Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

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Lotta contro i demoni: da Flaubert a Camus

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> di Giuseppe Brescia*

flaubert

Scriveva nel 1852 Gustave Flaubert (Rouen, 12 dicembre 1821 – Croisset, 8 maggio 1880) all’amica Louise Colet, a proposito della poetica della impersonalità: «L’autore, nell’opera sua, deve essere come Dio nell’universo, presente dappertutto e visibile in nessun luogo. Essendo l’arte una seconda natura, il creatore deve agire con procedimenti analoghi. Che una impassibilità nascosta ed infinita s’avverta in tutti gli atomi, da tutti gli aspetti. L’effetto, per lo spettatore, dev’essere una sorta di sbalordimento». Naturalmente, il mito della “imparzialità” è smentito non solo dalla trama, ma anche dalla forma e dagli affetti che vi sono espressi, come nel romanzo pubblicato a puntate sulla “Revue de Paris” tra il 1851 e il 1856, la Madame Bovary del 1857, che costò all’autore il celebre processo con l’accusa d’immoralità. «Nel fondo della sua anima, Emma aspettava che qualche cosa accadesse. Come i marinai in pericolo, volgeva gli occhi disperata sulla solitudine della sua anima e cercava, lontano, una vela bianca tra le brume dell’orizzonte. Non sapeva che cosa l’aspettasse, quale vento avrebbe spinto quelle vele fino a lei, su quale riva l’avrebbe portata, né sapeva che cosa l’aspettasse, quale vento avrebbe spinto quelle vele fino a lei, su quale riva l’avrebbe portata, né sapeva se sarebbe stata una scialuppa o un vascello a tre ponti, carico di angosce o pieno di felicità fino ai bordi». Si tratta di una forma di moderno “dialeghesthai”, travaglio interiore, dialettica delle passioni, che va ben più a fondo della maschera della “impersonalità”, e riconnette idealmente Emma Bovary con gli eroi sventurati del teatro greco, del dramma shakespeariano o del sacrificio di Isacco scandito per tappe interiori nell’Aut Aut di Kierkegaard. Qui, in particolare, la psicologia flaubertiana investiga quelle che chiama “les moisissures de l’ame”, “le muffe dell’anima” (cfr. Maurice Bardeche, Commentaire a Madame Bovary, Edizione Le Livre de Poche, 1974, pp. 507-520). Ma tra queste “muffe”, s’insinua il “sorriso”. «Ho un amante ! un amante!» (dice Emma di Rodolfo), alla Parte II, Capitolo IX: «E la giornata seguente trascorse in una dolcezza nuova». «Felicità» e «sorriso» si riproducono nella Parte seconda, Capitolo XII. E nel XIII: «Emma camminava a piccoli passi, trascinando le pantofole, appoggiandosi a Charles con la spalla. Sorrideva» (ed. delle Opere, a cura di Massimo Colesanti, Newton Compton, 2011, p. 148). «Sorrise anche due o tre volte» (ibidem). Salvo poi a riconoscere, nella Parte terza, capitolo VI: «Oh, era impossibile! E niente valeva la pena di una ricerca. Tutto era menzogna! Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di noia, ogni gioia celava una maledizione, ogni piacere il suo disgusto, e i migliori baci lasciavano sulle labbra soltanto l’irrealizzabile desiderio di una voluttà più alta». Altra risposta “ideologica” è, però, nella nota lezione fondamentale affidata dal farmacista Signor Homais (Parte seconda,capitolo I): «Il mio Dio è il Dio di Socrate, di Franklin, di Voltaire e di Béranger ! Io sono per la Professione di fede del vicario savoiardo e per gli immortale principi dell’ 89!» (remota eco di Apuleio e dell’antico, in Flaubert cultore dell’occulto, come per La tentazione di Sant’Antonio, in Romanzi, I, edizione italiana a cura di Renato Prinzhofer, e traduzione di Gerolamo Lazzeri, Mursia, Milano 1961-1984, p. 298).

La contesa per l’autonomia dell’arte, vissuta per le pieghe del processo, fruttifica sino al modernismo europeo, che attingerà a piene mani così da Madame Bovary come dalla Correspondance e Bouvard et Pécuchet, fino a Joyce e Croce (con la ricca messe di postille e note, dalla Estetica alla Poesia e Terze pagine sparse).

«No mother. Let me be and let me live». «Mamma lasciami stare. Mamma lasciami vivere» – risuona l’accorato appello del moderno Telemaco nell’Ulysses (1922, ed. Penguin del 1992, p. 11; p. 12 della versione italiana autorizzata a cura di Giulio De Angelis, Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, Milano 1960: cfr. Tra Vico e Joyce, Bari 2006, pp. 97-98). «La zia pensa che tu abbia ucciso tua madre» (per non essersi inginocchiato al di lei capezzale, in punto di morte).

