durante la ricerca stessa?
Per Karl Popper, il metodo scientifico non esiste. Questo perché le discipline, in generale, non esistono. Ci sono soltanto problemi da risolvere.
Non esiste alcun metodo scientifico in tre sensi:

  • Non c’è alcun metodo per scoprire una teoria scientifica.
  • Non c’è alcun metodo di verificazione di un’ipotesi scientifica.
  • Non c’è alcun metodo per accertare se un’ipotesi è probabile.

Non esistono le discipline, bensì i problemi, la cui soluzione può attraversare i confini di qualsiasi disciplina. Ma se non esistono le discipline, non esiste nemmeno il metodo scientifico. Non esiste un metodo per trovare nuove teorie: queste sono frutto di creatività e non di procedure di routine. Le teorie, anche le meglio assodate, restano smentibili di principio. Se, da un lato, la maggior ricchezza di contenuto informativo di una teoria è incomparabile con la crescente probabilità della teoria stessa, dall’altro non c’è un metodo per accertare la probabilità di nessuna asserzione universale, giacché questa si riferisce ad un numero infinito di casi, mentre l’evidenza empirica si riduce sempre ad un numero finito di casi osservati.

Quale è la concezione popperiana del metodo scientifico?
Consta di tre passi:

  • Problema
  • Tentativo di risoluzione
  • Apprendere criticamente dai tentativi del punto precedente.

