> di Daniele Baron
«Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò. Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture» [GENESI 3, 6-7]
«All’uomo disse: “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto, polvere tu sei e in polvere tornerai”» [GENESI 3, 17-19]
«Il Signore Dio disse allora: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e dei male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita » [GENESI 3, 22-24][1]
1. Ab ovo
Alla fine dei tempi, o a quella che si percepisce come tale, come anche nelle epoche di profondo mutamento, spesso traumatico, si rende necessario interrogare l’origine per comprendere se non siano presenti fin da principio i segni della fine e per cercare strumenti allo scopo di penetrare meglio ciò che si vive. Ciò che sta idealmente all’inizio della nostra cultura è il racconto della Genesi, della creazione del mondo da parte di Dio. Oggi, dopo l’evento della morte di Dio, che dobbiamo intendere storicamente come fine di un’epoca ed apertura di un’altra ancora incerta nei suoi orizzonti, ci troviamo forse oltre la dialettica, classica nella nostra cultura, di origine e fine. Ciò significa che il ritorno all’origine avviene oggi in modo differente rispetto ad una volta: rileggere la parola della Bibbia può avere un che di ironico quando non si crede più alla verità, non solo letterale, ma anche spirituale e allegorica, del suo racconto. Tuttavia, io penso che il nuovo possa essere edificato solo attraverso la contezza di ciò che ci lascia orfani, più o meno smarriti e più o meno felici; probabile che una nuova interpretazione dell’origine possa acclarare la verità che permea la nostra epoca o almeno rendere palese ciò che la perdita dell’origine tende a far diventare inconscio.
Di questo mito vorrei considerare i brani che ho messo in esergo ed interrogare filosoficamente il concetto del “divenire come Dio” da parte dell’uomo in quanto a conoscenza del bene e del male. Nella seconda parte passerò al concetto opposto della “morte di Dio”. Non so se il mio volo pindarico dalla fine al principio e poi dal principio alla fine risulti fondato filologicamente o dal punto di vista teologico. So solo che l’intuizione del collegamento è ciò che mi preme fondare in questo scritto; se il gioco esegetico qui tentato farà emergere un pensiero che possa rispondere ad un problema urgente ed attuale, allora sarà interessante da seguire e da leggere. Non sono il primo a percorrere tale sentiero: da sempre il testo sacro è stato filosoficamente letto in relazione alla Weltanschauung dell’epoca a cui appartiene chi tenta di decrittarlo.
Per ritornare ai brani riportati sottolineo un primo elemento. E’ paradossale che l’uomo diventi come Dio quanto a conoscenza del bene e del male e contemporaneamente diventi mortale, assuma la propria condizione finita. Lo stato divino connesso alla conoscenza del bene e del male fa sì che essa sia la conoscenza massima, assoluta, che ci scioglie da ogni legame con la terra, infinita, e insieme misteriosamente causi la nostra sciagura; infatti, il peccato originale è a fondamento della consapevolezza di dover morire. La morte è percepita come il male supremo. Altri effetti ne derivano come corollari di un postulato: la sofferenza fisica e morale, la malattia, la schiavitù, il lavoro che costa fatica.
Il peccato originale è dunque la conoscenza del bene e del male, Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito dall’albero della conoscenza. Conoscendo il bene e il male sono diventati come Dio e dopo il peccato vengono estromessi dal paradiso terrestre, non potranno più mangiare dall’albero della vita, perciò assumono inevitabilmente la loro condizione di esseri mortali.
Il divenire come Dio è collegato al prendere coscienza della morte e della condizione mortale ed è il passaggio, irrimediabile in apparenza, da un luogo, il paradiso terrestre, ad un altro, la terra. Per lungo tempo si è creduto alla verità letterale del racconto biblico e si è considerato il paradiso terrestre come un luogo fisico, geograficamente collocabile, riservato solo a pochi. Gradualmente nell’esegesi storica si è imposta un’interpretazione esclusivamente allegorica e spirituale delle vicende narrate nella Genesi, sia di quelle relative alla creazione del cielo e della terra, sia di quella del Diluvio, sia infine di quella che ci interessa da vicino: la cacciata dal paradiso terrestre; questo è accaduto soprattutto grazie al progredire delle conoscenze scientifiche, del progresso nelle scienze naturali in particolare; ciò ha portato a considerare la parola di Dio non più nel suo senso strettamente letterale e materiale, a tenere il racconto biblico della creazione del mondo, delle specie animali e dell’uomo e della donna in un senso meramente simbolico e mitico. Bisogna aggiungere che nel corso del tempo il racconto biblico si è intrecciato con altre tradizioni di origine greco-romana che narrano di luoghi simili al paradiso, descritti spesso con accenti quasi identici e ciò di fatto ha creato un’amalgama di miti, di saperi, ad esempio sono stati accostati ad esso l’età aurea, le Isole Fortunate, i Campi Elisi, ecc.
