> di Paolo Calabrò
Andate in camera e prendete il vostro diario segreto di sempre. Sì, quello che scrivete (o quello che avreste voluto scrivere, sì, va bene lo stesso) da quarant’anni, forse più. Dove annotate tutto quello che vi passa per la testa, senza riflessione, senza censura, senza misura. Sì, quello segreto, appunto. Niente paura, non dico niente a nessuno. Preso? Bene. Ora rileggetelo. Tutto, dall’inizio alla fine, pagina dopo pagina, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Nemmeno ricordate di aver scritto quelle cose? Non mi stupisce. Pensandoci, col senno di poi, quasi sicuramente non le scrivereste? Non vedo perché non dovrei credervi. In gran parte non vi credevate nemmeno quando le avete scritte, ma la rabbia, o un secondo fine inespresso, o ancora la semplice abitudine a ripetere luoghi comuni e convinzioni altrui, forse perfino il gusto del “dagli all’untore”, o più semplicemente del darvi un contegno ai vostri stessi occhi (era più facile che farlo di persona con l’amica o con l’amico… come darvi torto).
Rilassatevi, non mi dovete nessuna spiegazione. Oltretutto, chi più chi meno, siamo tutti sulla stessa barca. Ma il vostro problema non sono io, ahimé: è la vostra cuginetta d’un tempo, che legge queste cose e non vi riconosce; è la vostra collega che inorridisce di fronte a certe espressioni (un po’ è anche l’esigenza di rispettare il personaggio e il dettato sociale); è vostra moglie, o vostro padre, che più vanno avanti… e meno gli sembra di riconoscervi.
La cuginetta è risentita: il suo affetto era puro, niente di più di quello tra parenti (ma veramente volevate tanto ardentemente vederla nuda a quindici anni? Fino a tentarvi con l’inganno?). La collega è basita (il che quasi certamente non vuol dire che non sia al contempo anche lusingata): vi stimava come una “persona seria”, incapace di usare certe espressioni (e poi francamente non ricorda proprio di aver avuto quegli atteggiamenti “provocanti”, come dite voi); per non parlare di vostra moglie, che legge della cugina e della collega e non riesce a decidersi se correre ad ammazzare prima l’una o l’altra, e se prima o dopo essere diventata vedova. Vostro padre, accidenti, tornerebbe volentieri indietro se potesse. Nemmeno immaginava che un solo evento della vostra vita avrebbe potuto essere tanto decisivo e influente su tutto il resto; nemmeno sospettava come la memoria potesse essere tanto selettiva da ridurre tutto a quell’unico, in fin dei conti insignificante, incidente. Però, diciamo la verità: in mezzo a tutto questo stupore, i più stupiti siete voi. È mai possibile – vi chiedete – che dopo tanti anni di vita insieme, di sforzi fatti per rendere quegli anni piacevoli, accoglienti e se possibile “nutrienti”, tutto si debba ridurre a quelle pagine? È mai possibile che quelle persone considerino quelle cose scritte come l’ultima e più importante verità su voi stessi?
Spero che non sia capitato a nessuno di voi (ma io non aspetterei troppo a dare un’altra mandata a quel piccolo lucchetto). È capitato però a Martin Heidegger, filosofo tedesco morto nel 1976, con la pubblicazione dei famigerati Quaderni neri da parte dell’editore tedesco Klostermann, nell’ambito delle Opere complete: i Quaderni sono diari personali, non rivolti al pubblico, dove Heidegger annotava qualsiasi cosa gli venisse in mente (e magari la annotava anche ove gli sembrasse assurda, inconferente o incompatibile con tutto il resto delle cose che aveva sempre pensato o creduto: è noto quanto Heidegger fosse “fissato” con l’idea di “non far andare perduto neanche un singolo pensiero”: cfr. la recensione al Sofista, su queste pagine). Chi è abituato a scrivere sa distinguere tra ciò che può poi essere letto e ciò che è meglio che non lo sia; ma non perché vi sia qualcosa da nascondere a tutti i costi, bensì perché la “brutta” è diversa dalla “bella” e perché le cose vanno presentate bene per poter essere comprese al meglio. Ma anche per un altro e più fondamentale motivo: noi riusciamo ad avere rapporti umani e sociali non malgrado non siamo completamente trasparenti, ma proprio perché per fortuna non lo siamo. È questa grande qualità del nostro essere che ci permette di formare gruppi, costruire società ed edificare civiltà: noi possiamo renderci opachi, almeno parzialmente, e questo è un bene. È un bene, sì; che vi sia qualcosa di nascosto, ebbene sì. Nell’epoca del Grande Fratello e dell’ossessione per la verità “oggettiva”, nuda e cruda, sembra quasi di udire una bestemmia. Ma è proprio questa caratteristica umana – e la rivendicazione del diritto di esercitarla, che gli uomini da sempre hanno chiamato “pudore” – che permette agli uomini di sopravvivere. Senza venir sopraffatti dalla vergogna per il giudizio altrui (che sa essere crudele fino all’omicidio); senza venir schiacciati dalla pretesa degli altri di insegnare a tutti… come gli uomini dovrebbero essere. Ogni uomo è il dr Jekyll; ogni uomo ha il suo mr Hyde: è l’esperienza personale di ciascuno di noi, ancor prima che la lezione della psicanalisi. Scandalizzarsi per questo è come rifiutare il dato di fatto dei propri sogni di vendetta: un’assurdità. Il fatto di negarla non la rende meno un’evidenza.
