Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

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Il metodo e il contesto. La dottrina darwiniana e le ideologie parassitarie (parte II)

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> di Piero Borzini*

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Così come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti, anche in Italia la dottrina darwiniana si è inserita in un precostituito “contesto” sociale tutt’altro che uniforme ma piuttosto variegato e contrastato, costituito da paradigmi scientifici in contrasto uno con l’altro, da credenze e miscredenze religiose, da contrastanti principi sulle politiche economiche e sociali, da una varia e diversificata propensione da parte dei potentati politici, economici e religiosi all’espansione territoriale e coloniale, e così discorrendo. Queste diverse anime del contesto sociale si sono relazionate in modo vario con la dottrina darwiniana, talora cercando di combatterla, tal’altra cercando di sfruttarla generalizzandone alcuni aspetti peculiari, ma – in ogni caso – mai ignorandola e sempre accreditandola come dottrina a forte rilevanza sociale.

Nell’Italia postunitaria la teoria darwiniana assurse a pretesto di un aspro dibattito (un vero e proprio conflitto verbale e ideologico) sulla natura e sull’origine dell’uomo (creazionismo contro naturalismo): la querelle fu dibattuta tra evoluzionisti e antievoluzionisti, tra materialisti e spiritualisti, tra clericali e anticlericali, tra repubblicani e papisti, tra liberi pensatori, anarchici, marxisti e mazziniani. Il materialismo e l’evoluzionismo sconfinarono purtroppo spesso in tentazioni scientiste, dogmatiche tanto quanto lo furono le posizioni assunte – sul versante opposto – dei creazionisti. Il saggio di Antonio De Lauri intitolato La “patria” e la “scimmia”. Il dibattito sul darwinismo in Italia dopo l’Unità (Biblion Edizioni, Milano 2010) fornisce un’ottima prospettiva storica di questa querelle.
Anche tra gli scienziati – vedi per esempio il caso dell’illustre medico e senatore del Regno Paolo Mantegazza – il darwinismo assurse a segno ideologico, volendo rappresentare un ideale di progresso dell’umanità che vedeva nel selezionismo e nella continuità causale tra i fenomeni naturalistici una dimostrazione scientifica del progressionismo ideologico.
Nel 1892, il medico e psichiatra Enrico Morselli (1852-1929) raccolse in un unico volume una serie di articoli scritti da studiosi di diverse discipline e appartenenti ad aree di pensiero diverse. Questo volume intitolato Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali. Scritti vari raccolti e pubblicati per cura del prof. Enrico Morselli (Fratelli Dumolard, Milano 1892) fornisce un quadro particolarmente interessante della eterogeneità di interpretazione, spesso di natura ideologica, che la dottrina darwiniana ha avuto su parti importanti della cultura italiana 7. Sebbene gli scritti raccolti da Morselli datino a più di centoventi anni fa (essendo stati scritti in prevalenza prima del 1890), parte del loro contenuto è ancora sorprendentemente attuale.
L’attualità di questi scritti riguarda il nocciolo duro di questo mio intervento, vale a dire il darwinismo inteso: 1) come metodo da estendere eventualmente a discipline originariamente estranee al naturalismo darwiniano; 2) come paradigma di interpretazione del cosmo; 3) come legge naturale e universale assunta a sostegno scientifico di qualunque genere di ideologia. Su questi temi, le opinioni espresse dagli autori dei saggi raccolti da Morselli sono eterogenee e se ne riportano qui di seguito alcuni stralci significativi.