Questi luoghi vengono tratteggiati con caratteristiche comuni: si tratta di regni felici, con clima mite, in cui la natura è rigogliosa in modo prodigioso, gli alberi sono sempre fioriti e danno spontaneamente i loro frutti tutto l’anno; l’uomo vi abita in una condizione di beatitudine, di pace, di amore[2].
Il racconto del peccato originale perciò ci rende sensibile un passaggio decisivo che comporta per l’uomo la fine di una condizione di innocenza, di felicità, di armonia con sé e con la natura. Esso può essere interpretato, in primo luogo, come trasposizione di un accadimento esistenziale-psicologico, come una drammatizzazione di un’esperienza comune a tutti, universale: la rappresentazione del trapasso dall’innocenza all’esperienza che sperimentiamo con la fine dell’infanzia.
Adamo ed Eva, prima che mangino dall’albero della conoscenza, ci appaiono infatti come bambini smarriti e felici, vivono in un sogno dai contorni confusi, in una condizione di radioso presente, in cui ogni cosa può mutare in un’altra, in cui tutto è possibile; sono curati, nutriti, coccolati, da Dio. Possiamo immaginarceli mentre giocano nel verde del paradiso ignari di tutto, del fatto di avere un corpo, di essere nudi, abbandonati alla purezza delle sensazioni senza cercare nessi causali.
“Diventare come Dio” è prendere coscienza di un sé stabile e ricondurre tutti gli stati di coscienza ad un io sempre uguale a sé, con una identità duratura; il soggetto cosciente viene postulato come essere identico, come sostanza, e come sempre presente in ogni stato di coscienza. Ognuno di noi riferendosi alla propria esperienza personale, può dire che c’è stato nella propria vita un momento di passaggio da una consapevolezza affievolita di sé ad una vera e propria piena coscienza di sé, passaggio che segna la fine dell’infanzia e dell’innocenza. Anche se non si saprebbe individuare un momento preciso nel tempo, l’innocenza finisce quando l’individuo pronuncia il pronome “io” e collega a questo soggetto appena posto tutte le sensazioni che prima viveva in molteplice dispersione. A questo passaggio si accompagna un sentimento di nostalgia dello stato appena lasciato che appartiene ormai in modo irrimediabile al passato. Si tratta di una sensazione collegata alla consapevolezza della perdita definitiva di una condizione di sogno, di un mondo in cui si viveva a proprio agio, in cui altri pensavano alla cura dei nostri bisogni, in cui un eterno presente si riempiva di nuove esperienze, di nuovi colori, sapori, odori, suoni. Lo stupore di fronte al mondo si colmava a poco a poco di contenuti sempre nuovi e solo parzialmente legati ad una coscienza di sé.
Perché proviamo nostalgia di quello stato di innocenza che precede l’età adulta, cosa invidiamo ad un bambino, perché suscita in noi tenerezza lo sguardo dell’innocente?
Il motivo è evidente e nasce dall’antitesi lampante tra le due fasi della vita dell’uomo: da un lato, durante l’infanzia, la disponibilità del tempo a venire, carico di presagi e possibilità, dall’altro lato, nell’età adulta, l’irrimediabile trascorrere degli anni con l’assottigliarsi delle possibilità; prima, il gioco come forma di principale occupazione, ora invece il lavoro e la fatica mentale e fisica, interrotti da brevi ed isolati lampi di divertimento (distrazione più che altro, volontà di non pensare a nulla); prima, la bontà di ogni sensazione come pienezza di vita, il corpo come essere vivente e fluente, ora la distinzione tra sensazioni buone e sensazioni cattive e il corpo come mero strumento; nell’infanzia, la mancanza di pudore o vergogna di sorta per ogni funzione corporea, nell’età successiva la vergogna e la derisione per le parti basse; prima l’assenza del pensiero della morte, mentre ora l’angoscia legata al sentimento della fine e alla consapevolezza che il passare del tempo ci avvicina fatalmente al nostro tragico destino; prima il vivere in un eterno presente con un passato subito dimenticato e un futuro disponibile ma non agognato, ora, di contro, il peso della memoria del passato e la speranza in un futuro che potrebbe deludere le nostre aspettative, ecc.