Non ce ne rendiamo conto perché siamo talmente tanto abituati a questa condizione di “sdoppiamento” che per noi è invisibile; ma ce ne accorgiamo quando un sogno particolarmente vivido ci turba; o quando qualcuno ci sbatte in faccia che abbiamo parlato al di là dei nostri soliti filtri. Ma possiamo avere rapporti con gli altri solo grazie al fatto che di questi filtri, solitamente, facciamo uso. Noi non possiamo evitare di produrre pensieri e intenzioni sgradevoli (almeno non tout court; non si intende negare d’altro canto la forza dell’educazione); possiamo solo evitare che facciano danni. Quando reagiamo in maniera affabile comprensiva, accogliente… spesso non è perché siamo atarassici, ma perché abbiamo imparato a ricoprire la nostra prima reazione (quella della rabbia per un errore ingenuo reiterato, ad esempio) con una più misurata. Noi non siamo dei santi; nessuno si illude che lo siamo. Possiamo però cercare di non comportarci da belve ad ogni passo.
Ovvietà? Ma certo, non fosse che per Heidegger si usano sovente due pesi e due misure. All’uscita dei Quaderni, lo scorso autunno, con tutti quegli stralci a effetto sugli ebrei e il nazismo (gli ebrei come “inventori del principio della razza”, che quasi quasi si meritavano le leggi razziali; l’odio per gli Inglesi; l’inno al “sangue dei giovani tedeschi versato in guerra” e così via), vi è stata una specie di gara a chi si stracciava le vesti per primo e più completamente; chi prendeva le distanze di qua, chi si dissociava di là, chi si sentiva in dovere – per retaggio, abitudine e magari un pizzico di genuino e salutare anticonformismo – di difendere il profeta dell’esistenzialismo, non senza sottolineare en passant quanto fossero agghiaccianti le cose descritte. Immagino che Heidegger non ne sarebbe rimasto turbato più di tanto: lui la condanna l’aveva già ricevuta all’indomani del processo di Norimberga, e da sempre c’è stato chi lo difendeva e lo sosteneva (magari con l’entusiasmo immeditato del discepolo di fronte al maestro) e, dall’altro lato, chi ne vituperava il comportamento privato per attaccare quello pubblico, chi faceva leva sulle considerazioni razziali per “confutare” quelle filosofiche (ma era poi veramente possibile?). Ma di una cosa, credo, si sarebbe sorpreso davvero: che venissero usati quei Quaderni come prova documentaria. La fonte meno autorevole, più frammentaria e discutibile che esista. A fronte di un’opera filosofica completa che viaggia verso i cento volumi. Con la pretesa che quello sia il nocciolo più autentico del suo pensiero. Veramente nel terzo millennio si è potuto compiere questa operazione? E con quale risultato? È vero, il “mago di Messkirch” non è la prima vittima del metodo: celeberrimo il caso di Kafka, tradito dall’amico del cuore che – contro la sua esplicita volontà in punto di morte – pubblica tutta la sua opera; della quale, come esponenti dell’umanità, ancor oggi ci fregiamo.
Ma non a tutti va bene allo stesso modo. Martin Heidegger, già condannato per il suo sostegno al nazismo dal diritto penale del dopoguerra, viene oggi condannato nuovamente. I filosofi del nuovo tribunale dell’oggettività giudicano colpevole non solo il suo pensiero, espresso nei suoi tanti scritti pubblicati, ma finanche la sua anima. Gran bel processo. Peccato che quelle fossero solo le intenzioni.