Tito Vignoli (1829-1914) fu un filosofo dagli ampi interessi scientifici tanto che dal 1892 al 1911 egli diresse il Civico Museo di Storia Naturale di Milano. Per Vignoli il darwinismo assurge a “metodo” e, come tale, esso rappresenta una rivoluzione che va ben oltre la sfera puramente scientifica. A proposito del darwinismo, Vignoli afferma che “sfolgorerà di luce sempiterna e durerà come organo sempiterno del sapere. Perché Darwin è un ‘metodo’, come un ‘metodo’ fu Galileo […] che assieme a Bacone spezzò l’antica raffigurazione mistica del mondo8.
Anche per lo stesso Enrico Morselli il darwinismo assurge a metodo, un metodo monistico che – nel contesto del razionalismo neoilluministico e liberale di fine Ottocento – si candidava a coprire le esigenze gnoseologiche riguardanti ogni genere di rappresentazione della realtà che ci circonda: “E però, dopo che Carlo Darwin ebbe trovato la base scientifica del trasformismo biologico, […] la teoria dell’evoluzione non poteva tardare a divenire il legame nel quale e pel quale tutte le branche del sapere si unificavano allo stesso modo con cui si dispone e coordina – uno e continuo nella scienza umana – il complesso delle rappresentazioni del cosmos. […] La dottrina evoluzionistica resterà ciò che essa è presentemente: il vincolo metodico per tutte le concezioni cosmologiche, il nesso fra tutte le parti del sapere, l’espressione sincera e perenne del generalissimo tra i principi filosofici, quello della continuità causale tra i fenomeni e con ciò l’unificazione del mondo dello spirito col mondo della materia9.
Coloro i quali simpatizzano per la discutibile teoria di Richard Dawkins della corrispondenza tra gene e meme, replicatore, il primo, della variabilità delle informazioni biologiche e replicatore, il secondo, della variabilità delle informazioni riguardanti il pensiero (vedi oltre), troverà nel filologo Gaetano Trezza (1828-1892) un notevole anticipatore dello stesso Dawkins, almeno per quanto riguarda la filogenesi delle forme linguistiche. Afferma Trezza: “Il linguaggio, dunque, costituisce una realtà storica, mobile sempre, trasmutabile sempre a forme più idealmente vere. Le leggi biologiche di Darwin si confermano mirabilmente nella storia morfologica del linguaggio stesso. Chi ne studia l’embriogenia vi ritrova quell’unità di composizione che, pur sotto la diversità della forma, ci manifesta il processo meccanico nelle lingue come nelle specie fisiche10.
Molto articolato è il pensiero dell’economista Achille Loria (1857-1943) sulle relazioni tra il darwinismo e le leggi economiche e su quelle tra il selezionismo darwiniano e le istanze ideologiche del darwinismo sociale. A proposito delle relazioni del darwinismo con le leggi (o con le teorie) economiche, Loria tratteggia alcuni importanti precedenti storici e sottolinea – credo per primo – l’aspro contrasto tra due opposte interpretazioni di tali relazioni: quella di tipo malthusiano (con i suoi precedenti pre-malthusiani), che immagina del tutto coerente l’applicazione del darwinismo alle leggi economiche (tesi per la quale parteggia anche Enrico Morselli), e quella di impronta socialista sul cui versante moderato lo stesso Loria si schiera. A proposito delle origini pre-malthusiane delle relazioni tra darwinismo e teorie economiche e della visione che anticipa le teorie del darwinismo sociale, Loria afferma: “Il pastore anglicano Townsend esponeva una teoria della popolazione in cui la lotta per l’esistenza tratteggiavasi come l’effetto della procreazione eccessiva e come risultante al trionfo degli individui più forti11, 12.
Nella sua visione improntata al socialismo moderato, a proposito del rapporto tra darwinismo ed economia Loria spende una serie di riflessioni particolarmente interessanti, specie se si tiene conto che tali riflessioni in quegli anni andavano decisamente controcorrente. Tali riflessioni partono da un’introduzione storica sulle connessioni tra le dottrine darwiniane e la loro applicazione in campo economico: “Lo scrittore al quale spetta il merito di avere per primo tentato una geniale applicazione del darwinismo alla scienza economica è l’eminente filosofo F.A. Lange la cui opera sulla questione operaia è indubbiamente la più felice associazione fra l’economia politica e il darwinismo. Lange sostiene che la contesa odierna [seconda metà dell’Ottocento] tra il capitale e il lavoro non è che l’ultima manifestazione della lotta per l’esistenza, di cui l’antropofagia primitiva, la schiavitù e il servaggio sono le precedenti e più brutali manifestazioni […] e che la mortalità tra le classi povere non è che il risultato tra lo squilibrio tra la quantità delle sussistenze limitata e crescente con lentezza e l’accrescersi accelerato ed energico delle popolazioni brulicanti13.
