> di Laura Sugamele*
Tra gli anni Sessanta e Settanta il movimento femminista ebbe la capacità sorprendente di mettere a nudo «la costruzione del corpo sessuato che si compie attraverso la formulazione di regole giuridiche e di codici sociali» (Nivarra, p. 372). Le tesi di fondo del femminismo radicale si incentrarono su uno scardinamento dei rapporti di genere nella società (atti a mantenere inalterate le differenze tra i sessi), ma soprattutto su una decostruzione della sessualità e del ruolo femminile connesso esclusivamente al destino biologico.
Considerando tale prospettiva, l’oppressione della donna viene sostanzialmente ravvisata in un costante controllo che, dal punto di vista culturale e sociale, l’ideologia patriarcale ha attuato sia in corrispondenza di un certo normare i comportamenti e le abitudini generalmente considerate accettabili, sia nello specifico, in funzione della riproduzione e della maternità la donna, definendola e categorizzandola come soggetto subordinato all’uomo e di un consolidamento dei ruoli di genere (sociali e familiari).
La critica teorica e politica operata dal femminismo radicale fece emergere, quindi, una reale opposizione tra pubblico e privato e tra ruoli maschili e femminili.
Questa opposizione non solo ha svalutato il desiderio femminile, ma ha anche sottolineato «il carattere ‘predatorio’ della maternità imposta alla donna» (Nivarra, p. 371).
Tale condizione ha avuto sostanzialmente un effetto negativo, ovvero il produrre sia una negazione della soggettività della donna, che una definizione della sua sessualità come strumento di riconoscimento estetico, linguistico e culturale, attraverso il quale la società maschile ha da sempre imposto un controllo, al fine di determinare una categorizzazione gerarchica dei ruoli maschili-superiori e femminili-inferiori e, dunque, tra ruoli pubblici e ruoli privati.
In particolar modo, la radice dell’oppressione delle donne viene ricondotta ad una spiegazione delle differenze biologiche, che adoperata per una interpretazione delle differenze sociali dei sessi, ha condotto ad un loro condizionamento e ad assumere un ruolo specifico nella società, quello di moglie e madre, escludendole dallo spazio pubblico e politico.
«Nell’ordine patriarcale la donna viene oppressa nella psicologia stessa della femminilità; quest’oppressione si manifesta allorquando questo ordine viene mantenuto solo in maniera assai contraddittoria. Le donne devono organizzarsi come gruppo per poter realizzare un cambiamento nell’ideologia di base della società umana. Per poter essere efficace, la loro azione non potrà esaurirsi in una sfida, pur legittima, alla pura e semplice dominazione da parte dell’uomo […] ma dovrà consistere in una lotta basata sulla teoria della non necessità sociale, a questo livello di sviluppo, delle leggi istituite dal patriarcato» (Cavarero, Restaino, p. 159).
La concettualizzazione teorica e politica operata dal femminismo radicale, assume la forma di una disamina critica della connessione storica e socio-culturale che vi è tra eterosessualità e patriarcato. Da una parte, l’eterosessualità viene individuata come struttura di consolidamento delle disuguaglianze di genere; dall’altra parte il patriarcato è esaminato invece come elemento storico-culturale che ha favorito l’accesso degli uomini alla vita pubblica e che, attuando un controllo sulla sessualità delle donne, le ha in tal modo svantaggiate.
In quest’ottica, il fronte politico femminista connette la dimensione della sessualità con il potere. Quest’ultimo è individuato dal femminismo come dimensione pervasiva, che ha prodotto un controllo sulla sessualità dalla sfera privata e familiare a quella pubblica e sociale, diventando così dispositivo di controllo e di oppressione delle donne.
La sessualità, come istituzione sociale e simbolica è dunque, il luogo primario del potere maschile sulle donne.
Il potere patriarcale si è infatti legittimato, storicamente e culturalmente, attraverso rappresentazioni maschili forti e femminili definite invece per negazione, proiettando sulla donna per lo più solo qualità svalorizzanti legate al sentimentalismo e alla fragilità.
Difatti, l’impossibilità per le donne di percepirsi come soggettività pensante nelle capacità e competenze sociali e professionali, alla pari degli uomini, porterà le femministe tra gli anni Sessanta e Settanta a delle battaglie civili e all’emergere della voce femminile in politica.
Fautore di una cultura dell’ineguaglianza, secondo la femminista Adriana Cavarero, è stato un certo androcentrismo istituzionalizzato che, storicamente, ha accordato priorità ad un modello sociale maschile investendo tutti i settori dal diritto, all’economia, alle politiche pubbliche.
