> di Andrea Marini*
«Perché non possiamo mai
mai
essere amati?»
(M. Houellebecq)
1. In Ricordo della Differenza
Abitiamo o passiamo? Siamo radicati in un moto continuo o avvinghiati alla fredda staticità del possesso? Viviamo la proprietà come limite o siamo confinati in una proprietà? Da queste domande possiamo partire per interrogarci su di un problema assai pregnante e arduo, come i più irti sentieri di montagna o le più difficoltose ferrate – quale è il problema del confine.
Gli interrogativi che abbiamo posto non pretendono una risposta immediata, sono questioni che ne generano altre: sono come iceberg, che sciogliendosi realizzano nuove forme, nuovi stadi d’essere.
Ogni “o” interna al quesito non è esclusiva, ma una scelta con-prensiva, nel senso che, quando proviamo a dare una soluzione, sveliamo subito la meta a cui volge l’altra e quindi ne cogliamo la presenza nella via che abbiamo intrapreso. La “o” null’altro è che un confine che delimita nella sua semplicità due o più percorsi, strade, radure, vite, mondi. Di conseguenza possiamo pensare, o immaginare cosa sia un confine: una linea reale o mentale, di varie forme, che delimita un qualcosa, che rende qualcosa ciò che è, e quindi, il suo non-essere-altro. Ma questo non-essere-altro è comprensivo della possibilità di essere tutto ciò che un confine include nel suo essere esclusivo: l’altro.
L’altro è il tema che caratterizza il confine e il suo essere tale, perché ogni di-visione è, come dice l’etimo della parola stessa, una doppia visione, un contemplare la diversità insita in ogni alterità che sorge ogni qualvolta che un limite o un confine viene tracciato. Tracciare un confine è segnare, donare esistenza alla differenza, cioè creare una distanza pura e viva, pulsante nel suo creare e di-videre. Ogni segno è un rimando quindi, in quanto simbolo o allegoria di qualcosa che richiama continuamente e più volte all’altro. Il segno ci mette di fronte all’Altro-da-noi, a ciò che ci viene in-contro.
Nella nostra epoca questa di-versità – la differenza – è messa in un recinto, in un confine quindi, in quanto limitata. Il nostro tempo non cerca di esaltare l’individualità e potenza delle cose e delle persone, ma al contrario vuole semplicemente unità e univocità; costruite su un terreno solido creato da una speranza comune e da un magma indistinto in cui non c’è linea o limite, in cui non c’è alcun tipo di ordinamento, o per dirla con le parole di Carl Schmitt, non v’è alcun tipo di Nomos1.
L’uomo ha sempre vissuto sulla linea e sul confine; è sempre stato oggetto di dibattito il suo reale o apparente dualismo, il suo duplice modo d’essere, la sua molteplice personalità, le sue varie capacità2. Nelle parole di Franco Rella: «A queste vie, che erano in prima istanza labili come la traccia della bava di una lumaca su di un muro, gli uomini consegnano la loro vita, il loro destino. E così esse acquistano una resistenza, individuale e collettiva, come fossero divenute le maglie d’acciaio che finalmente possono contenere il reale nelle sue metamorfosi e così dominare il “disordine” in cui le cose divengono e periscono»3.
Alla molteplicità e alla differenza chiamata dalle linee – dal confine nel quale si ode il ri-chiamo dell’Altro -, l’uomo affidava la sua vita, quando era ancora “animale simbolico”, quando ancora era in grado di accettare e vivere la differenza che da sempre lo ha fatto essere quello che era, e non è più.
I Greci, alla loro nascita come Europei, hanno da sempre accettato e capito il concetto di confine, come linea di demarcazione ed esaltazione della differenza, del valore intrinseco e costitutivo di ogni singolo essere. Infatti i Greci sono popolo figlio della libertà, e quindi della linea di confine, della frontiera. Sono i pargoli eterni di Eleutería, la libertà viva, mobile e in divenire nata dal confronto e dalla scoperta dell’Alterità, dell’Altro, quello che un tempo era l’Asiatico4. Ma ora il mondo ha scordato e accantonato tutto questo per vivere nella a-differenza e non nella in-differenza, perché in quest’ultima maniera sarebbe ancora legato al concetto di differenza. Così com’è ora no, se ne dimentica, la tralascia nell’esaltazione della forza illimitante, che priva ogni istanza di ciò che è. L’in-dividuo diventa così a-dividuo.