Infine, Loria contrappone in modo dialettico le due diverse visioni per condannarne una senza riserve e per sostenere l’altra: “Se invece, col darwinismo, ravvisate nella misura il risultato dell’evoluzione storica, voi potete rivolgervi alle classi lavoratrici e dir loro: «non odiate, non combattete le classi proprietarie, perocché son così irresponsabili della loro ricchezza come voi della vostra povertà, perocché la vostra condizione rispettiva è ineluttabile prodotto di un’epoca, e contro il fato che la regge i vostri sforzi verranno indarno a infrangersi. […] Ma non sarò giudicato irriverente alla memoria del grande britanno se affermo che troppe e troppo affrettate applicazioni della teoria darwiniana si fecero e si rifanno nella scienza nostra, e se per mia parte mi oppongo a una applicazione sociale del darwinismo nella sua più ampia portata. […] Imperocché, se è giusto ammettere che la evoluzione sociale o superorganica si compie per la medesima causa che la evoluzione organica per l’incremento della popolarità, è irrazionale l’ammettere che questa causa agisca per identico modo nello sviluppo dell’organismo umano e dell’organizzazione sociale. […] Sovente ci incontriamo nell’asserto che la teoria darwiniana è giustificatrice delle ineguaglianze sociali. Imperocché la natura, dicono, è aristocratica e impone all’economia tutta del cosmo la disparità delle condizioni come legge di progresso e di vita. […] Se voi asserite che la natura, pel darwinismo, è aristocratica e perciò è giusta e naturale l’aristocrazia, io vi risponderò che la natura, pel darwinismo, è omicida e che perciò l’omicidio dee pur trovare nel sistema darwiniano la più completa giustificazione14.
A questo medesimo periodo storico appartiene un altro contributo rilevante da parte di un intellettuale italiano al connubio “metodo-contesto”: anche in questo caso il “metodo” è la dottrina darwiniana, mentre il “contesto” è quello dell’antropologia criminale.
Cesare Lombroso (1835-1909) applicò in maniera positivistica e deterministica alcuni concetti delle teorie evoluzionistiche alle teorie riguardanti l comportamento criminale. Le sue conclusioni – apparentemente dotate di una coerenza logica e scientifica inappuntabile – contribuirono in modo determinante a fare dell’evoluzionismo e dell’ereditarietà un paradigma di interpretazione in ambito antropologico. Gli echi delle teorie lombrosiane sono tuttora vivi e non cessano, di tanto in tanto, di riapparire in forma varia nelle politiche sociali che si rifanno al darwinismo sociale. A determinare il grande successo delle teorie lombrosiane è stato l’aver trasferito il materialismo deterministico dall’ambito darwiniano delle scienze naturali al territorio delle scienze umane, considerate queste un territorio molto prossimo alle scienze biologiche e, pertanto, ugualmente soggetto al materialismo deterministico 15. In alcune delle sue opere (L’uomo criminale, 1875; L’uomo delinquente, 1876) Lombroso si riallaccia all’opera di Galton che dimostrava “scientificamente” l’ereditarietà delle caratteristiche psichiche e mentali dell’uomo (Hereditary talent and character). Dalle dottrine darwiniane Lombroso aveva tratto il concetto di “reversione”. Darwin – che non poteva conoscere i meccanismi dell’ereditarietà scoperti da Gregor Mendel – utilizzava il termine reversione per descrivere la ricomparsa occasionale in alcuni individui (piante e animali) di caratteri morfologici ancestrali non presenti nei genitori. Immaginando che la “reversione” costituisse una sorta di legge naturale di “ritorno alle origini”, Lombroso spiegava l’emergere in alcuni individui – i criminali – di comportamenti aggressivi, violenti e prevaricatori, propri dei bruti primitivi. Va da sé che tali spiegazioni apparivano “scientificamente provate” ed erano perfettamente funzionali tanto alle politiche di isolamento e di eliminazione dei caratteri negativi, quanto al contesto costituito dall’organizzazione sociale contemporanea a Lombroso. Anche con Lombroso, quindi, “metodo” e “contesto” vanno a braccetto, e anche in questo caso tale connubio genera conseguenze alquanto discutibili.