A questa prima interpretazione, ne voglio affiancare un’altra, riguardante l’ontologia, per illuminare ancora meglio il legame esistente tra il divenire come Dio e l’io inteso come soggetto identico e sostanziale.
Il peccato dell’uomo è stato quello di prendere coscienza di sé conoscendo il bene e il male; ciò sul piano ontologico si traduce nella separazione tra essere e non essere e sta alla base del pensiero dell’essere come identità oggettiva, come ente in ultima analisi. Dio diventa allora il garante di questa concezione che, ponendo l’essere come un oggetto identico, tradisce l’originaria indistinzione tra essere e non-essere. Dio è a fondamento dell’essere oggettivo e il soggetto, diventando come Dio, partecipa di quest’ordine e di questo fondamento. Prima del peccato c’è, dunque, l’innocenza del divenire come superiore unità rispetto ad ogni distinzione. Dio, essere e bene nel racconto della creazione prima del peccato sono già uniti, identici, tuttavia è ancora assente la coscienza dell’uomo che possa testimoniare la presenza di Dio come fondamento. L’uomo diventa come Dio nel momento in cui pensa a sé stesso come essere identico, sostanziale, e opera la separazione tra essere e non-essere, in particolar modo pensati come bene e male, senza comprendere come possano ancora conciliarsi tra di loro. La storia dell’uomo, dell’umanità comincia con il peccato, dunque con il male, ma fin dal principio ha alla propria base una teoria che pone l’essere come qualcosa di dato ed identico al bene; l’essere così inteso è sia l’essenza dell’uomo che il suo ideale.
Perché la Genesi ci dice che il peccato originale ha reso l’uomo come Dio? Non era forse più divino e sacro lo stato che precedeva la conoscenza del bene e del male e dunque la consapevolezza di sé, o coscienza, collegata all’Io? Di sicuro l’Eden ci viene descritto come un luogo maggiormente felice per l’uomo. Con il peccato originale per l’uomo c’è stato un guadagno o una perdita?
Non posso qui analizzare le infinite posizioni ermeneutiche che si sono succedute nella storia del pensiero nell’analisi di questo passo nel loro tentativo di definire il rapporto tra Dio e uomo dopo il peccato.
C’è chi ha visto in questo passaggio un che di irrimediabile che introduce una differenza incolmabile tra Dio e l’uomo e di conseguenza tra la vita nel paradiso e la vita sulla terra, c’è chi ha cercato di vedere in questo accadimento originario un viatico per la salvezza dell’uomo, c’è chi ha interpretato il peccato come un atto di libertà dell’uomo, libertà concessa all’uomo da Dio in un atto d’amore e di autolimitazione della propria onnipotenza; in questo caso il peccato è sì irrimediabile, è male, ma non così grave poiché espressione della libertà dell’uomo donata da Dio.
Ciò che è interessante qui sottolineare è che lo stato di innocenza di Adamo ed Eva, la loro vita prima del peccato, è spesso stato equiparato ad uno stato di natura che precede la civiltà. A livello sociale-politico lo stato di innocenza è stato avvicinato dagli interpreti, infatti, ad una particolare organizzazione ed a particolari condizioni di vita che possiamo definire naturali. Il mito della Genesi si presta ad una interpretazione di filosofia politica.
Tra parentesi si deve preliminarmente tener presente che il modo in cui pensiamo l’innocenza non è mai innocente; ogni affermazione riguardante l’uomo e la sua storia che ponga come principio la natura o qualche cosa di simile ad uno stato naturale, considerandoli indubitabili, è sospetta. In età adulta, dunque, non si può discettare in modo innocente sull’innocenza se non si vuole cadere in malafede: ciò significa che ogni pensiero sull’innocenza è già una presa di posizione ed ha conseguenze pratico-morali.