Non mi risulta sia stato mai evidenziato, più che appena colto e intuito, l’archetipo joyciano, insito nel racconto L’Etranger dell’altro genio del pensiero che fu Albert Camus (nato a Mondovi, in Algeria, il 7 novembre 1913 e morto il 4 gennaio del ’60 in uno “strano” incidente d’auto, di cui si sospetta la matrice KGB, presso Montereau a cento chilometri da Parigi). Figlio dell’operaio d’azienda vinicola Lucien e nipote del macellaio Gustave Acault (quasi secondo padre), Camus assorbe, filtra e reinventa i Demoni del prediletto Dostoevskj e il Processo di Kafka, i moralisti francesi e Flaubert, Leopardi e Baudelaire, André Gide e Federico Nietzsche, sino al Moby Dick di Melville e ai racconti di Hemingway. La tragedia del male, come nell’adulterio di Madame Bovary, ha campo nella vicenda dell’assassinio e della condanna, presente nell’opera di Camus.

L’autore rispose alla incombenza del totalitarismo, pagando di persona, con la rottura con il Partito Comunista (l’anno della Fondazione del Théatre de l’Equipe) e la polemica con Stalin. Rispose con il richiamo al «miracolo d’amare ciò che muore»; il passaggio sintomatico dalla Morte felice allo Straniero, cioè dal protagonista Mersault all’altro Meursault; l’esperienza di uomo di spirito, «che ama la vita, il mare, il sole, da uomo greco»; il «Rallegriamoci» del discorso in Svezia; la prossimità alla natura e alle gioie del corpo; un recondito anelito religioso.

Albert Camus denuncia come pochi l’altra faccia del mondo, «il male, la morte, la guerra, la violenza, l’ingiustizia»; nell’Uomo in rivolta, critica l’«eccesso di logica» che ha deviato i pensieri più generosi in demoni totalitari, l’utopia imbevuta di nichilismo. «Uomini non reali» (come “non reale” è il capitano Ahab del Moby Dick) sono i personaggi «senza menzogna», «senza doppiezza». Alla fine della vita, sceneggiando I Demoni di Dostoevskj, ultima sua opera, dichiara: «Vi sono grandi possibilità che l’ambizione reale dei nostri scrittori sia, dopo aver assimilato i Demoni, di scrivere un giorno Guerra e pace… Essi continuano a nutrire la speranza di ritrovare i segreti di un’arte universale che, a furia di umiltà e maestria, risusciterebbe infine i personaggi nella loro carne e nella loro durata». La dialettica di male e bene è citata espressamente nel discorso pronunciata il 1957 per l’assegnazione del Premio Nobel. «Avevo un piano preciso quando ho cominciato la mia opera: volevo prima di tutto esprimere la negazione. Sotto tre forme. Romanzesca: e fu Lo straniero. Drammatica: Caligola, Il malinteso. Ideologica: Il mito di Sisifo. Prevedevo il positivo sempre sotto tre forme. Romanzesca: La peste. Drammatica: Lo stato d’assedio e I giusti. Ideologica: L’uomo in rivolta. Intravedevo già un terzo strato di questo piano, relativamente al tema dell’amore». Così, sempre nel “discorso di Svezia”, rielaborava tanti motivi di letteratura europea e americana, alla luce della “risorsa vitale”. «La mia conclusione sarà semplice. Sarà nel dire pur in mezzo all’urlo e al furore della nostra storia: ‘Rallegriamoci’. Rallegriamoci di aver visto morire un’Europa menzognera e confortevole e rallegriamoci di trovarci di fronte a verità crudeli.  Rallegriamoci in quanto uomini, poiché una lunga mistificazione è crollata e vediamo chiaro in ciò che ci minaccia. E rallegriamoci in quanto artisti, strappati dal sonno e dalla sordità, a forza costretti davanti alla miseria, alle prigioni e al sangue (..) Certo, nella storia, scarsi sono gli esempi di artisti posti di fronte a così duri problemi» (Opere. Romanzi, racconti,saggi, a cura e con introduzione di Roger Grenier. Apparati di Maria Teresa Giaveri e Roger Grenier, Bompiani 2000, p. 1264). Ma la “morte della madre” è un mito già parlante nella Morte felice, per ben due volte, prima con quella di Mersault, poi per quella di Cardona. E nello Straniero Meursault apprende della morte della madre, avvenuta in ospizio; va al funerale senza versare una lacrima; tornato in Algeri, va al mare con una ragazza, Maria Cardona, di cui diventa l’amante; quindi fa amicizia con il suo vicino di pianerottolo, certo Raymond; e finisce per trovarsi coinvolto, al mare dove si è accompagnato con i suoi vicini, in una rissa con due arabi pretendenti vendetta su Raymond; ne uccide uno con la pistola che da quest’ultimo gli era stata passata; è perciò processato e condannato a morte, aprendosi «per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo». Sugo della storia è: «Nella nostra società chiunque non piange al funerale della propria madre rischia di esser condannato a morte» (è il motto citato nella prefazione dell’autore a una edizione americana dello Straniero. E persino l’io narrante della Caduta (Chute), annuncia al tempo presente: «Oggi la mamma è morta». Si avvertono ancora molti richiami dal Processo di Kafka o dai Fiori del male in Baudelaire. Ma non vi manca l’archetipo junghiano e joyciano.

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* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt“; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, in corso di pubblicazione).

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