Il confine era sempre stato abitato con forza e sentimenti, vivendo il profondo terrore. Il crinale che è il «momento dell’angoscia, in cui tutto sembra essere percorso dal profondo brivido di terrore che chiude Cuore di Tenebra, oppure concentrandosi nel volto enigmatico di una felicità possibile ma inafferrabile»5, come lo è l’Altro – la venuta dell’Altro quando noi siamo nell’-essere-aperti, ov-vero quel terreno di confine che ci garantisce la differenza e il suo segreto. Il suo profondo e vero rispetto.
Cerchiamo ora di andare più a fondo nel concetto e nell’etimologia di “confine” per coglierne alcune sfumature e capirne ancora più in profondità il valore simbolico e allegorico e perché questa linea così sottile e immensa crea l’altro e il suo segreto.
2. Il Confine: un termine aperto
«Il lungo filo dell’oblio si svolge e si tesse
ineluttabilmente. Grida, pianti e lamenti.
Rifiutando di dormire, sento la vita che scivola via
come un battello bianco, tranquillo e irraggiungibile.»
(M. Houellebecq)
Nella storia della nostra civiltà, della cultura mondiale si è sempre posta l’importanza su quella parola che il dizionario Devoto-Oli definisce così: «Linea costituita naturalmente o artificialmente a delimitare l’estensione di un territorio o di una proprietà, o la sovranità di uno stato. […] Pietra, sbarra, steccato, che delimita una proprietà da quella attigua. Limite, termine (talvolta con sfumatura d’incertezza o lontananza): sterminato, illimitato». Ma questa linea è propriamente tale? Dalla definizione capiamo di no, è una linea nella sua accezione più simbolica perché è un tronco da cui partono infiniti rami. Questa “linea” è il limite che può essere simboleggiato da infinite cose, “pietra, sbarra, steccato”. È un solco nella molteplicità dello spazio che crea la differenza, l’Altro.
I miti raccontano sempre di questo confine con immagini diverse e svariate, possiamo scavare tra le sabbie della memoria e rinvenire il mito biblico creazione, quando Dio divise, limitando, il cielo e la terra; quando pose il veto di prendere la Mela, limita la possibilità e così genera la libertà e il libero arbitrio; quando scisse Paradiso e Inferno.
Se pensiamo a fatti storici ci può venire in mente facilmente la famosa vicenda di Cesare e il Rubicone, limite che non poteva varcare; o tutte le invasioni altro non sono che il trapassare un limite che scinde due realtà.
Il limite designa quindi una proprietà, un’ individualità de-finita dal limite stesso; come ci ricorda Piero Zanini: «Disegnare un confine diventa allora il modo per ottenere qualcosa dagli altri: uno spazio proprio dove stabilire le proprie regole, un’autonomia visibile anche dall’esterno, il riconoscimento di una diversità. Fin dalla sua prima apparizione, il confine mostra quello che sembra essere il suo carattere fondamentale: segnalare il luogo di una differenza, reale o presunta che sia»6.
Il confine è quindi sempre una limitazione, una legge lui stesso, perché le crea o ne separa alcune da altre; le polis greche avevano dei confini visibili, perché all’interno vigeva la loro legge e al di fuori quella dei barbari, gli stranieri in quanto non radicati in quella norma e in quel oikos7.
La stessa città di Roma fu fondata su una linea, un solco nella terra e della terra, una scissione che creò così una legge interna ed una esterna, infatti chi viola il confine senza il permesso viene messo di fronte alle regole che vigono in un certo luogo de-limitato; basti pensare alla vicenda di Romolo e Remo.
«Il confine è radicato fortemente nella terra»8, quindi. Il solco che viene tracciato nel terreno, lascia appunto una traccia visibile di sé e della regula che esso limita. «Questa traccia, chiusa su se stessa o ripetuta in sensi diversi, delimita per la prima volta uno spazio, lo toglie dal nulla, dall’infinito – e lo rende finito -, gli attribuisce una dimensione. Lo rende allo stesso tempo vivibile e inconfondibile. Inoltre permette a colui che ne descrive il limite di prenderne possesso, di stabilirvi un diritto»9.