Poco cambia che lo stato di natura sia considerato reale, cioè come un insieme di condizioni di vita di una parte dell’umanità o dell’umanità intera ai suoi primordi (quando l’uomo era in fondo più simile ad un animale rispetto all’umanità attuale, essendo guidato quasi totalmente dall’istinto) oppure solo ideale, vale a dire come un insieme di condizioni ipotetiche e immaginarie; l’importante è comprendere appunto in che modo ci poniamo di fronte allo stato di natura o di innocenza e perché abbiamo bisogno di valorizzare uno stato del genere.
Di fronte al mito dello stato di innocenza si possono dare e si sono dati differenti atteggiamenti; qui ci limitiamo a considerarne qualcuno che possiamo considerare tipico.
Il primo è quello di rimpianto di una condizione in cui l’individuo viveva in armonia con la natura, nei boschi o nella campagna, nelle società rurali o agricole, in un mondo comunque opposto alla società moderna e contemporanea, mondo stravolto dalla industrializzazione, dalla urbanizzazione, dalla specializzazione del lavoro, dal progresso tecnico. Dopo un’età caratterizzata da un vivere in armonia con la natura e con gli altri, si è imposta un’esistenza innaturale, forzosa, causa di tristezza e di depressione. In questi casi la nostalgia dello stato di innocenza coincide con il desiderio di una vita meno frenetica, meno agiata e comoda forse, ma sicuramente più alla nostra portata, più umana, più morale, più sana. Si è scorto in alcune culture, in alcune popolazioni, la sopravvivenza di uno stato naturale, innocente, si è costruito il mito del “buon selvaggio”. Questa concezione si accompagna spesso con la sensazione che la natura, oggi così calpestata, così artefatta, si ribelli e torni a far sentire la propria voce nel mondo con la furia distruttiva, attraverso maremoti, uragani, terremoti, e nell’uomo con la rinascita degli istinti peggiori, belluini. La natura violentata si vendica, si suol dire. Questa opinione è legata al desiderio nostalgico di un’armonia ormai perduta con la natura.
Possiamo indicare in Rousseau l’archetipo per questa prima posizione. Il suo Discours sur l’origine de l’inégalité parmi les hommes è esemplare nel tratteggiare lo stato di natura come quello in cui un’umanità primitiva viveva felice in seno ad una natura generosa; la civiltà, il vivere insieme, è un decadimento rispetto all’origine[3].
Vicina a questa concezione è la posizione di chi vorrebbe ritrovare la felicità dello stato di natura “coltivando il proprio orto”; di chi, isolandosi dal mondo, dai problemi troppo grandi, contento di ciò che possiede, scettico di fronte a tutto ciò che non è alla sua portata, vorrebbe vivere alla giornata le piccole gioie della vita, noncurante di tutto il resto.
Si può anche dare il caso in cui il rimpianto per l’età dell’innocenza si unisca con la speranza, più o meno recondita, che qualche cosa di simile possa tornare per l’umanità. In molti aneliti utopici e rivoluzionari possiamo leggere in fondo la delineazione in un tempo futuro di un ideale che ha molti tratti del mito su cui stiamo ragionando.
Sia che si concepisca il presente come inesorabile decadenza, assumendo così una posizione reazionaria, sia che lo si consideri invece come momento di passaggio e proiezione verso un altrove vagheggiato, cavalcando ideali rivoluzionari o anarchici legati ad ammalianti utopie, agisce sempre l’archetipo positivo dello stato di innocenza.
Rapportando queste posizioni al racconto della Genesi, si può affermare che, da questo punto di vista, solo il divenire innocente prima della conoscenza del bene e del male era divino, l’essere come Dio dopo il peccato infatti è ben poca cosa rispetto allo stato di innocenza, è solo il presagio delle future sciagure. Il fatto che l’uomo con il peccato diventi come Dio, perciò, suona come una beffa se si analizza la sua condizione dopo la caduta in rapporto alla vita precedente. L’uomo scacciato dal paradiso diventa mortale e Dio affatto distante e trascendente il mondo. Il padre buono che curava Adamo ed Eva, ora li abbandona sulla terra alle loro fatiche, ai loro dolori, alle loro paure, al loro corpo-strumento di lavoro, alla loro vergogna del fatto di essere nudi, alla loro condizione mortale, diventa un despota, un tiranno ineffabile, un Altro.