Questa polarizzazione dei ruoli e delle competenze al maschile ha condotto ad una strutturazione bidimensionale poggiante sul sistema sesso-genere, essenzialmente asimmetrica e che dal punto di vista storico, sociale e antropologico, ha gerarchizzato i ruoli maschili e femminili attorno a dei posizionamenti ben definiti, laddove la naturalizzazione biologica della differenza sessuale ha costituito solo uno strumento di giustificazione del potere maschile.
In particolare, il femminismo anni Settanta si contraddistinse per un’attenta osservazione sulle caratteristiche oppressive della sessualità femminile.
Per una considerazione sulla staticità gerarchica in seno al rapporto uomo-donna, l’analisi femminista di questo periodo si rivolse, sia ad individuare la sessualità come dispositivo del potere maschile che ad evidenziarla quale nodo centrale dove la cultura patriarcale ha esercitato un controllo, provocando principalmente la negazione della soggettività femminile.
In sostanza, la critica femminista radicale propose una visione della relazione uomo-donna, caratterizzata da un’ideologia dell’oggettivazione sessuale, nel senso che secondo questa prospettiva, gli uomini si pongono come soggetti e le donne come oggetti, in un rapporto che supporta e giustifica il controllo sessuale maschile e la violenza contro di esse.
Ad esempio alcune femministe come «Ti-Grace Atkinson e Kate Millet hanno considerato le relazioni sessuali-amorose in primo luogo come sociali. Hanno cominciato a sottolineare l’esistenza di politiche di riproduzione e di piacere che avevano come obiettivo la definizione da un lato dell’organizzazione sociale quotidiana basata sulla differenza (meglio dire disuguaglianza) di genere, dall’altro dell’ordine eterosessuale» (Inghilleri, Ruspoli, 79). Inoltre, in questa fase storica, fattore di notevole importanza che diede concretamente nuova vitalità alle teorie radicali femministe, fu la formazione di alcuni gruppi di tipo associazionistico, i quali criticavano con fermezza il modello di famiglia patriarcale e proponevano invece una sessualità autonoma delle donne, riconducendo l’origine della loro subordinazione a livello politico e socio-economico, nella prevaricazione degli uomini sulla loro sessualità.
In particolare, nel contesto italiano, questi gruppi femministi portarono alla ribalta il concetto di autocoscienza, termine che venne introdotto in Italia dalla femminista Carla Lonzi (fondatrice del gruppo Rivolta Femminile) e il quale rimanda alla pratica politica delle donne di percepirsi come soggettività capace e autonoma, che il mondo maschile ha sempre cercato di surclassare.
Partendo quindi dall’esaminare lo specifico femminile, ovvero i tratti tipici della femminilità (sensibilità ed emotività) e il contesto politico, sociale e culturale in cui le donne sono inserite, la pratica dell’autocoscienza diventa un percorso di ricerca e scoperta di sé stesse in ruoli differenti dall’ambito esclusivamente privato e familiare, ma altresì relativi al settore della politica.
La negazione della sessualità femminile, avvertita dalle donne stesse come naturale, confinava nell’inconscio desideri, paure, fantasie che lo stare tra donne rimetteva ora in circolazione. La pratica dell’inconscio viene allora incontro all’esigenza di fare emergere al livello cosciente ‘il non detto’, perché solo ciò può ricreare una dialettica fra personale e politico e condurre alla liberazione dal patriarcato. Il lavoro sull’inconscio ambisce a rendere le donne capaci di propria riproduzione simbolica, di “dirsi a partire da sé”, anziché di “dirsi a partire da quello che altri dicono”. Dalla pratica dell’inconscio si muove, in altre parole, alla ricerca di un’identità capace di esprimere ‘il diverso’ rompendo la gabbia culturale delle dicotomie maschile/femminile, superiore/inferiore (Nivarra, p. 382).
BIBLIOGRAFIA
– A. Cavarero, F. Restaino, Le filosofie femministe, Bruno Mondadori, Milano 2002.
– M. Inghilleri – E. Ruspoli (a cura di), Sessualità narrate. Esperienze di intimità a confronto, Franco Angeli, Milano 2010.
– L. Nivarra, Gli anni Settanta del diritto privato, Giuffrè, Milano 2008.
* Laura Sugamele ha conseguito nel 2014 con il massimo dei voti la laurea magistrale in Filosofia e Forme del Sapere (curriculum in Scienze Filosofiche) presso l’Università di Pisa. Attualmente si occupa di ricerca in ambito di gender discrimination e diritti umani.
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