Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Mutamenti di senso e vedere-come. Ricoeur, Wittgenstein, Waldenfels

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> di Moira De Iaco*


Sommario

Per la filosofia, assumere la responsabilità del linguaggio, un linguaggio essenzialmente metaforico in quanto capace di rivelare il reale creandolo sempre di nuovo, significa rendersi consapevole che in ogni ordine eccede l’estraneo come fenomeno radicale e integrale del nostro pensiero. In questa prospettiva, la riflessione sulla metafora come evento del senso risulta esemplare. La metafora è infatti l’irrompere dell’estraneo, l’emergere dello stra-ordinario nell’ordinario. Noi non vediamo semplicemente il mondo, non ci riferiamo direttamente a esso designandolo, oggettualizzandolo, piuttosto “vediamo-come” la realtà che ci accade, liberando l’immaginazione al di là di stringenti vincoli soggetto-oggetto.

Parole chiave: estraneo; interpretazione; metafora; saltare all’occhio; vedere-come

Abstract

Philosophy that assumes the responsibility for language, which is essential metaphorical because it can reveal the real creating it again and again, becomes aware that the stranger is a radical and integral phenomenon of our thinking and exceeds in every order. In this perspective, it is important to reflect on the metaphor as event of meaning. Metaphor is, in fact, the irruption of the stranger, the emerging of the extra-ordinary in the ordinary. We do not simply see the world, but we “see as” the reality that happens us, freeing the imagination beyond subject-object stringent constraints.

Keywords: interpretation; metaphor; seeing-as; stand out; stranger

“Viviamo in mezzo a lei e le siamo stranieri.
Essa parla continuamente con noi
e non ci tradisce il suo segreto.
Agiamo continuamente su di lei
e non abbiamo alcun potere”
(Goethe, Frammento sulla natura)