Questa non è l’unica concezione possibile né l’unica praticata nella storia del pensiero. A tal proposito, come contraltare rispetto a Rousseau, spicca per la sua originalità e per la novità che introduce nella considerazione del mito dell’origine la posizione di Kant, quale emerge dallo scritto Mutmasslicher Anfang der Menschengeschichte[4]. Qui la ripresa della tradizione interpretativa classica si concilia con la fiducia nel progresso e nella ragione come guida dell’uomo. L’uomo nello stato di natura ubbidisce come gli altri animali alla “voce di Dio”, l’istinto, ma in lui la ragione comincia a svegliarsi ed a voler estendere le proprie conoscenze al di là dei limiti dell’istinto; in questo modo nasce la concupiscenza. Il peccato originale, il cogliere un frutto proibito che appare desiderabile, viene considerato da Kant come la prima prova della libertà di scelta. Questa scelta ha avuto conseguenze irrimediabili per l’uomo in questo senso: non è più possibile per lui ritornare a quello stato di innocenza, di pace e di armonia che precede il peccato originale. Tuttavia, per Kant essa ha aperto la strada verso un uso sempre più adeguato della ragione e in ultima analisi verso la perfezione. La cacciata dell’uomo dal paradiso terrestre, dunque, per il filosofo di Königsberg non dovrebbe comportare alcuna nostalgia per lo stato di innocenza lasciato, poiché non è un avvenimento negativo: rappresenta, infatti, l’abbandono da parte dell’uomo dell’animalità e il passaggio da uno stato bruto all’umanità. Dobbiamo dunque respingere l’immagine dell’età dell’oro tanto esaltata dai poeti e dai pensatori nostalgici per volgerci verso il futuro dell’umanità fatto di progresso e dell’uso sempre più perfetto della ragione. Adamo, pertanto, ha peccato a causa del cattivo uso della ragione, ma nessuno può far cadere su Adamo il crimine originale né la propria responsabilità, perché ciascuno di noi al suo posto, date le stesse circostanze, si sarebbe comportato nello stesso modo.
In questa concezione, opposta alla precedente che insisteva sulla divinità dell’innocenza e sulla miseria conseguente al peccato, acquisisce un nuovo senso la formula “divenire come Dio”, poiché il peccato originale perde la propria gravità, essendo meramente un cattivo uso della ragione nel primo uomo, causato da inesperienza. Il peccato è il primo esercizio della libertà dell’uomo e come tale è la rivelazione per l’uomo che la ragione è ciò che davvero può renderlo divino, simile a Dio.
Alla fine di questa prima parte dell’analisi, riassumendo quanto scritto, si può dire dunque che il “divenire come Dio” biblico ha differenti sfumature di significato a seconda che si assuma una di queste due posizioni:
1. quella che considera lo stato di innocenza prima del peccato in modo positivo e come oggetto di rimpianto, mentre l’età adulta dell’esperienza come decadimento; il divenire come Dio è visto come ciò che strappa l’uomo dal paradiso per sempre e lo getta nel mondo a tu per tu con la propria morte; un evento, dunque, beffardo ed ironico per le sorti dell’uomo, poiché lo precipita nella condizione opposta a quella divina, rendendolo mortale;
2. la seconda posizione, invece, considera lo stato di innocenza come una condizione felice, naturale, ma ormai inesorabilmente passata a causa del peccato; l’uomo divenendo come Dio ha sperimentato la propria libertà e non può avere nostalgia di uno stato di natura in cui viveva come un animale guidato unicamente dall’istinto e dalla necessità, in cui in fondo era solo un automa e non era libero; Dio è fondamento di un ordine in cui l’uomo esercita sempre meglio la propria libertà in vista della perfezione che ha il suo ideale nella trascendenza.
In entrambi i casi viene comunque mantenuta la distanza tra uomo e Dio, per cui il divenire come Dio è basato esclusivamente sull’analogia, non sull’identità vera e propria. Uno iato incolmabile separa l’uomo da Dio, nonostante diventi come lui.