Il limite può essere sia naturale che artificiale – anche se spesso il naturale diventa politico – ci basta pensare a cosa significano per l’Italia, la Francia, la Svizzera e l’Austria le Alpi, quella corona che sta in cima allo stivale italico,che contorna con tanta bellezza e sicurezza gli stati; possiamo guardare anche al Mediterraneo o agli Oceani, limiti naturali su di uno spazio che si è fatto libero e poi limitato nel corso della storia umana10. Quando ci dirigiamo in qualche luogo, solitamente, usciamo dalla nostra casa tramite una porta che ne delimita la proprietà e l’estensione, ci richiama in quanto noi nel nostro ambiente e in quanto esseri pronti a salpare per nuove terre, nuove “forze arcane” – come direbbe Francesco Guccini; un mettersi in gioco nel mare11 dell’Alterità e della differenza che intercorre tra mondi e ambienti e paesaggi12 di tipo diverso e altro.
La vita dell’uomo è un passaggio sul limitare dell’Io e dell’Altro, quel confine che come il Porto Sepolto per Giuseppe Ungaretti può essere si ricercato e visto, ma quando vi si torna indietro non rimane nulla se non “quell’inesauribile segreto”. Non a caso si chiama con-fine, è dove entrambi hanno la loro fine per incontrarsi, dove si sta di fronte l’uno all’altro. Quindi il limite viene qui ad assumere il nome di frontiera, il luogo dove gli sguardi dell’altro si incrociano per cogliere dolcemente sé stessi e chi ci sta d’innanzi13.
«La frontiera rappresenta […] la fine della terra, il limite ultimo oltre il quale avventurarsi significata andare al di là della superstizione contro il volere degli dèi, oltre il giusto e il consentito, verso l’inconoscibile che ne avrebbe scatenato l’invidia. Varcare la frontiera, significa inoltrarsi dentro un territorio fatto di terre aspre, difficili, abitato da mostri pericolosi contro cui dover combattere. Vuol dire uscire da uno spazio famigliare – l’Io -, conosciuto, rassicurante, ed entrare in quello dell’incertezza»14 – dell’orrore ci viene da dire. L’orrore si cela dove c’è l’ignoto, parafrasando H. P. Lovecraft, ed è li che noi tremiamo sull’orlo del limitare, sull’estrema linea del nostro mondo, la dove solo gli intrepidi osano, la dove c’è il mare ignoto affrontato da Colombo, verso la scoperta di una cosa famigliare, un “l’Io”, e qualcosa di oscuro e sconosciuto, misterioso, L’Altro, come fu per il navigatore genovese la scoperta dell’America. Il confine, la frontiera diventa così un qualcosa di non definito, ma che nel suo definire apre e si apre, si trasforma in un Altro a Sé, dove il contorno c’è ma non si vede, e diventa così ambiguo. Come il confine che separava Achille dalla tartaruga si faceva sempre più incolmabile, così la nostra frontiera diventa sempre più liquida e porosa, pronta a far passare le schiume degli altri mari. Si pone come spazio di libertà dove giace l’Individualità, cioè tra l’uno e il molteplice. La linea si fa Soglia, contorno che finché ci siamo sopra15 c’è ma non si vede. Tutto diventa così una soglia se noi ci apriamo alla venuta dell’altro e del suo segreto per cui noi dobbiamo avere rispetto. Un viaggio tra il mare aperto e l’Arcipelago, attraverso lo specchio di mare tanto caro all’uomo come ci ricorda Baudelaire: «Sempre amerai, uomo libero, il mare!/È il tuo specchio: contempli dalla sponda/in quel volger infinito dell’onda/la tua anima, abisso anch’esso amaro. […] E tuttavia da tempo immemorabile/vi combattete rischiando la sorte, tanto vi esalta la strage e la morte: nemici eterni, fratelli implacabili»16.
3. La Frontiera sulla Soglia
«Ma noi camminiamo verso di esso.»