1. Filosofia e linguaggio
In un articolo del 1978 intitolato “Filosofia e linguaggio” Ricoeur parla di tre responsabilità della filosofia nei confronti del linguaggio. Prima delle tre è la responsabilità di riaprire il cammino del linguaggio verso la realtà, interrotto dalle scienze del linguaggio, nonché dalla stessa filosofia che, a partire dall’avvento della scienza meccanicistica ha visto affermarsi il dominio dell’Io con la sua mente onni-ponente e onnipotente: scienze del linguaggio e filosofia hanno allentato se non addirittura abolito il legame tra i segni e le cose. Complementari a questa sono la responsabilità di riaprire il cammino del linguaggio verso il soggetto parlante inteso come persona concreta, a discapito del quale le scienze del linguaggio hanno privilegiato i sistemi, le strutture, i codici, insomma le astrazioni teoriche, e quella di riaprire il cammino del linguaggio verso la comunità umana, interrotto dalla perdita della dimensione intersoggettiva che si è accompagnata a quella del soggetto parlante (cfr. 1978, trad. it., p. 1)[1].
Alla luce di queste responsabilità, il linguaggio, in una prospettiva di apertura all’essere qual è quella ricoeuriana, deve essere pensato come mediazione dell’uomo con il mondo, giacché è nel linguaggio che l’uomo si rappresenta la realtà; come mediazione tra uomo e uomo, nella misura in cui dialogando gli uomini si riferiscono alle stesse cose costituendosi in un noi; e infine come mediazione dell’uomo con se stesso, in quanto ciascuno si autocomprende attraverso le parole, nei testi, nelle opere culturali.
Parlare è, per Ricoeur, dire qualcosa su qualcosa a qualcuno nella sintesi predicativa della frase (per noi che rifletteremo qui sulla metafora la frase sarà l’unità linguistica di riferimento, per quanto sappiamo che l’analisi di Ricoeur sia andata oltre). È nell’atto predicativo della frase, e non nei segni presi separatamente, che si rivela il senso e si compie la triplice mediazione del linguaggio. Mentre il segno è immanente al sistema, si distingue infatti per opposizione ad altri segni, come insegna Saussure, la frase si riferisce al mondo, a un reale extralinguistico. Parlando metto in opera la lingua, mi impegno a parlare secondo le norme di questo tesoro, assumo i modelli linguistici consacrati dalla storia e accetto le possibilità offerte dal sistema. Assumo dunque il già detto, le realizzazioni obbligate che mi giungono dalla tradizione e mi attraversano anche inconsapevolmente e, muovendomi nel consentito, nelle possibilità di essere compreso dalla comunità linguistica, trascendo tali obbligazioni, trascendo il già detto in ciò che può essere detto[2].
Parlando ricreo il detto, muto la lingua e ridescrivo così il reale che in essa prende per noi forma, rinnovando il patto con gli altri parlanti della comunità nella responsabilità del mio dire a partire sì dal dire di altri, dal già detto prima, ma anche dalle possibilità sistemiche del comprenderci l’un l’altro. Mi assumo dunque la responsabilità dell’altro sia in quanto parlo a partire dal dire di altri sia in quanto sono obbligata a dire ciò che il sistema mi consente di dire affinché l’altro possa comprendermi. I vincoli che tengono insieme nel discorso referenza al mondo, rapporto con sé e rapporto con l’altro, appaiono stretti: nella misura in cui si dà referenza al mondo c’è referenza in comune, coreferenza, e nella misura in cui si dà coreferenza, c’è referenza a sé, impegno della persona concreta nel suo dire.
Trascendendo le obbligazioni nel consentito, si trascende la lingua nella frase, il sincronico verso il diacronico, il linguistico nell’extralinguistico, il semiotico verso il semantico. Trascendo me medesimo nell’altro, il proprio nell’estraneo. E questi sono movimenti di mutamento radicale, irreversibile, per quanto eventi transitori, relazionati all’evanescenza della situazione e quindi non assoluti. L’estraneo che si rivela in questi movimenti di mutamento è radicale nel senso in cui Waldenfels parla del radicalmente estraneo: il radicalmente estraneo, come egli dice, non è mai assolutamente estraneo, nel senso di totalmente diverso, quanto piuttosto nel senso di qualcosa che non può essere ricondotto/ridotto ad altro ed è un predicato relazionale in quanto si determina sempre in relazione a un proprio (cfr. 2011, pp. 64-65).