NOTE:
[1] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, 1999 Bologna.
[2] Per un approfondimento del tema del paradiso terrestre rimando al seguente eccellente libro: J. DELUMEAU, Storia del paradiso. Il giardino delle delizie, Il Mulino, 1994 Bologna. Si tratta di un’opera di ricostruzione storica, letteraria, iconografica e cartografica del mito del paradiso terrestre dall’Antichità fino al Rinascimento.
[3] Cfr. J.-J. ROUSSEAU, Origine della disuguaglianza, Ed. Feltrinelli, 2004 Milano.
[4] Cfr. E. KANT, Congetture sull’origine della storia, in IDEM, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, UTET, 2010 Torino.
[Fine prima parte – continua]
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22 dicembre 2013 alle 10:03
Beh è solo la parte prima. Pensare che possa seguire una seconda fa tremare le vene e i polsi. Articolo senz’altro interessante ma ricoperto di parole più che svluppato nei concetti. Ricordo, molto modestamente, che i fenomeni del pensiero non avvengono come fossero avventure isolate, ma conseguenze di mille fattori esterni e interni, secondo regole storiche, psicologiche, pratiche e dianoetiche, entro una logica complessa e aperta che dà all’uomo continue aperture speculative. Gli arabeschi vanno bene, ma la sostanza andrebbe senz’altro meglio. La sintesi indispensabile è significativa, altrimenti vi leggerete solo fra voi. La filosofia non è un fiore all’occhiello, è impegno. Non è un esercizio di bella scrittura e non è una montagna di citazioni, dirette o indirette che siano. La filosofia è sacrificio, dubbio, tormento. Odia i fuochi d’artificio, non sopporta l’esibizionismo verbale, emargina la filosofia tedesca (uno sbrodolamento spesso insopportabile). Che i pochi veri filosofi (fra i tedeschi senz’altro Jaspers) abbiano pietà di noi.
22 dicembre 2013 alle 14:28
Gentile sig. Lodi se la prima parte non le è piaciuta o non la trova valida la dispenso senz’altro dal leggere la seconda. Certo, mi piacerebbe comprendere quali concetti non le sono parsi convincenti, poiché mi sembra che dal suo commento, affatto generico, non emerga una critica circostanziata. Piuttosto che apprendere che la forma le piace, gradirei comprendere cosa nell’argomentazione non le pare riuscito. O meglio, la sua critica può essere riassunta così: la filosofia non è ciò che che viene scritto o pubblicato qui su “Filosofia e nuovi sentieri” (il “voi” deve essere inteso in questo senso? O è solo una forma retorica?), ma è altra cosa. E allora io le domando: mi spieghi o ci spieghi cos’è la filosofia, di grazia, dato che lei pretende di parlare a suo nome.
Cordiali Saluti
22 dicembre 2013 alle 16:31
La filosofia è sicuramente “sacrificio, dubbio, tormento” anzi aggiungo che proprio questo è il manifesto e il senso della rivista e dei “nuovi sentieri” a cui si ascrive l’articolo di Daniele Baron.
Basta intendersi sui termini e sullo stile utilizzato che può anzi deve essere diverso nel metodo e a volte anche nei fini.
Non si può immaginare che lo stile sintetico o aforistico sia l’unico non avulso da “sostanza” o l’unico applicabile.
Diversamente, il rischio è demolire tante idee più che valide e rivoluzionarie che hanno illuminato, seppure a intermittenza, la storia umana.
Solo a titolo di esempio, Montaigne utilizzava moltissime citazioni e al contempo metteva in guardia dal “sapere pedantesco” e dalle “trappole dell’immaginazione”.
Ognuno troverà i lettori che merita, impazienti di arrivare al “nocciolo” piuttosto che desiderosi di arrivarci dopo alcune “giravolte” che non servono (solo) a solleticare sterilmente il proprio orgoglio intellettuale ma (anche) a “fissare” gradualmente il concetto che si vuole esprimere.
22 dicembre 2013 alle 14:48
Interessante, Daniele. Aspettiamo (nos maiestatico!!) il seguito.
22 dicembre 2013 alle 22:47
Grazie Valeria per la lettura e l’apprezzamento. Spero che il seguito sia altrettanto interessante.