(M. Houellebecq)
Il mare, abbiamo detto, è quel con-fine che segna il limite di una terra, che determina la differenza tra culture e popoli, tra persone. Il mare è la linea dell’orizzonte che ci dipinge dinnanzi colori e immagini, delinea figure sempre diverse e nuove nelle loro infinite sfumature, uniche e sublimi. Un gabbiano che vola, radente e suadente, solitario tra le correnti dell’aria e del mare, verso il confine che si ri-crea continuamente. Si ricostituisce, si sposta di un po’ ogni volta verso l’infinito. È tramite quella linea che noi, uomini in attesa, cogliamo con volo pindarico, con ali d’albatro, quel luogo tanto simile alla soglia nella sua immensa apertura, nel quale ci ricorda Leopardi è dolce il naufragare – l’infinito.
«Ápeiron, lo chiamava Anassimandro, il senza limiti, in quanto è un limite lui stesso, quello più lontano e profondo nel suo essere in-finito – pone e si pone nella finitezza. Il mare è quindi la frontiera che ci pone davanti una molteplicità di limiti infinita. È il luogo in cui l’altro ci viene incontro a ritmi incerti, a tratti discontinui, amplia la possibilità di orizzonti. Simbolo della modernità e della sua libertà in-condizionata, senza territorio; là dove troviamo il non-limitato è il nulla che ci aspetta, “quel nulla di inesauribile segreto” a cui accennavamo più sopra. L’orizzonte marittimo – frontiera – è quello schermo su cui si “accampano alberi case e colli, per l’inganno consueto”, la dove noi vaghiamo lasciandoci “il nulla alle spalle”, con “terrore d’ubriaco”. Ma chi incontriamo non sempre si volta, e così rischiamo di andarcene zitti tra questi uomini, con il nostro segreto»17.
La frontiera è il luogo del nulla, è il mare nella sua immensità orizzontale; dove dimora il poeta che è il “luogotenente del nulla”, ma anche “pastore dell’essere”. È il “custode di questa frontiera” che chiude aprendo allo straniero – alla venuta dell’oltre -, in quanto questa patria deve essere un “essere-a-casa”, senza farla diventare però uno “spazio claustrofobico”20. «Così la linea della frontiera non chiude e de-finisce soltanto, ma apre alla relazione con l’altro, senza tuttavia volerlo ridurre a sé»21, perché i segreti si accompagnano senza la possibilità di essere annullati, «è necessario pensare la linea come quel tratto che separando unisce e de-finisce i differenti, consegnandoli alla loro in-finita differenza. Colui che come il poeta soggiorna in prossimità della frontiera, chi vive ai margini, sa meglio di chiunque altro che solo attraverso lo s-confinamento nell’estraneo si può fare esperienza di ciò che è proprio»22.
Solo aprendoci, vagando, viaggiando, sperimentando con la curiosità dei fanciulli possiamo soggiornare e abitare la soglia, porci nell’ascolto libero e puro dell’Altro, averne così rispetto e donandogli il nostro rispetto. È necessario diventare, come lo Zarathustra di Nietzsche, dei vagabondi, degli astri lucenti, degli astri d’oro com’è il profeta dell’oltreuomo23, imitando l’esempio della cometa per Carlo Michelstaedter, che risponde alla Terra che le dà, con tono dispregiativo, della vagabonda: «Meglio non guardare dove si va che andare solo fin dove si può vedere» e ancora: «Meglio non far attenzione che attender sempre ciò che non vien mai»24. Imparare ad essere un po’ più comete che pianeti. Avere la propria casa nel nostro essere-a-casa, ma non una dimora claustrofobica. Imparare dai greci, perché «il limite […] non chiude più di quanto non apra, è esposizione ad un’alterità che contribuisce a segnare il tracciato. Linea di confine in quanto chiusura/apertura, dentro/fuori, identità/differenza da pensarsi insieme. L’altro, lo straniero non abita altrove, oltre il confine. Io non abito qui, al di qua di esso. Nessuno è veramente mai ‘a casa’ quando soggiorna “alle porte/della foresta”»25.
