> di Francesco Giampietri*
Sapere di sé, all’improvviso,
come in questo momento lustrale,
vuol dire avere subitamente
la nozione della monade intima,
della parola magica dell’anima [1]
I. Logica della dissimulazione
Pur essendo il più delle volte trascurato, forse sottinteso come sfondo abituale e quindi tutt’altro che degno di rimarcazioni, il piano di convergenza fra letteratura e filosofia, vale a dire l’emergenza delle tracce di influenze reciproche, di stimolanti suggestioni nonché dei più audaci sconfinamenti da una parte e dall’altra, dà espressione a soluzioni affascinanti, che è lecito assumere come chiavi ermeneutiche per ricomprendere, da un’inedita angolatura, questioni già ampiamente dibattute dalla storiografia. Non occorre di certo risalire all’opera platonica, ai sermoni di Meister Eckhart, ai Cherubinischer Wandersmann di Angelus Silesius, o anche ai dialoghi galileiani per confermare questa osservazione preliminare.
Nel panorama variegato della letteratura primonovecentesca, l’esperienza letteraria di Fernando Pessoa, sconcertante e per certi versi perturbante, essendo sospesa in un equilibrio fragilissimo fra poesia e schizofrenia (o meglio istero-nevrastenia[2], seguendo l’autodiagnosi del Poeta) è talmente intrisa di elementi filosofici (soltanto in parte riconducibili al pensiero critico di inizio secolo) da poter essere intesa complessivamente come una grandiosa metafisica della finzione[3] oltreché delle sensazioni[4]. In tal senso, l’opera pessoana si pone come una sfida singolare per la filosofia contemporanea, che è quindi chiamata, suo malgrado, ad essere alla sua altezza[5]: compito gravoso, inaudito, forse destinato a restare incompiuto. Se sono già state richiamate le assonanze, di certo visibili, fra l’universo eteronimico creato da Pessoa e le pieghe espressive del primo pensiero esistenzialista (in primo luogo la pseudonomia kierkegaardiana, una sorta di Marionetentheater) e le riflessioni di Heidegger sulla poesia, la presenza decisamente più sfumata, latente o soggiacente, di riflessi del pensiero leibniziano nelle pagine pessoane non è stata adeguatamente studiata[6], restando negligentemente insondata. Le letture metafisiche del poeta di Lisbona furono intense ma disordinate: al di là della fascinazione per la letteratura mistica e cabalistica e per alchimie del pensiero inclinanti ai saperi magici e ad oscure interpretazioni esoteriche dell’esistente, aveva una buona conoscenza del pensiero classico tedesco, e di certo la monadologia leibniziana non gli era ignota[7]. Non disponendo degli strumenti utili a comprendere cosa Pessoa abbia effettivamente letto, si rinuncia preventivamente al tentativo di accertare sul piano rigorosamente filologico le influenze leibniziane; del resto, il Poeta continua a sottrarsi in modo ineludibile allo sguardo analitico dell’ermeneuta. Di certo Pessoa ebbe modo di riflettere sul Dio Orologiaio, ricorrendo ad argomentazioni pancalistiche[8], sulla soggettività come specchio vivente[9] e finanche sulla cospirazione universale dell’esistente[10], di ippocratica ispirazione. Ma al contempo sovvertì il principio di non contraddizione, adottando una negazione fluttuante (capace di rendere reticente l’affermazione), e rifiutò il principio del terzo escluso[11]; inoltre creò la propria opera quand’era già morto il Dio dei filosofi. Al di là delle più semplici conformità e dei rilievi centrifughi, bisogna accontentarsi di lasciar emergere, negli appunti che seguono, alcune concordanze tacite che tuttavia appaiono troppo notturne per poter essere chiarite del tutto.