Scopriamo che la morte del Soggetto trascendentale, eretto come origine del senso e creduto padrone del discorso, è senza ritorno. In un discorso, secondo Ricoeur, va compreso prima di tutto il mondo che esso dispiega, il senso che esso rivela: ciascuno di noi comprende se stesso solo come ultimo atto davanti al discorso, solo attraverso la via lunga dei testi. Soltanto nell’inframezzo, come sottolinea Waldenfels, nel fra me e gli altri, si origina il senso, che non può essere dunque ricondotto né alla mia iniziativa personale né a quella degli altri, non può essere ridotto né a una prospettiva egocentrica né a una sociocentrica (cfr. ivi, p. 17 e Waldenfels 1987).
Per la filosofia, assumere la responsabilità del linguaggio, un linguaggio essenzialmente metaforico in quanto capace di rivelare il reale creandolo sempre di nuovo, significa rendersi consapevole che in ogni ordine eccede l’estraneo come fenomeno radicale e integrale del nostro pensiero. L’opera poetica si mostra perciò come interlocutrice indispensabile del dialogo filosofico. Infatti, sospendendo la referenza di primo grado, quella del linguaggio ordinario che descrive direttamente il reale, essa ne mette in gioco una di secondo grado, più profonda della prima, che a partire dalla negazione del dire diretto, letterale, appannaggio dei linguaggi tecnico-scientifici, si riferisce al mondo evocandolo e ridescrivendolo (cfr. Ricoeur 1978, trad. it., pp. 14-15, 18). La funzione poetico-metaforica sospende la visione ordinaria delle cose per aprirne una nuova, per insegnarci a vedere diversamente. Allo stesso tempo e allo stesso modo trasfigura noi stessi insegnandoci un nuovo modo di conoscerci (cfr. ivi, p. 9), al di là dell’egologia imperante.
La funzione poetico-metaforica nega il mondo come oggetto manipolabile e cancella la visione del linguaggio come strumento di cui dispone il Soggetto per esercitare azioni di dominio: non è più il Soggetto a dominare i segni, ma sono le parole a interpellarlo, a sorprenderlo con la loro eccedenza di senso reclamandone risposta. La metafora è evento del senso, è l’irrompere dell’estraneo, è uno shock tra campi semantici che dà vita a una nuova pertinenza e, al contrario di quanto comunemente si è creduto, non è un ornamento relegato a fini retorici. Essa è l’emergere dello stra-ordinario nell’ordinario: comincia infatti nel linguaggio ordinario che è già vitalmente metaforico (cfr, Ricoeur 1975, trad. it., p. 107).
Nessuno è padrone in casa propria, diceva Freud (1916). L’estraneità, possiamo parafrasare con Waldenfels, «comincia in casa propria» (2011, p. 15). Ciò vuol dire che noi non vediamo semplicemente il mondo, non ci riferiamo direttamente a esso designandolo, oggettualizzandolo, come fa un linguaggio scientifico e marginalmente anche quello quotidiano, nei casi al limite in cui, come insegna Wittgenstein, occorrono delle denominazioni per stabilire o ristabilire una comprensione mancata[3], ma piuttosto “vediamo-come” la realtà che ci accade, liberando l’immaginazione al di là di stringenti vincoli soggetto-oggetto.
Come scrive Ricoeur, «è nel linguaggio ordinario che dobbiamo cogliere il funzionamento della metafora», in quanto se secondo la lezione aristotelica «ben metaforizzare vuol dire avere piena padronanza delle somiglianze, allora senza di essa non potremmo cogliere alcuna relazione inedita tra le cose. Lungi dall’essere uno scarto nei confronti del funzionamento ordinario del linguaggio, la metafora è il principio onnipotente di ogni suo spontaneo atteggiarsi». È «la forma costitutiva del linguaggio» (1975, pp. 107-108).