L’ uomo che abita la soglia si fa soglia lui stesso in quanto limite – segreto – però, allo stesso tempo, frontiera verso l’altro, aperta all’incontro e alla differenza; si fa tollerante perché la soglia – frontiera – è il luogo della tolleranza e rispetto del segreto. «L’uomo facendosi soglia, può fondare una società in cui la passione e il conflitto cessino di essere distruttivi e si trasformino in una energia positiva»26. L’uomo così divenuto si fa calice colmo di potenza ed energia creative, in grado di fondare e mettere le basi per una nuova civiltà dell’altro-segreto-a-venire. La soglia – frontiera – è il luogo dell’Orrore, dove si incontra il mistero e il misterioso, l’Altro e la sua Alterità, le forme nella loro infinità di possibilità e stato d’essere, è dove noi ci poniamo in ascolto della sublimità violenta del canto della differenza e della natura, è la via di città, il Passage, in cui dobbiamo imparare ad abitare per vivere e ri-con-struire la nostra frantumata e macerata Modernità.
È «il luogo in cui i nostri gesti si svolgono e si inseriscono armoniosamente nello spazio e suscitano la loro cronologia, il luogo in cui tutti i nostri esseri sparsi camminano affiancati e in cui è abolito ogni divario, il luogo magico dell’assoluto e della trascendenza in cui la parola è canto, in cui l’andatura che è danza non esiste sulla Terra, ma noi camminiamo verso di esso»27.
Aprirci per porre nuovi mattoni sulle fondamenta della storia umana affinché si possa innalzare una nuova Casa da abitare, che noi comunemente chiamiamo Mondo, vivendo un nuovo Nomos.
Un dolce navigare/naufragare tra le isole dell’Arcipelago.28
1 Carl Schmitt abbozza ad una definizione del termine Nomos appellandolo come «ordinamento naturale che sorge su di un terreno». La nostra epoca, attraversata “dall’ospite inquietante” – il nichilismo -, secondo il pensatore ha bisogno di un nuovo Nomos, quindi ordinamento, dato che la vampata nichilista ha annientato completamente l’ordine originario e quindi le differenze necessarie alla costituzione di un mondo e di un equilibrio mondiale. Lo stato mondiale che arriva a delinearsi nel nostro tempo, data questa mancanza di ordo, è un’immagine distorta e degenerata della terra Utopia di Thomas More o della Nuova Atlantide di Francis Bacon, dove regna la scienza ed è assente la differenza e la natura. La diversità è un qualcosa di costitutivo per l’identità mondiale e se viene meno o se viene data solo nella sua accezione negativa, questa priva della vita l’oscillare e il divenire dell’esistenza, rendendo tutto una massa indistinta. Da qui la necessità di un Nomos – un ordine – e di confini, così da generare una nuova base di crescita. Su tutto questo cfr. C. Schmitt, Il Nomos della terra nel diritto internazionale dello “Jus Publicum Europeum”, trad. it e postfazione di E. Castrucci, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 2006; inoltre cfr. C. Resta, Stato mondiale o Nomos della terra. Carl Schmitt tra universo e pluriverso, Diabasis, Reggio Emilia 2009.
2 Possiamo qui pensare al dualismo cartesiano, alla duplicità della persona narrata da Stevenson o Hesse, all’Io ed Es di Freud, al corpo e all’Anima delle religioni occidentali – giusto per fare alcuni esempi evidenti.
3 F. Rella, Miti e figure del moderno; Letteratura, arte e filosofia, Feltrinelli, Milano 2003, p. 22.
4 Cfr. M. Cacciari, Geo-Filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994.
5 F. Rella, Miti e figure del moderno, op. cit., p. 23.
6 P. Zanini, Significati del confine, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 5.
7 Sul significato di oikos, cfr. M. Cacciari, op. cit..
8 P. Zanini, op. cit., p. 5.
9 Ivi, p. 6.
10 Cfr. C. Schmitt, op. cit.; cfr. P. Matvejević, Il Mediterraneo e l’Europa; lezioni al Collège de France, a cura di G. Vulpius, Garzanti, Milano, 1998.