* * *
Come ha osservato Antonio Tabucchi, «Pessoa è l’eteronimia: parlare semplicemente di artificio letterario sarebbe sufficienza e presunzione»[12] nonché – si osa aggiungere – clamoroso fraintendimento. Per quanto sia fecondissima sul piano della creazione letteraria (nel senso che favorisce la costruzione di intrecci indipendenti dallo sdoppiamento originario del soggetto narrativo[13]), l’eteronimia non è un mero espediente, quanto piuttosto una maniera d’essere dovuta alla «tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione»[14], e pertanto un sintomo patologico. Moltiplicarsi, straripare, traboccare nell’alterità immaginaria per sentirsi e sentire (come si legge in A Passagem das Horas del Pessoa ortonimo) non è di certo un gesto innocente, privo di conseguenze[15]. Vivere è essere un altro[16]: l’invenzione dell’altro da sé sul quale riflettersi in modo anamorfico, in una condizione di perpetuo straniamento[17], non è altro che un modo originalissimo (forse l’unico possibile dato che le relazioni sono illusorie e menzognere[18]) di resistere alla stanchezza di esistere, facendo astrazione da un’individualità claustrofobica. E dunque, il Sé diventa la prolissità di se stesso: «nella vasta colonia del nostro essere c’è una folla di molte specie che pensa e sente in modo diverso»[19], estranei che proiettano singolarmente la stessa ombra. L’eteronimo rivendica dunque una biografia, come l’attore che deve mettere in scena il proprio dramma[20]. Le finzioni alleviano la vita. «Ci serviamo della menzogna e della finzione per capirci gli uni con gli altri, cosa che con la verità propria e intrasmissibile non sarebbe mai possibile fare»[21]; e in un certo senso la vita stessa è finzione. In tal senso, «l’artifice, la simulation, l’insincérité sont trois différentes manières de désigner le travail de l’art, selon que l’on envisage les moyens employés, le devenir-autre ou le rapport vie-littérature»[22]. Se ognuno diventa una sfinge falsa[23], il poeta deve mentire per esprimere al meglio la vita.
Nei salotti secenteschi la dissimulazione era di casa; come scrisse Fénelon, l’aria delle corti era appestata, vi si respirava l’ambizione quasi malgrado se stessi[24], e in un contesto così chiaroscuro, confuso da guerre di espansione e da crisi religiose, quel gesto discreto finiva per diventare una pratica non solo necessaria ma di per sé onesta (come argomentava Torquato Accetto). Anche un erudito come Gottfried Wilhelm Leibniz dissimulava, e non solo in accordo a una certa disposizione personale alla condotta diplomatica. «Talvolta è bene imitare Bruto, nascondendo il proprio animo, o addirittura fingersi folli, come fece Davide davanti al re dei filistei»[25]. Nell’evoluzione di un carteggio, fingeva di aderire al registro espressivo del corrispondente di turno, per evitare che diffidenze e pregiudizi potessero minare la ragione del confronto. Fece apparire sulle principali riviste scientifiche del suo tempo autorecensioni anonime ad alcune sue pubblicazioni[26]. Se Pessoa presenta l’eteronimo come un suo conoscente, oppure i suoi eteronimi entrano in polemica fra loro o Bernardo Soares, l’autore insonne del Livro do Desassossego, trae ispirazione e sollievo dalla lettura delle poesie di Alberto Caeiro, non diversamente Leibniz, in quanto recensore anonimo di se stesso sugli «Acta Eruditorum», riferisce di aver appreso il piano del suo Codex juris gentium diplomaticus dall’estratto di una sua lettera del 6 marzo 1693 già apparsa sulla stessa rivista. Il gesto è essenzialmente lo stesso, a variare sono le motivazioni e il contesto. Più in generale, nell’editare o nel comporre alcune sue opere, l’erudito di Hannover si è celato dietro altri nomi: il Teofilo dei Nouveaux Essais sur l’Entendement Humain, il Filarete dell’Entretien politico del 1678, il Georgius Ulicovius Lithuanus dello Specimen demonstrationum politicarum pro eligendo rege Polonorum, il Pacidio del Pacidius Philalethi, il Lubinianus del Phoranomus. Si tratta di un vero e proprio corredo di maschere sul quale la storiografia non si è interrogata abbastanza. Di certo la pseudonomia barocca era un riflesso letterario del gusto estetico dell’epoca, che prediligeva il gioco delle parti in soluzioni teatrali e ridondanti, oltreché un espediente prudente volto a marcare preventivamente una distanza di sicurezza rispetto alle maglie della censura. A dire il vero, la pseudonomia leibniziana è più profonda di un mero esercizio stilistico e diplomatico, dal momento che – pur non essendo associata a sviluppi biografici – ha un fondamento eteronimico: si potrebbe dire che il nome, per quanto falso, dica il vero. Ad esempio l’autore del Tractatus de Jure Suprematus è Caesarinus Fürsternerius, ovvero un sostenitore sia delle rivendicazioni dei prìncipi germanici in merito alla loro sovranità (Fürstern) sia delle prerogative imperiali (Caesar). Nella libera declinazione di una dissimulazione, l’eteronimo risolve in sé, già nel suo nome, un intero programma politico.
II. Microcosmi
Al limite del solipsismo[27], la dimensione soggettiva si configura come un microcosmo, un mondo interiore conchiuso in sé, vale a dire l’«anima che sente e pensa, l’universo che io sono per me stesso»[28].