25 aprile 2014 alle 15:12
1) parlare di Max Brod come traditore è incoscienza, se oggi si legge Kafka è merito di Max Brod, senza di lui la sua opera sarebbe stata un anonimo buco nell’acqua, vogliamo rinfacciare anche ad Augusto di aver salvato l’Eneide?
2) tutti hanno diari segreti di cui non andiamo fieri, vi sono molti pensieri che disapproveremmo. Ammetto che gli ebrei non fossero un popolo simpatico anche prima di Israele ma anche solo ipotizzare di aderire al nazismo, anche scriverlo per sé, intimamente è un crimine. Non mi interesso molto di Heidegger onestamente ma è imperdonabile, è lui stesso traditore del suo pensiero e questo marchio, quest’onta sul proprio nome dev’essere ribadita per sempre, in eterno, in ogni luogo e occasione, il suo pensiero si è addentrato nell’ideologia nazista, l’ha alimentata persino. Chi ha aderito al piú pericoloso morbo del pensiero umano deve essere sezionato e analizzato in ogni simbolo per capire come diavolo un uomo di questa portata possa essere stato tanto stupido e incosciente e bisognoso di un messia per aderire al nazismo.
3) chi è un protagonista del Novecento non puó pretendere che le sue opere rimangano inedite, sarebbe ipocrita, o le bruci o accetti che siano pubblicate com’é giusto, chi fa cultura ha il dovere di accettare anche questo, chi fa cultura deve spiegazioni, in vita o post mortem ma si ha il diritto di capirlo, di affrontare fino in fondo il suo pensiero.
Richárd Vincent Janczer
25 aprile 2014 alle 19:30
árd: non ho mai detto che la scelta di Brod mi sia dispiaciuta, piuttosto il contrario. Tecnicamente, tuttavia, ha tradito l’amico: non credo vi siano dubbi al riguardo. non condivido la Sua idea che “aderire al nazismo, anche scriverlo per sé, intimamente è un crimine”, perché altro è aderire, altro è pensare: chiunque osi pensare la realtà fino in fondo deve avere il coraggio di pensarle senza censure di nessun tipo. Esortano a questo esercizio perfino nei più tradizionalisti dei seminari cattolici: quando si crede, si crede a certe cose e non ad altre; ma quando si pensa, non bisogna porsi limiti. Non credo che pensare possa essere un crimine in sé. Certamente non dovrebbe esserlo. Qui non si discutono i fatti storici (come l’aver rimosso la dedica all’amico ebreo nella seconda edizione di Essere e tempo), di cui certamente Heidegger è responsabile e, come scrivevo, credo abbia pagato in vita. Si discute della validità di fare un processo alle intenzioni dopo la morte dell’autore, che mi pare più vicina al voyeurismo da reality dei nostri tempi, che a una genuina indagine sulla bontà del pensiero di un filosofo. Condivido invece l’altra Sua idea, per la quale “chi è un protagonista del Novecento non puó pretendere che le sue opere rimangano inedite”, anche se ritengo che la scelta resti infine dell’autore. Chi è protagonista non solo accetta che le sue opere vengano pubblicate, ma è lui a proporle in prima persona a un editore affinché le pubblichi. Non credo che un uomo dovrebbe perdere la propria privacy per il fatto di essere un luminare: che sia rilevante o no per l’umanità, cose come quelle che il filosofo pensa, dice, scrive o annota anche solo mentalmente durante l’amore o al bagno dovrebbero rimanere dove si consumano, e nessuno dovrebbe pretendere di avervi accesso. Ciò valga, in massima misura, per il proprio diario personale.
(via FaceBook): chiedo scusa innanzitutto per rispondere qui, ma non so usare i social network. La risposta alla Sua domanda è: no, non li ho letti, non conosco il tedesco. Spero di aver spiegato nell’articolo che la questione non è il contenuto, ma il metodo: il discorso potrebbe valere parimenti se Heidegger vi avesse parlato della propria predilezione per la cucina thailandese, ovvero della sua idea fissa di un’imminente invasione aliena. Resto a disposizione per qualsiasi approfondimento: però solo qui, presso “Filosofia e nuovi sentieri”. Grazie dell’attenzione. p.c.