Dopo aver doverosamente citato il contributo italiano al dibattito sul rapporto tra darwinismo e società, si può tornare convenientemente alla contemporaneità riprendendo il filo del discorso là dove lo si era lasciato parlando dello “sdoganamento” dell’espressione “darwinismo sociale” operata da Richard Hofstadter. Parlando di contemporaneità e di darwinismo sociale il pensiero non può andare che a Richard Dawkins e a Eduard Osborne Wilson.
Nel 1976, il biologo inglese Richard Dawkins (1941) pubblicò un saggio intitolato The Selfish Gene (Il Gene Egoista): questo saggio ebbe un enorme successo. Rifacendosi esplicitamente al selezionismo darwiniano, Dawkins applicava il principio della selezione naturale alla genetica affermando che non sono tanto i fenotipi, gli individui e le specie più adatti a essere selezionati, quanto, piuttosto, i geni. La selezione dei fenotipi, degli individui e delle specie è lo strumento operativo attraverso cui viene selezionata l’informazione genetica: l’ambiente e le specifiche contingenze storiche fungono da motori della selezione dei geni. Poiché l’uomo non è formato solo da sostanza organica ma anche da intelletto, il meccanismo selettivo si applica anche alle idee che risultano più adatte all’ambiente e alle contingenze. Le idee, però, altro non sono che l’espressione fenotipica (individuale o collettiva) di un certo genere di informazione, quella intellettuale. All’“unità fondamentale” di questo tipo di informazione Dawkins ha attribuito il nome di “meme”. Con questa operazione Dawkins pone un parallelismo cogente tra l’evoluzione attraverso la selezione delle strutture fisiche dell’uomo e una analoga evoluzione per selezione delle idee che costituiscono la “materia” su cui si basa il progresso sociale e culturale dell’uomo. Su questo presunto parallelismo si è molto discusso e occorrerebbe troppo spazio per discuterne qui e ora. Qui voglio solo rimarcare il trasferimento di domino operato da Dawkins del selezionismo darwiniano, da quello della fisicità corporea a quello della idealità. Ora appare abbastanza evidente che al biologo Dawkins il naturalismo originale di Darwin non è sufficiente a spiegare la natura dell’uomo. Per Dawkins, come per molti altri, l’uomo ha una doppia natura: naturale da una parte, intellettuale, culturale, spirituale dall’altra. Entrambe le nature soggiacciono però a un unico meccanismo evolutivo e ordinatore: il selezionismo darwiniano. Tutto ciò richiama abbastanza apertamente il punto di vista di Galton che considerava ereditarie le doti intellettuali, ma richiama in parte anche il punto di vista di Alfred Wallace che, alla fine, non era riuscito ad abbandonare una visione dualistica – naturale e spirituale – dell’essere umano, confermando l’idea di una natura del tutto speciale dell’uomo nei confronti di tutti gli altri esseri viventi. Dawkins attribuisce pertanto al selezionismo darwiniano il ruolo di “algoritmo universale”. In questo senso, però, Dawkins non è nemmeno del tutto originale perché fu per certi versi preceduto da Wilhelm Wundt (1832-1920), uno dei padri fondatori della psicologia. Per Wundt, sono i costrutti psichici e i motivi psicologici che emergono nella mente dell’uomo a condizionare le relazioni tra gli individui e quelle tra gli individui e l’ambiente: le funzioni psichiche – che Wundt considerava alla stregua di strutture latenti nella mente – sono soggette a selezione, il progresso morale e sociale dell’uomo dipendendo in parte da questo tipo di selezionismo.
Se Dawkins si affida al naturalismo considerando in modo paritetico l’evoluzione per selezione naturale tanto del soma quanto delle idee, Eduard Osborne Willson (1929) porta il “metodo”, ovvero la dottrina darwiniana, dritto dritto nel “contesto” dello studio del comportamento sociale creando il termine e la disciplina della “sociobiologia”. Come disciplina, la sociobiologia cerca nelle leggi della biologia evoluzionistica gli algoritmi che determinano il comportamento degli uomini (e degli animali). La sociobiologia come disciplina assume il sociodarwinismo come ideologia assegnando determinismi naturalistici alla genesi dei comportamenti umani. Assumere principi biologici e leggi naturalistiche come motore del comportamento dell’uomo allevia il principio di responsabilità e fa sì che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo possa essere considerato come l’ineluttabile risultato di un determinismo naturalistico. A questa deriva sociodarwinistica sembrano applicarsi magnificamente le parole profetiche di Achille Loria “e perciò l’omicidio dee pur trovare nel sistema darwiniano la più completa giustificazione”, pronunciate cinquant’anni prima dell’emergere della dottrina sociobiologica di Eduard Wilson.