2. La metafora viva
La metafora non è semplice epifora del nome, non è semplice operazione di sostituzione in una prospettiva linguistica di denominazione/dominazione, quanto piuttosto l’instaurarsi di una tensione tra due interpretazioni di un enunciato. È un evento, per Ricoeur, che si manifesta nel punto di intersezione tra diversi campi semantici: è il contesto delle relazioni nell’enunciato a far sì che la metafora abbia lo statuto di evento (cfr. ivi, p. 131). La metafora non è una creazione dal nulla. Essa è un trascendersi del già detto nel dicibile: senza le aperture del sistema, senza il carattere polisemico delle parole[4], non sarebbe possibile che accadesse. È un’innovazione semantica perché emerge come estranea all’ordine del già detto; non è norma e quando la sua costruzione viene ripetuta, una volta ordinata, non si dà più come evento, non è più viva. Si può ripetere la struttura di una metafora, ciò che è venuto al linguaggio, il contenuto, ma non il venire stesso al linguaggio che essa mette in scena, questo non può essere reificato. La metafora viva rivela l’autentico venire al linguaggio del linguaggio, ha a che fare con il modo di essere del linguaggio, con la sua costitutiva creatività, è la manifestazione di questo modo. L’evento, come dice Waldenfels, va sempre oltre il contenuto e come tale non può essere esaurito (cfr. 2011, p. 124). L’estraneo trascende sempre l’ordine. Quando dal “mutamento” di senso si giunge al “cambio” linguistico, quando dal piano diacronico delle possibilità del sistema si passa a quello sincronico della norma, la metafora è morta. Il mutamento è sempre momentaneo, accade ed è unico e irripetibile nella sovrabbondanza del suo accadere. Quando viene ripetuto e quindi adottato, quando diviene cambio sistematizzato, ordinato, non eccede più, non trasborda i limiti del sistema giacché è entrato a farne parte. Ricoeur dice perciò che solo le autentiche metafore, cioè le metafore vive, sono al tempo stesso evento e senso (cfr. ivi, p. 131).
La riflessione ricoeuriana sulla metafora compie, come si evince già da quanto detto, una profonda revisione delle tesi classiche che vedono la metafora come un tropo riguardante la denominazione, ancorata dunque a un nome esteso per via di uno slittamento del significato letterale. La semplice sostituzione di un significato letterale con uno figurato prospettato dalle teorie classiche non può bastare a spiegare il mutamento radicale a cui la metafora dà vita: il significato letterale sostituito potrebbe essere sempre ristabilito senza che si produca alcuna innovazione semantica. La metafora è stata considerata un artificio retorico che non ci informa sul reale, che non amplia la nostra capacità di cogliere aspetti, che non ci permette di comprendere il mondo diversamente, che non aggiunge alcunché al nostro esserci.
Di contro a tutto ciò, Ricoeur dice che la metafora non è un semplice spostamento del significato delle parole, bensì è un fenomeno di predicazione che si produce all’interno di un enunciato nel quale si instaura una tensione tra tutti i termini. Prima che riguardare una singola parola, essa riguarda l’intera frase e la tensione che si viene a creare è una tensione tra interpretazioni contraddittorie: «la metafora non esiste in se stessa, ma in un’interpretazione. L’interpretazione metaforica presuppone un’interpretazione che si autodistrugge. L’operazione metaforica consiste nel trasformare una contraddizione che si autodistrugge in una contraddizione piena di significato» (1978, trad. it., p. 149). Assistiamo così a un movimento di torsione della parola nell’enunciato, mediante la quale si avvicina ciò che era distante, appare una parentela laddove non c’era alcuna affinità; si fonda una somiglianza, la quale più che fondare la metafora, sembra fondarsi in essa: appare, accade, senza poter ridurre l’eccedenza, senza poter assimilare l’estraneo.
Nella metafora, basata sulla tensione, a differenza di quanto creda una sterile teoria della sostituzione, emerge quindi un nuovo senso che riguarda l’intero enunciato: la tensione tra due interpretazioni produce un’autentica creazione di senso, che resta intraducibile e inesauribile nell’evanescenza del suo apparire. È un momento che non si lascia ripetere nella singolarità del suo darsi se non al prezzo di decretare la morte della metafora. L’innovazione di senso che sgorga da una nuova predicazione semantica, permette alla metafora di dire altrimenti la realtà, di ristrutturarla, di dire qualcosa di nuovo su di essa (cfr. ivi, p. 151).