Ah, o mundo è quanto nós trazemos.
Existe tudo quanto existo.
Há porque vemos.
E tudo è isto, tuto è isto![29]
Questa è la radice filosofica dell’incomprensibilità dell’altro[30]. Il Sé è una dimensione ineffabile per via della sua profondità: è il centro di una geometria dell’abisso[31]. L’anima può dunque essere intesa come un pozzo oscuro e vischioso che guarda il cielo[32]. È quel che resiste al cambiamento. «Ciascun volto, anche lo stesso che abbiamo visto ieri, oggi è un altro, perché oggi non è ieri […] L’identità è solo nella nostra anima (l’identità sentita con se stessa, anche se falsa) attraverso la quale tutto si somiglia e si semplifica. Il mondo è cose staccate e spigoli distinti; ma se siamo miopi, esso è una nebbia insufficiente e continua»[33]. I corpi si trasformano, l’esistente subisce alterazioni, come prova del resto il logorìo degli artefatti e degli eventi. Come Leibniz aveva già inteso, il piano fenomenico risolve soltanto in parte il problema dell’individuazione ontologica della singolarità. In assenza dell’anima, un corpo resterebbe lo stesso soltanto in apparenza e non potrebbe sussistere più di un istante, poiché non avrebbe nulla di reale o di sostanziale. «Se non esistessero affatto anime, o qualcosa di analogo ad esse, allora non esisterebbe nessun Io, né monadi, né unità reali, e tanto meno esisterebbero moltitudini esistenziali, o piuttosto, tutto nei corpi non sarebbe che apparenza»[34]. Se il mondo non appare inoltre come una collezione fosca e frammentata di aggregati è soltanto in virtù dello sguardo percettivo.
Nel crinale sospeso fra letteratura e vita, filosofia e finzione, il mondo viene a configurarsi come un romanzo, nel senso che l’esistente si presenta come «una serie intercalata di sogni e romanzi, come scatole dentro altre scatole più grandi (le une dentro le altre e queste dentro altre ancora)[35]: tutto una storia con storie, come le Mille e una Notte, a svolgersi falsamente nella notte eterna»[36]. E dunque «sono come una storia che qualcuno ha raccontato così bene da farla procedere, carnale ma non troppo, per questo mondo romanzo […]»[37]. Se quella pessoana è una poetica dell’assenza radicale ed assoluta (in primo luogo del soggetto – frammentato – ma anche di Dio, che è morto) propria di una visione tragica e nichilista[38], allora il mondo-romanzo non è il prodotto di un autore-creatore, ma un’opera autopoietica[39]. Non v’è traccia del Romanziere al quale si riferiva invece Leibniz. Secondo il filosofo di Hannover, infatti, le individualità sono inscritte in convergenze “letterarie” in virtù del principio di compossibilità (o di negazione delle incompossibilità), che disinnesca ogni potenzialità aleatoria. La letteratura è una metafora della creazione divina: all’origine del mondo v’è il gioco combinatorio di Dio, ispirato una sapienza estetica. Se il gioco creativo che “inventa” la letteratura tende a far lievitare tutti i possibili nel medesimo intreccio senza discriminazioni disgiuntive (come prova del resto la poetica eteronimica), il gioco divino è invece regolato da un’economia della convenienza. La differenza è nel ricorso “esclusivo” e “totalizzante” alla disgiunzione. La storia universale del mondo è dunque il romanzo divino[40]. Del resto, una delle qualità migliori del romanziere è quella di lasciar cadere l’intreccio in confusione, per poi scioglierlo inaspettatamente. «La bellezza di un romanzo è tanto maggiore quanto più ordine esso rivela al termine della massima confusione apparente. Sarebbe anzi un intreccio difettoso quello di cui il lettore potesse troppo presto indovinare lo svolgimento»[41]. Per questa ragione, il romanzo è una rappresentazione in compendio dell’ordine universale.
Torniamo alla dimensione microcosmica. Ogni individuo ha in sé, sul proprio fondo, il proprio mondo di appartenenza, ovvero un oscuro riassunto della storia: «ho sofferto in me, con me, le aspirazioni di tutti i tempi, e hanno passeggiato con me, sulle rive ascoltate del mare, le inquietudini di tutti i tempi»[42]. Il fondo dell’individualità è di per sé umbratile[43]. Nella nozione completa di ogni singolarità sono contenuti tutti i predicati, sia quelli contingenti sia quelli necessari, passati, presenti e futuri (prædicatum inest subjecto): «In ogni momento, si trovano nell’anima di Alessandro Magno le tracce di tutto ciò che gli è accaduto e i segni di tutto ciò che gli accadrà, nonché le tracce di tutto di ciò che accade nell’universo, sebbene appartenga soltanto a Dio il riconoscerle tutte»[44]. Se l’anima può leggere in sé soltanto quel che v’è rappresentato distintamente, il riassunto generale della storia non può non risultarle oscuro. La vita psichica è in definitiva un movimento nella penombra[45] in virtù del quale il mondo si risolve nello sguardo[46].