Un caro saluto
28 dicembre 2013 alle 18:46
“La filosofia è sacrificio, dubbio, tormento”… e il divertimento dov’è?
Il ragazzo da “Lodi” esteticamente tragico, dimentica o gli è sfuggita la differenza tra Presente e Attuale…
Attendo la seconda parte, ringrazio…. Ciao.
28 dicembre 2013 alle 19:10
Giusta osservazione Michele.
La filosofia è anche godimento e in senso lato può anche essere riso. Non deve mai dimenticare che il tragico non ha nulla a che fare con lo spirito di serietà.
Grazie per la lettura e per l’attenzione.
Daniele
30 dicembre 2013 alle 22:27
Interessante. Grazie. Aspetto la seconda parte.
Però se penso che anche la seconda parte possa essere chiosata da quella maestrina di matematica di Lodi fa tremare le vene e i polsi (corrige: il pulsus dei vasi o delle vene… cura l’italiano e il latino, bimba, oltre alla dianoetica e alla bisbetica). Cerca di evitarlo. Non ricoprire l’articolo di parole ma magari di note musicali e di cioccolato. Dimentica gli arabeschi all’occhiello ed esplora una logica di speculazione che dia alti introiti. Lascia perdere i filosofi tedeschi, cioè gli unici che esistono, e dà finalmente importanza alla mistica del Paraguay. Ricorda che la filosofia è sacrificio, dubbio e tormento come in “Uccelli di rovo”. Scusa queste parole scherzose, fanno il gioco della maestrina, ma non è facile sopportare quel modo di fare: irrompere sul campo di battaglia e cercare di fare a pezzi il nemico. Dice Seneca in una lettera a Lucilio: tu, amico, critichi questo e quello ma perché non ti chiedi cosa di meglio hai fatto tu? Capire gli altri e i loro pensieri dovrebbe essere la norma di chi mira alla conoscenza e non a esibire sé stesso. Ma è un segno dei tempi. Auguro a Dario il piccolo di arricchirsi con questo metodo, come il buon Sgarbi, perché in caso contrario avrà ottenuto solo un po’ di malinconia nel guardarsi allo specchio.
A presto, Daniele :)
8 gennaio 2014 alle 01:07
Grazie a te Giuseppe per l’apprezzamento e per la tua attenzione, per me molto preziosa, alle cose che scrivo.
Un caro saluto
Daniele
7 gennaio 2014 alle 17:47
Pensieri buttati là:
Non guadagno e neanche perdita.
Bisogna pensare la vita come metamorfosi.
E’ la paura che ci frega.
Il bambino non conosce paura perché non conosce la morte, invece l’adulto ha paura perché ne vorrebbe sapere di più sull’argomento e perde di vista il cammino semplicemente curioso del primo.
Si deve vivere come rosa che non sa il suo perché, pensando soltanto a far bene le cose con animo scevro da ansie e malizie.
Si pensa sempre a confrontarsi con gli altri, bisogna anche pensare a confrontarsi con sé stessi con onestà intellettuale.
Anche nel peccato originale c’è stato un confronto, il massimo, quello con Dio.
Fu un brutto giorno, una terribile incomprensione, e lì si perse la fiducia reciproca.
Poi vabbè, lo sappiamo tutti che è stata tutta colpa della donna (scherzo! E da qui che forse nasce la discriminazione per la figura femminile?).
E se l’Uomo e Dio fossero rispettivamente gli stessi Caino ed Abele (o viceversa???) della parabola di borgesiana memoria ed esempio di morale, che ci fosse appunto bisogno di una semplice e sincera riconciliazione.
Da quel giorno forse Dio aspetta che l’uomo, ogni uomo, riconosca sinceramente il proprio errore e che in pace a Lui ritorni.
Peccato, o per fortuna (calcolando come vanno le cose), che un Dio non c’è.
Pennac: “Se Dio esiste, spero che abbia una scusa valida”.
Saluti.
LexMat
8 gennaio 2014 alle 01:14
Grazie mille LexMat per la lettura e per i pensieri che hai voluto condividere qui sul tema.
Sono felice in generale quando ciò che scrivo suscita suggestioni e ulteriori sviluppi, declinazioni del tema secondo la sensibilità di chi legge.
Un caro saluto
Daniele