3. Vedere-come: così muta il senso di ciò che resta estraneo
La metafora crea una somiglianza mutando la distanza tra termini che in un primo momento, nello spazio logico, erano lontani e poi, improvvisamente, appaiono vicini. È una sintesi predicativa che mette in moto l’immaginazione. L’impertinenza predicativa salta all’occhio e noi veniamo co-in-volti, com-presi, prima ancora di giungere a un faccia a faccia con essa, prima di poterla ordinare in una contrapposizione soggetto-oggetto, di poterne estrarre/astrarre un contenuto di conoscenza ripetibile, di poterla costituire come nuova pertinenza. Il saltare all’occhio, detto in tedesco auffallen, è, come dice Waldenfels, il sopraggiungere di un accadimento e non ha niente a che vedere con gli atti intenzionali; non è un atto ascrivibile a me, bensì è «un venire pieno di ricchezza, poiché esso è ciò che mette in moto un’esperienza o un processo» (2011, p. 46). Esso è, direbbe ancora Waldenfels, un patire che mette in moto un’esperienza, un apprendimento, un’azione che si istituiscono proprio come contro elemento di tale patire.
Lo shock dell’impertinenza predicativa mette in moto una nuova pertinenza. La metafora è un evento da cui veniamo affetti, “affetto” nel senso di “af-fetto da”, è infatti un’altra parola a cui Waldenfels ricorre per descrivere l’accadere dell’estraneo. In questo accadere c’è un qualcuno, ma non in quanto Io osservatore, in quanto Soggetto, bensì in quanto “a me”, come oggetto coinvolto nell’evento (cfr. ivi, pp. 46-47): la metafora “mi” accade e può dirsi, perciò, metafora dell’estraneo. E questo accadimento, “improvviso”, ci interpella: a questa chiamata noi rispondiamo con la nuova pertinenza, con una normalizzazione di senso. Tale risposta tuttavia conserva sempre un’asimmetria rispetto al pàthos dell’evento: è un tentativo di assimilazione, di sistematizzazione, che, per quanto necessario visto che senza di esso non si rivelerebbe mai l’inedito, è destinato a fallire per via dell’inesauribile sovrabbondanza che caratterizza l’accadimento.
L’evento, come illustra ancora una volta Waldenfels, accade sempre troppo presto rispetto alla risposta anche se, tuttavia, senza il troppo tardi della risposta non potrebbe entrare in scena[5]. Per quanto Ricoeur scriva che la metafora sia la soluzione di un enigma, pare che tra evento e risposta vi sia un irrisolvibile, seppur ineludibile, differimento temporale. E che pertanto la soluzione sia destinata a mostrarsi momentanea o comunque non esaustiva. Nel momento in cui il senso entra in scena, si sta già sottraendo all’esaustività della risposta; nel momento in cui l’impertinenza metaforica si rivela, sta già rifuggendo la sistematizzazione in una nuova pertinenza. Non a caso, come dice lo stesso Ricoeur, la metafora è intraducibile (1975, trad. it., p. 117).
Evento, páthos, e senso, “risposta”, non sono riducibili l’uno all’altro: è nell’asimmetria del loro improvviso saltare all’occhio che si manifesta l’estraneo, che si dà la metafora viva. Come rispondiamo all’impertinenza semantica che ci investe? Con l’immaginazione, con l’appercezione, produciamo, in modi diversi, una pertinenza nella non pertinenza. L’immaginazione dà un’immagine al senso emergente, schematizza l’inedito che appare, ce lo mette davanti agli occhi (cfr. ivi, p. 264). Immaginare è qui “vedere-come”. Improvvisamente, dice Ricoeur, vediamo la vecchiaia come la sera del giorno, il tempo come un mendicante, etc. Si sospende la norma, il già detto, il già visto, il già sentito, li si neutralizza nell’elemento della finzione (1986, trad. it., pp. 210-212).
La metafora, con il suo carattere iconico, costituisce un momento esemplare per mostrare i limiti di una teoria della significazione verbale. In essa infatti si dà, in maniera del tutto singolare, il legame tra un momento logico e un momento sensibile, tra un momento verbale e un momento non verbale: è il momento in cui il senso si salda al sensibile, si fonde con i sensi (cfr. Ricoeur 1975, trad. it., pp. 275-277). Il “vedere-come”, scrive Ricoeur, «è la relazione intuitiva di questa fusione» (ivi, 277).
Per quanto Wittgenstein non si riferisca alla metafora, bensì prenda in considerazione figure ambigue come quella lepre-anatra, la sua analisi sul vedere-come ci dice qualcosa di rilevante ai fini della nostra riflessione. Wittgenstein sostiene, per esempio, che un conto sia dire, guardando una figura, “Questa è una lepre”, un conto sia esclamare: “Vedo una lepre!” oppure “Vedo un’anatra!”. In questo secondo caso abbiamo l’illuminarsi dell’aspetto o del mutamento d’aspetto nelle relazioni interne di una figura e tale illuminarsi è stupirsi. Da uno sfondo emerge una somiglianza. Possiamo dire che «chi guarda l’oggetto e lo vede, non necessariamente lo pensa; ma chi ha un’esperienza visiva, la cui espressione è un’esclamazione, costui pensa anche a ciò che vede» (1982, trad. it., § 553, p. 90).
C’è una differenza tra vedere soltanto e vedere-come (cfr. Wittgenstein 1953, trad. it., pp. 255-280), tra parlare/comprendere letterale, diretto, e parlare/comprendere metaforico, evocativo. Il mutamento d’aspetto in una figura, ossia il vederla per esempio ora “come” una lepre ora “come” un’anatra appare «per metà un’esperienza visiva e per metà un’esperienza di pensiero» (1982, trad. it., § 554, p. 90). Quando vedo il cambiamento d’aspetto, scrive Wittgenstein, mi occupo «di ciò che mi balza agli occhi» (ivi, § 556, p. 90) e a esso è essenziale lo stupore. Stupirsi è pensare: nell’illuminarsi d’aspetto l’esperienza del vedere non può essere separata da quella di pensiero (cfr. ivi, §§ 564-565, p. 91), dall’interpretazione dunque, così come nella metafora l’evento non può separarsi dal senso, anche qui dalle interpretazioni, da ciò che già si sa.