26 aprile 2014 alle 11:44
A chi non è venuto un pensiero terribile, tanto terribile da far rabbrividire anche Sade? Ma scriverlo… scrivere non è automatico e Heidegger non era di certo uno scrittore beat, scrivere è intenzionale, scrivere è un passaggio ulteriore, è conservare un pensiero, ripensarlo e aderirvi al punto di non volerlo abbandonare all’oblio. Privacy è una parola che va bene quando si parla di paparazzi o di regime-paparazzi (intercettazione, registrazione dei gusti personali ecc.), chi sale sul palco, se no si produce anonimamente dietro le quinte come Morselli o Emo o Tomasi di Lampedusa, chi accetta di essere una figura di primo piano, vate o guida spirituale che sia, non può il giorno dopo dire “scusate, mi è passata la voglia, dimenticatevi dei miei diari”. Ricordo che Heidegger non era uno sconosciuto scrittore di pensieri (e allora sì che avrebbe avuto diritto alla privacy) ma che in qualità di rettore dell’Università di Friburgo ha esaltato il nuove regime, ha fatto carriera grazie alla sua adesione seppure breve (secondo il detto “hai voluto la bici, adesso pedali”) che poi abbia ritrattato e che abbia scoperto (e abbiano scoperto i nazisti) di non essere del tutto in linea con il regime questo è positivo e va ricordato ma intanto l’errore era già stato compiuto. La sua vita è una fondamentale lezione del pericolo di un’attesa messianica e il pericolo ancora maggiore di chi quell’attesa la cavalca come un’onda! Ovviamente vanno ricordate le testimonianze dei suoi studenti in sua difesa ma questi cosiddetti Quaderni neri mostrano una riflessione che si prolunga ben oltre il ’33-’34, anno/biennio del suo rettorato poi abdicato. Chi entra nella Storia (perché purtroppo la Storia non è la storia di tutti noi) e gode dei suoi vantaggi (soldi, fama, cattedra ecc.) e dei suoi svantaggi (la luce perenne dei fari puntati contro, la gogna pubblica ecc.) non può pretendere di ritornarsene anonimo nella Foresta Nera, chi diventa parte della Storia ne diviene parte del tutto. Se Heidegger voleva proprio chiarire le cose allora poteva introdurre questi diari, spiegarli, scusarsi, smontarli nelle argomentazioni ma come Jaspers dice Heidegger non ha mai capito l’insostenibile peso del suo torto, la gravità della sua adesione. Ha per caso contribuito attivamente a riabilitare il suo passato o si aspettava che solo perché lui è Heidegger, il pezzo grosso, allora lo si doveva riabilitare gratuitamente?
Non mi fraintenda, fare sinodi del cadavere non è utile a nessuno ormai e io non miro a fare una damnatio memoriae ma a scavare in fondo questo pezzo di terra fino a trovare una latrina sotterrata, come essere umano ho diritto a conoscere la Storia, le mie radici e questo filosofo, volente o nolente è parte indissolubile di questa Storia, non ha diritto ad arrogarsi nulla per sé esclusivamente e non lo dico per voler giustizia a tutti i costi ma perché quei diari sono un documento storico, sono patrimonio dell’umanità. È utile a noi come documento storico: guardate quanto anche l’uomo piú lucido possa sbagliare, quanto il nazismo sia un pericolo reale da cui nessuno è al riparo. Io vengo da un paese, l’Ungheria, in cui ancora oggi si bruciano libri di scrittori ebrei (non è un caso che Kertész Imre, il nostro premio Nobel abbia preso fissa dimora in Germania dove è ben accetto) e si trattano gli zingari, presenza molesta forse ma lecita, come una razza inferiore, un paese in cui si riprendono oggi in mano progetti che negli anni ’30 non si era avuto il tempo di realizzare. Proprio ora che i populismi sono in fermento, che gli eventi storici alla base del successo del nazismo (il crollo di Wall Street del ’29 per esempio) si stanno in modo simile ripetendo, proprio in questo momento non è possibile nascondere, lasciare privato un simile documento. La mia proposta è di introdurlo al lettore più ingenuo, di non usarlo per fare decapitazioni post mortem (ricordiamoci che Heidegger non è solo il nazista ma anche un pilastro del nostro Novecento) ma per far capire questo: “sei in pericolo, se anche un filosofo di estrema grandezza può cadere in questa trappola, con questo libro vedi come, allora tu, Pinco Pallino, sei ancora in pericolo maggiore, fai attenzione!”
Mi scuso sinceramente per il fraintedimento riguardo a Kafka, la ringrazio comunque dell’articolo, non ero a conoscenza di questo evento editoriale e la ringrazio per lo spunto di riflessione molto utile.
p.s: sia chiaro che io non voglio fare alcun parallelismo tra il pensiero di Heidegger e il nazismo, non mi compete né mi interessa farlo. Parlo di Heidegger come “personaggio” (in senso di attore/attante) storico.