L’intera ricerca scientifica non è altro che un continuo tentativo di risolvere problemi attraverso teorie le cui conseguenze siano controllabili dall’esperienza. Le teorie scientifiche sono sempre risposte a problemi; e un problema non nasce dal vuoto. Un problema ha dei presupposti: esso sorge, per esempio, quando due teorie si contraddicono o quando una teoria è contraddetta da un fatto.
Per Kant, ogni risposta data secondo principi sperimentali genera sempre una nuova domanda, che richiede a sua volta una risposta. In tal modo, la ricerca è una ricerca senza fine: problemi risolti ne pongono di nuovi da risolvere.
Come e da che cosa comincia la ricerca scientifica?
Per Popper, la ricerca comincia con l’abbattimento di un mito, ossia quando alcune delle nostre aspettative sono state disilluse: ossia, si inizia da un problema.
Ciò in polemica con la concezione baconiana, secondo la quale la scienza comincia con l’osservazione e procede in modo induttivo.
La mente, per Popper, non è una tabula rasa: in noi vi sono aspettative le quali, se disilluse, creeranno i nostri problemi.
Nella scienza, le osservazioni sono rilevanti in quanto servono a confermare o a smentire una qualche ipotesi formulata quale tentativo di risoluzione di un problema.
L’osservazione è fondamentale, ma il primato spetta alla teoria. L’osservazione e l’esperimento ci aiutano ad eliminare le teorie più deboli.
L’induzione, per Popper, non esiste, perché non esistono inferenze induttive, cioè argomentazioni logiche, in grado di farci logicamente passare dalle osservazioni singolari alle generalizzazioni.
La mente non lavora induttivamente: essa è attiva, creativa, e legge la realtà attraverso una rete più o meno fitta di aspettative e teorie; interroga di continuo la realtà.
Vi è un’immagine costruttivista della scienza e della mente, vista, quest’ultima, come un’entità attiva che inventa congetture, crea e scopre problemi, costruisce prove e seleziona teorie.
Come ha insegnato la Gestaltpsychologie, anche le percezioni sono costrutti, costrutti di una mente attiva e spontanea.
Per Popper, la nostra esperienza percettiva immediata viene influenzata in larga misura dalla nostra anteriore conoscenza e dalle nostre aspettative; la teoria induttivista, dunque, appare superficiale. Ciò che l’induttivismo assume ingenuamente come “dato” dei nostri sensi consiste, in realtà, in un complesso dare-avere fra l’organismo e il tuo ambiente: il processo consistente nel modificare o correggere le nostre anticipazioni e congetture. L’induzione nega che la mente sia creativa e che la scienza sia una complessa costruzione, frutto di tentativi ed errori.
Per risolvere i problemi, occorre creatività. L’immaginazione crea ipotesi, la regione le controlla. Ma perché una teoria possa venir controllata essa deve essere controllabile; ed è controllabile quando da essa sono estraibili/deducibili conseguenze che descrivono osservazioni possibili che, effettuate, possono venire, di fatto, confrontate con asserti che descrivono i fatti da spiegare. E l’esito di questo confronto può essere duplice: o la verificazione/conferma della teoria, o la falsificazione/smentita della stessa.
L’argomentazione falsificante è una vecchia conoscenza della logica classica: è il modus tollens, un’argomentazione logica (un’argomentazione, cioè, in cui la conclusione segue necessariamente dalle premesse) che dalla falsità di almeno una delle conseguenze risale alla falsità delle premesse.
Il modus tollens, dunque, è una macchina logica a servizio del controllo delle teorie.
La proposta fondamentale dell’epistemologia di Popper sta nel suo criterio di falsificabilità, proposto come criterio di demarcazione a livello logico tra asserti empirici/scientifici e asserti non scientifici. Per Popper, un’asserzione/teoria è falsificabile se e solo se esiste almeno un falsificatore potenziale, almeno un possibile asserto di base che entri logicamente in conflitto con essa. È importante non pretendere che l’asserto di base in questione sia vero.
Una falsificazione è certa?
La conferma di una teoria non è mai logicamente definitiva, in quanto è sempre possibile, dal punto di vista logico, che si incontri un fatto contrario alla teoria.
Anche una falsificazione può essere fallibile perché, dalla prospettiva metodologica una smentita non è mai definitiva, e questo perché, quando noi sottoponiamo a prova un’ipotesi, noi, in linea generale, deriviamo conseguenze osservabili da una teoria formata da quell’ipotesi più altre ipotesi, che aiutano a estrarre le conseguenze controllabili dall’ipotesi.
Per Popper, spiegare causalmente un fenomeno significa individuare quell’evento o quegli eventi che, tolti, proibiscono l’accadimento di tale fenomeno e che, posti, invece, lo producono.
Un evento può essere detto causa di un altro solo in relazione ad una legge.
Il teorico è interessato alla prova delle leggi; il tecnologo prevede in base alle leggi, date certe condizioni, l’accadere di un evento; lo storico, dato un evento, ricostruisce in base a leggi le condizioni, o cause, che hanno portato all’evento accaduto.