Dopo tutta questa spatafiata urge arrivare ad una conclusione.

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Adattare ogni possibile “metodo” a ogni possibile “contesto” è una prerogativa dell’intelligenza inferenziale umana. Questa intelligenza sostiene la capacità di ideazione ed è alla base di tutti i successi ottenuti dalla specie e – ahimè – anche di tutte le immani tragedie che l’uomo ha generato con le sue proprie mani. Associare un metodo a un contesto è il risultato di un “costrutto” mentale. Dušan Stojnov definisce il “costrutto” con queste parole: “I costrutti sono operazioni mentali personali che discendono da e implicano le discriminazioni (interpretazioni delle somiglianze e delle differenze) compiute dall’individuo in tutta la sua esperienza biografica. […] I costrutti, come tali, sono idiosincratici, variando da persona a persona” (Stojnov D., 2015) 16. I costrutti, quindi, sono prodotti individuali: essi possono essere volontari (generati deliberatamente) o involontari (generatisi spontaneamente grazie a inferenze automatiche). In ogni caso, la responsabilità individuale nasce quando un costrutto viene comunicato ad altri o viene utilizzato, metodologicamente, per trarne conseguenze. Oltre alla responsabilità individuale di chi genera un costrutto, vi è anche la responsabilità, individuale e collettiva, di cui si grava chi utilizza – per qualsiasi fine – quel certo costrutto. Con questo intendo semplicemente dire che, come in tutti i casi riportati in questo articolo, ogni connubio tra metodo e contesto è gravato da responsabilità individuali e collettive che pesano tanto quanto le conseguenze (sulla conoscenza, sull’economia, sulla società, ecc.) che tali connubi hanno provocato. La responsabilità grava anche su chi accetta connubi metodo-contesto senza averli valutati e, se il caso, criticati. Io dunque vorrei criticare, metodologicamente, i vari connubi tra la dottrina darwiniana e contesti estranei al dominio delle scienze naturali ove la dottrina selezionistica è stata ideata. La mia critica è molto semplice ed essenziale. Affermo in buona sostanza che tutti i connubi sopra riportati hanno utilizzato strumentalmente solo una parte della dottrina darwiniana ignorandone colpevolmente una parte sostanziale: quella che ha che fare con la “variazione”.
La selezione naturale proposta da Darwin è un meccanismo di selezione della variazione. Il momento della selezione sta a valle della variazione e quest’ultima si può generare perché esistono delle pre-condizioni che consentono la variabilità. Sia Darwin che altri, per esempio il morfologo e genetista William Bateson (1861-1926), hanno affermato questo concetto molto chiaramente. Il selezionismo cui si rifanno varie strumentalizzazioni ideologiche sembra trascurare del tutto l’aspetto legato alla variazione che è, invece, un elemento fondamentale dell’evoluzione. Il vero motore è la variazione: è questa che conferisce a chi la possiede un punto di forza o un punto di debolezza rispetto agli individui non variati. La natura seleziona (aumentando o riducendo le loro capacità di sopravvivenza o di generare prole) gli individui in base a quanto una data variazione li rende più o meno adatti alle contingenze storico-ambientali in cui essi si trovano. Il basarsi sul “selezionismo” è di per sé un errore metodologico perché la selezione è solo il risultato del combinato disposto tra variazione e contingenza tanto che, giustamente, alla fine dell’ottocento, molti definivano il meccanismo evolutivo descritto da Darwin come “trasformismo biologico”. Ma c’è di più. La natura non premia il “migliore”, il più “progredito”, il più “perfetto”: essa premia il più adatto a una determinata contingenza storica. Riguardo agli organismi naturali, questo rende evidente che è metodologicamente errato aspettarsi un “progresso” costituito da una linea temporale unidirezionale puntata verso la “perfezione”. Se si usa il naturalismo darwiniano come concetto guida delle ideologie, da questo non vanno escluse componenti scomode come la relatività del concetto di “perfezione” o di “progresso”. Se lo si fa, utilizzando la parte conveniente di una dottrina e facendo finta che la parte meno conveniente non esista, si opera una arbitraria selezione strumentale della dottrina che si assume come riferimento. La dottrina che si assume come riferimento risulta alterata e quindi non può conservarne né il nome né l’autorevolezza originaria. Se si compie una manovra del genere bisogna ammettere la parzialità intrinseca dell’analogia. Se l’omissione non è una dimenticanza, allora è un dolo. Ma non finisce qui. In natura, la selezione si genera in base a un certo qual principio di utilità. Se la variazione è utile, questa potrebbe essere conservata, se è inutile o dannosa, viene rimossa ma, anche in questo caso, non c’è una natura che “deliberatamente” conserva o elimina: c’è solo un sopravvivere o un perire degli individui più o meno adatti a una certa contingenza. È corretto concettualizzare questo fenomeno individuale di sopravvivenza o di declino come fondamento naturalistico di un’ideologia, per esempio economica o sociale? Secondo me, non è corretto. Se mai, è legittimo dire (ma senza necessariamente tirare in ballo Darwin) che, poiché in ogni azione umana e in ogni fenomeno naturale ciò che è più adatto alle contingenze ha maggiori probabilità di affermarsi fintanto che quelle contingenze rimangono tali, a questa tendenza si può dare il nome di “selezionismo” e si può utilizzare questo costrutto come principio di analisi dei vari fenomeni di cui l’uomo è attore o spettatore.