Potremmo dire: vedo qualcosa che non so perché so già qualcosa. Vedere-come è un vedere che è anche sapere (cfr. ivi, pp. 102; 110). Nella metafora il non è letterale, quello del noto, si accompagna all’“è” metaforico, quello dell’inedito: scrive Ricoeur ne “La metafora viva”, «considerare il tempo come un mendicante è nello stesso tempo sapere anche che il tempo non è un mendicante; le frontiere di senso sono superate, ma non abolite» (1975, trad. it., p. 283). Occorre sapere per poter interpretare: se non ci fosse un sapere linguistico non si darebbe metafora, se non ci fosse proprio non si darebbe estraneo, se non si sapesse come sono fatte una lepre e un’anatra non le si potrebbe vedere entrambe nelle relazioni della stessa figura. Se qualcosa non restasse immutato, qualcosa che già conosciamo, non ci sarebbe mutamento, non emergerebbe il nuovo (cfr. Wittgenstein 1982, trad. it., p. 82). Qual è il criterio, chiede Wittgenstein, dell’esperienza visiva? Egli risponde che tale criterio è «la riproduzione di ‘ciò che viene visto’» (ivi, § 563, p. 82). Ma nel “vedere-come” il visto si trascende sempre nel visibile, in ciò che si può vedere e pensare allo stesso tempo. Vedere-come è vedere in conformità a un’interpretazione. La metafora, dice infatti Ricoeur, come abbiamo già visto (cfr. p. 4), esiste in un’interpretazione.
Lo schema iconico di una figura, una foto, un quadro, non può eludere il verbale nel suo manifestarsi, non può eludere il logico, il sensato: ci chiama cioè a vedere e pensare allo stesso tempo, per poi trascendere, sempre di nuovo, il visto, il pensato. Nell’immagine ambigua la somiglianza è già data, emerge dallo sfondo, fa parte del contesto, fa parte dello schema a partire dal quale si devono strutturare i mutamenti d’aspetto, o come sarebbe forse meglio dire, i cambiamenti d’aspetto[6]: in essa uno schema sensibile si fonde con il senso o i sensi. L’immagine ambigua, quindi, è già uno schema logico: una volta strutturati i sensi, la somiglianza, in quanto schema preesistente nell’isotopia del contesto, perdura. Questo non vale però per le opere d’arte per esempio. Non vale per ciascun vedere-come. Non vale neanche per la metafora, per cui la somiglianza viene costruita, non è data, ed è destinata a rivelarsi effimera giacché assimila ciò che resta radicalmente inassimilabile, elementi cioè che non possono essere ridotti l’uno all’altro: estraneo che non può essere ridotto a proprio, extralinguistico che non può essere ridotto a linguistico, sensibile che non può essere ridotto a logico; sono i sensi che si fondono con il sensibile che già sempre, all’infinito, li travalica.
Lo stesso Wittgenstein in un suo aforisma scrive che la somiglianza ci colpisce e poi l’esser colpiti svanisce, ci colpisce per pochi minuti e poi non più (1982, trad. it., § 714 p. 112). In un passo che Ricoeur dice di considerare il più importante di tutta l’opera “La metafora viva”, leggiamo che, «a differenza della comparazione logica, che per definizione resta nell’isotopia del contesto – non si confronta quantitativamente se non con ciò che è confrontabile – l’analogia semantica instaura un rapporto tra un elemento appartenente all’isotopia del contesto ed un elemento che ne è estraneo e che, per questa ragione, costituisce l’immagine» (1975, trad. it., p. 246). La metafora non è un’immagine che genera senso, bensì un senso che genera immagine: essa è un nuovo essere del nostro linguaggio che ci esprime facendoci diventare quanto esprime (cfr. ivi, p. 284), è una metamorfosi che accresce il nostro esserci. Mentre nella figura lepre-anatra l’estraneo è contenuto, è già schematizzato, è già logico, non è radicalmente estraneo, non trasborda, nella metafora esso è da schematizzare, o meglio, è il limite di tale schematizzare, il limite del senso, del logico, della nuova pertinenza con cui rispondiamo all’impertinenza: è ciò che resta.
L’estraneo irrompe nel proprio, ma resta radicalmente estraneo: non è pensando di assimilarlo, pensando di renderlo del tutto proprio, sensato, che possiamo perciò riferirci a esso. Quanto piuttosto accogliendolo nell’originarietà del suo manifestarsi e del suo costituirci insegnandoci che nessuno è padrone in casa propria: non siamo padroni della lingua che si trasforma trasformandoci; non siamo pertanto padroni di noi stessi che mutiamo al mutare delle strutture linguistiche in cui ci rappresentiamo con gli altri e in cui il mondo si rivela a noi. Non siamo padroni né degli altri né del mondo, irriducibili nella singolarità del loro apparire sempre altrimenti. La nostra risposta all’estraneo giungerà sempre troppo tardi.
Sapere che il fenomeno dell’estraneo eccede irrimediabilmente il proprio, non lascia essere le identità, trasborda l’ordine, e che tuttavia è sempre nel proprio, nell’ordine, che esso si rivela a noi, come ci mostra la metafora, vuol dire sapere che i nostri ordini non sono così puri, immutabili, come possiamo averli pensati; se così fosse infatti non muterebbero e dunque neppure continuerebbero. Ogni mutamento, dice Ricoeur, «implica l’intero dibattito dell’uomo che parla e del mondo» (ivi, p. 167). L’irriducibilità dell’estraneo che ci sorprende, permette di ridescriverci e di ridescrivere il reale; l’apparire dello stra-ordinario ci consente di mutare l’ordinario e in quanto tale non è fenomeno da azzerare, da negare, da combattere. L’estraneo deve essere accolto in quanto elemento per noi vitale.