11 Sul concetto di “mare” cfr. M. Cacciari, op. cit., dove l’autore prende come esempio della tensione “faustiana” all’infinito il mare, sfida continua ed eterna. Grande metafora della libertà umana. Il mare è il luogo dove l’uomo sogna, viaggia e desidera, è l’elemento che ricorda la hýbris filosofica, il salto nel non conosciuto, nell’indeterminato da dis-velare. Il mare è il doppio che ricrea l’androgino originario con la gemella terra; è una delle due parti che si scontrano nel pólemos mai soluto che rappresenta il tendere verso la metamorfosi continua della storia, non elemento dialettico ma dinamico e creativo.
12 Cfr. L. Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1996; cfr. L. Bonesio, Paesaggio, identità e comunità tra locale e globale, Diabasis, Reggio Emilia 2007.
13 Cfr. J. Derrida, L’animale che dunque sono, a cura di M. Zannini, Jaca Book, Como 2006; cfr. C. Resta, L’evento dell’altro. Etica e politica nel pensiero di Jacques Derrida, Bollati Boringhieri, Torino 2003.
14 P. Zanini, op. cit., pp. 10, 11.
15 Cfr. E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, dove i due filosofi discutono e argomentano sulla possibilità di abitare o superare la linea del nichilismo.
16 C. Baudelaire, I fiori del male, a cura di A. Prete, Feltrinelli, Milano 2003, p. 59.
17 Cfr. E. Montale, Ossi di seppia, Mondadori, Milano 2006.
18 Cfr. F. Rella, Interstizi tra arte e filosofia, Garzanti, Milano 2011, in cui il filosofo svolge il pensiero a riguardo del luogo dell’arte e del luogo degli artisti, o poeti in senso platonico e heideggeriano; inoltre cfr. M. Cacciari, Geo-Filosofia dell’Europa, op. cit..
19 C. Resta, Il luogo e le vie; geografie del pensiero in Martin Heidegger, Franco Angeli, Milano 1996, pp. 98, 99. Si tenga ben presente per il prosieguo dello svolgimento della riflessione questa opera della Resta.
20 Cfr. C. Resta, ibidem.
21 C. Resta, ivi, p. 99.
22 Ibidem.
23 Ricordiamo che la parola “Zarathustra” in italiano è comunemente tradotta con “stella d’oro”.
24 C. Michelstaedter, Il dialogo della salute e altri dialoghi, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1988, p. 113.
25 C. Resta, Il luogo e le vie, op. cit., p. 101.
26 F. Rella, Miti e figure del mondo moderno, op. cit., p. 130.
27 M. Houellebecq, La ricerca della felicità, trad. it. F. Ascari, Bompiani, Milano 2008, p. 87.
28 Massimo Cacciari introduce il concetto di Arcipelago nella sua opera L’Arcipelago che va a completare il discorso sulla spazializzazione geo-filosofica iniziata in Geo-Filosofia dell’Europa. L’Arcipelago viene a porsi in tutto questo come l’elemento-soglia tra la terra e il mare che sono i due caratteri agonici e polemici che secondo il filosofo, sviluppano la storia dell’Uomo e l’uomo stesso. L’Arcipelago è propriamente la via intermedia tra il mare e la terra, essendo esso formato da isole – terra – situata nel mare; in questo si può navigare senza perdersi nei meandri oceanici, ma trovando sempre il termine polemico di paragone, il limite e confine che è questa formazione geofisica naturale, la soglia naturale nel suo apparire. Cfr. M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1996.
* Andrea Marini, laureato in filosofia con una tesi sul concetto di spazio nella prospettiva geofilosofica, collabora con le cattedre dei professori Davide Bigalli e Luca Bonardi, con le riviste “Nomos” e “Antarès”. Sta conseguendo un dottorato di ricerca in beni culturali e ambientali con una tesi sulle prospettive geofilosofiche delle Alpi a partire dall’analisi della storia dell’alpinismo. Svolge attività di ricerca su problematiche di natura estetica, paesaggistica, geopolitica e geofilosofica e su vari autori tra cui Walter Benjamin, Martin Heidegger, Friedrich Nietzsche, Georg Simmel, Ernst Jünger, Carl Schmitt, Michel Foucault.
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