NOTE:

7 Morselli E., Carlo Darwin e il darwinismo nelle scienze biologiche e sociali. Scritti vari raccolti e pubblicati per cura del prof. Enrico Morselli. Fratelli Dumolard, Milano 1892. Oltre allo stesso Morselli, gli autori dei saggi contenuti nel volume sono: Giovanni Canestrini, Giacomo Cattaneo, Achille Loria, Giovanni Marinelli, Guglilmo Romiti, Giuseppe Tarozzi, Gaetano Trezza, Tito Vignoli.

8 Vignoli T., Carlo Darwin e il pensiero. Ivi, pp. 189-196.

9 Morselli E., Darwinismo ed evoluzionismo. Ivi, pp. 267-268.

10 Trezza G., Il darwinismo e le formazioni storiche. Ivi, p. 114.

11 Loria A., Carlo Darwin e l’economia politica. Ivi, pp. 68-186.

12 Il Reverendo Joseph Townsend (1739-1816), anticipando alcune riflessioni di Thomas Malthus, si dichiarava contrario a ogni intervento di sostegno ai poveri. In A Dissertation on the Poor Laws (Dissertazione a proposito della Legge sui Poveri), nel 1876 egli affermava: “it is only hunger which can spur and goad them on to labour” (è solo la fame che li sprona e li sollecita alla fatica del lavoro). Con tutta evidenza, Townsend è stato un anticipatore delle tesi che saranno proprie del darwinismo sociale più duro e Loria ne cita le parole testuali per mostrare tutto il proprio dissenso rispetto a tale posizione.

13 Friedrich Albert Lange (1828-1875) è un esponente di un’ala moderata del socialismo, il cosiddetto socialismo etico. Nell’opera Ansichten über die soziale Frage (1866) (Osservazioni sulla Questione Sociale), egli difende energicamente gli interessi dei lavoratori e le loro richieste politiche ed economiche.

14 Il grassetto è mio.

15 A Georg Friedrich Hegel (1770-1831) questo trasferimento d’ambito non sarebbe per niente piaciuto. Già nel 1809 (quindi parecchio in anticipo rispetto a Lombroso), nella Fenomenologia dello Spirito, riferendosi proprio ai guai secondo lui provocati dal trasferimento di concetti dal dominio organico a quello della psiche e volendo polemizzare con la fisiognomica di Lavater (1741-1801) e con la frenologia di Gall (1758-1828), egli affermava ironicamente: “l’essere dello spirito è un osso!”.

16 Dušan Stojnov, GLOSSARIO: Costrutto. Riv. It. Costruttivismo 2015; Vol. 3, n° 2, ISSN 2282-7994.

* Piero Borzini, nato nel 1950, laureato in medicina. Una carriera ospedaliera dedicata all’immunologia, al trapianto, alla terapia rigenerativa. Terminata l’attività ospedaliera, si è dedicato a discipline all’interfaccia tra l’antropologia e le scienze biomediche: l’evoluzione biologica, l’evoluzione culturale, l’evoluzione del linguaggio, la storia della biologia. Ha pubblicato due libri con Aracne (Roma) Immunologia, evoluzione, pensiero; Diventare umani; un altro (William Bateson, l’uomo che inventò la Genetica) è in corso di pubblicazione presso Biblion (Milano). Da qualche anno pubblica articoli (Working Papers) per Methodologia on line, rivista della Società di cultura Metodologico-Operativa.

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