Riferimenti bibliografici
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Note
[1] Il presente saggio è esito di un intervento al Convegno Internazionale Attraverso la crisi e il conflitto. Pensare altrimenti con Paul Ricoeur, tenutosi presso l’Università del Salento, Lecce, dal 24 al 27 Settembre 2012.
[2] Risuona qui la distinzione di Eugenio Coseriu tra “norma”, la totalità delle realizzazioni obbligate, il già detto, e “sistema”, le possibilità, le strade aperte e quelle sbarrate di un parlare comprensibile nella comunità (cfr. 1958, trad. it., p. 37).
[3] Noi non spieghiamo sempre i segni, ovvero non ricorriamo per esempio alle definizioni delle parole ogni volta che parliamo e comprendiamo. Quando incontriamo un segno che non conosciamo, non comprendiamo o fraintendiamo, allora ci fermiamo a chiedere spiegazioni e a fornire definizioni (cfr. Wittgenstein 2000, trad. it., pp. 151-175 e Simon 1989).
[4] Ricoeur scrive che la polisemia «sta ad indicare che nelle lingue naturali l’identità di una parola in rapporto alle altre ammette, allo stesso tempo, una eterogeneità interna, una pluralità, tale che consente alla stessa di ricevere accezioni differenti secondo i contesti» (1975, trad. it., p. 153).
[5] Scrive Waldenfels che «fra páthos e risposta c’è sempre uno iato, di modo che una risposta è sempre una risposta che scaturisce sì da un páthos, ma che tuttavia è creativa, poiché è essa a dover inventare come e cosa rispondere. In tal senso, una risposta non crea “ciò a cui” risponde, non crea cioè il páthos; crea però “ciò che” risponde». E continua dicendo che «il páthos si introduce sempre come un troppo presto rispetto alla mia possibilità di reazione, poiché, se così non fosse, l’effetto di sorpresa del páthos stesso svanirebbe e non si tratterebbe più di un páthos. Dall’altro lato la risposta entra in scena sempre troppo tardi, poiché altrimenti non sarebbe una risposta a un qualcosa che la precede». Possiamo perciò dire che «il rapporto tra páthos e risposta si dà nei termini di un differimento temporale originario, ovvero come un “troppo presto” del páthos che però riesce a entrare in scena solo attraverso il “troppo tardi” della risposta. Infatti un páthos che non trovasse risposta non entrerebbe mai in scena, poiché mancherebbe di un nesso attraverso cui manifestarsi» (2011, p. 50).
[6] Sulla differenza tra cambiamento e mutamento a cui si vorrebbe qui provare ad accennare, possiamo dire che mentre la parola “cambiamento” ci fa pensare più a una sostituzione di un’immagine con un’altra già interna alle configurazioni del sistema, la parola “mutamento” ci lascia immaginare il sopravvenire di un qualcosa (dall’esterno) che rompe lo schema ordinario mutandone la configurazione (cfr. p. 5).

* Moira De Iaco (Lecce, 1985) è attualmente Cultrice della Materia (Storia della Filosofia Contemporanea) all’Università del Salento. Ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Teoria del Linguaggio e Scienze dei Segni presso l’Università di Bari con una tesi intitolata “Solipsismo e alterità. Wittgenstein e il mito dell’interiorità”, pubblicata da Pensa nel 2013. Si è laureata all’Università «La Sapienza» di Roma in Filosofia nel 2007 e in Filosofia e Studi teorico-critici nel 2009. Si occupa di Filosofia Contemporanea, Filosofia del Linguaggio, Estetica, indagando principalmente la filosofia wittgensteiniana.

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One thought on “Mutamenti di senso e vedere-come. Ricoeur, Wittgenstein, Waldenfels

  1. Creare ponti di rapporti di senso è uguale a comparare espressioni significanti. “Come il … così …” Il loro dispiegarsi è pregno di variegate sfaccettature, tanto da creare rapporti lineari, che riescono a sorreggere armonie stilizzate.

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