In una spiegazione, le leggi sono logicamente necessarie. Queste leggi, però, non costituiscono un problema nel contesto del lavoro storiografico: sono leggi o teorie che lo storico assume da altre discipline.
Sia Hempel che Popper sostengono che le leggi sono necessarie in una spiegazione scientifica, se vogliamo rispondere al perché un dato evento si è verificato. Ma, per Popper, ciò che interessa maggiormente allo storico è il come degli avvenimenti: il congetturare sull’intreccio, nei casi specifici, delle condizioni iniziali o cause che hanno portato all’evento da spiegare.
Lo storico spiega proponendo e provando congetture come tentativi di soluzione dei suoi problemi, di quelle domande che egli rivolge sul passato.
Cosa significa spiegare un’azione e/o un’istituzione?
Qui entra in gioco l’analisi situazionale, che consiste nel ricostruire un modello di situazione, tenendo conto della situazione istituzionale in cui un certo agente si trova ad agire.
Per Popper, il compito delle scienze sociali consiste nel «delineare le ripercussioni sociali, non intenzionali, che seguono alle azioni umane intenzionali»[1].
Le scienze sociali ed economiche, nondimeno, sono state continuamente alle prese con tutta una serie di problemi, riguardanti l’origine di fenomeni sociali quali il linguaggio, la religione, il diritto, la fondazione delle città o lo Stato stesso, o di fenomeni tipicamente economici quali, ad esempio, il mercato, la concorrenza o la moneta. Quale è, dunque, la giusta spiegazione teorica di questi fenomeni?
L’esistenza di istituzioni e fenomeni sociali quali esiti di accordi intenzionali fra uomini, spinge a credere valida una teoria generale, secondo la quale tutti i fenomeni, sociali ed economici sarebbero spiegabili quali risultati di attività collettive deliberatamente volte ad un fine: questa, per l’economista austriaco Carl Menger, è la teoria pragmatica dell’origine dei fenomeni sociali. La quale, tuttavia, non riesce a spiegare fenomeni economico-sociali che appaiono in epoche nella quali non si può legittimamente parlare di un’attività della comunità come tale.
In relazione alla ricerca storica, Febvre fa presente che «i fatti storici […], come i fatti di qualsiasi altra scienza, non sono dati, ma costrutti che hanno una storia: la storia della conoscenza attraverso la quale si sono sviluppati acquisendo altre caratteristiche e altre magari perdendone.»[2].
La scienza non mette in discussione l’esistenza della “realtà”, della realtà non interpretata da categorie o teorie. La scienza presuppone questa realtà, ma non appena ci mettiamo a parlare della “realtà”, noi gettiamo su di essa la rete delle nostre categorie linguistiche, dei nostri concetti, delle nostre teorie.
Noi leggiamo la realtà attraverso il linguaggio che parliamo. I fatti scientifici sono tali perché vengono fatti, e dagli scienziati. Gli strumenti fondamentali con cui i ricercatori costruiscono i fatti della scienza sono concetti e teorie. Come disse H. Poincaré, è lo scienziato che crea il fatto scientifico, e lo crea palandone all’interno di una teoria scientifica. I fatti bruti, non interpretati, esistono, ma è lo scienziato che riesce a trasformare i fatti bruti in fatti scientifici, attraverso costruzioni, demolizioni, ricostruzioni concettuali e teoriche.
Dunque, la storia, secondo E. Carr, «è un continuo processo di interazione tra lo storico e i fatti storici, un dialogo senza fine tra il presente e il passato»[3]; un dialogo dove bisogna capire, con E. Cassirer, che «ogni verità fattuale implica una verità teoretica»[4].
L’analisi epistemologica contemporanea più lucida ha mostrato su quali fragili basi poggi l’immagine induttivistica della scienza; si è visto che la ricerca scientifica inizia sempre da problemi che richiedono la fantasia costruttrice di ipotesi proposte quali tentativi di soluzione, ipotesi da sottoporre alla prova dei fatti per vedere quale di esse resista, almeno momentaneamente, alla pressione delle critiche.
Ora, è un’illusione pensare che ci avviciniamo alla realtà o ai documenti con mente sgombra da pregiudizi, con una mente priva di questionario; la ricerca, anzi, necessita di idee preconcette, di domande, di problemi: senza problemi, non vi sarebbe ricerca.
Problemi, ipotesi, congetture, confutazioni: ecco ciò che fa palpitare il cuore della ricerca. Ed ecco ciò in virtù di cui la ricerca è davvero tale.
Questo è il nucleo concettuale di quest’opera, di agile lettura e consigliata non soltanto a chi si occupi di ricerca storica, filosofica e sociale, bensì che andrebbe quanto meno letta in ogni corso universitario che di questo si occupa, in particolare di ermeneutica.

Fonte:

D. Antiseri, Introduzione alla metodologia della ricerca, Rubbettino, Catanzaro 2005.

NOTE:

[1] D. Antiseri, Introduzione alla metodologia della ricerca, Rubbettino, Catanzaro 2005, p. 87.
[2] Op. cit., p. 102.
[3] Op. cit., p. 116.
[4] Op. cit., p. 116.

* Alberto Rossignoli, nato a Legnago (Vr) il 27/9/1983, ha conseguito una laurea triennale in Filosofia (2008) e una laurea magistrale in Scienze filosofiche (2010) all’Università di Verona.

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