La nozione completa dell’individuo si declina in un proscenio di figure abituali e ripetitive, per le quali «la monotonia di tutto è la monotonia di me stesso»[47]. Bernardo Soares, il semi-eteronimo che sta alla finestra[48], sospendendo le proprie sensazioni fra un’interiorità debordante e una mondanità sonnolenta, non può non essere un travet[49]. Sente in sé la necessità di appartenere al proprio microcosmo[50]. L’assenza di presenze consuete, fossero anche marginali o sullo sfondo, è struggente, dato che dà luogo a sentimenti nostalgici[51]. Il tentativo di sottrarsi all’inesorabile ritorno del Medesimo, ovvero alla schiavitù delle circostanze, è vano; di qui l’illusione della libertà e la monotonia della quotidianità. «Ogni cosa che è stata nostra, seppur solo per accidenza di convivenza o di visione, appunto perché è stata nostra diventa noi stessi […]. Tutto quanto succede nel dove in cui viviamo, succede in noi. Tutto quanto cessa in ciò che vediamo cessa in noi»[52]. La parvenza usuale ha dunque in sé il germe dell’ambivalenza: tranquillizza ma al contempo dà nausea, provocando «nella gola dello spirito il nodo salivare della pena fisica»[53].
III. L’anticamera del niente
La singolarità ha dunque un fondo oscuro. Tutto deriva da lì, con una piena spontaneità[54]. In tal senso l’anima è come un maelström corvino, «una vasta vertigine intorno al vuoto, un movimento di un oceano senza confini intorno a un buco nel nulla, e nelle acque, che più che acque sono turbini, galleggiano le immagini di ciò che ho visto e sentito nel mondo: vorticano case, volti, libri, casse, echi di musiche e spezzoni di voci in un turbine sinistro e senza fondo»[55]. Al di là del vuoto, che fa orrore, e delle voragini, che mettono in discussione la pienezza dell’esistente, è difficile non cogliere nella citazione risonanze leibniziane, legate alle piccole percezioni che compongono «uno sciabordìo, un rumore, una bruma, una danza di pulviscoli impalpabili. È uno stato di morte o catalessi, di sonno o intorpidimento, di svenimento o stordimento»[56]. In una condizione affine a un profondo sonno senza sogni[57], «si gira sempre nello stesso senso e si è in preda a una vertigine tale che può farci svenire e non ci permette di distinguere nulla»[58]. Ciò avviene quando si bloccano i meccanismi differenziali che regolano la percezione[59], e in virtù dei quali il senso filtra dal non senso.
Le sensazioni oniriche sospendono l’attenzione, garantendo tuttavia la continuità della vita psichica[60]: il Sé diventa sonnambulo e convalescente nonché dimentico di sé: «ci sono sensazioni che sono dei sonni, che occupano come una nebbia l’intero spazio dell’anima, che non permettono di pensare, che non permettono di agire, che non permettono chiaramente di essere»[61]. Si tratta di un torpore simile a un’ebbrezza, in virtù del quale entresou[62], sono infra(in)cosciente. Come i sogni, anche le percezioni preconsce lasciano tracce che potrebbero rivelarsi condizionanti. Così si vive per lo più nell’inconsapevolezza, non diversamente dagli animali. Per converso, la coscienza si definisce dunque come resistenza vigilante, epifania monadologica.
* * *
La crisi individuale si proietta sullo sfondo epocale, tanto per Leibniz quanto per Pessoa. Nel caso del Seicento, «il Barocco è un lungo momento di crisi in cui la consolazione ordinaria non funziona più. Si assiste a un crollo del mondo, che l’avvocato deve ricostruire, esattamente come prima, ma su un’altra scena e in base a nuovi princìpi capaci di giustificarlo […]»[63]; il mondo deve essere il migliore, in tutti i dettagli e in tutti i casi. L’anima inquieta è dunque un riflesso della frattura dei tempi. In contesti storici diversi, al cospetto di un’epoca saturnina, Pessoa si frammenta in alterità letterarie, divenendo una sola moltitudine, mentre Leibniz trasforma quel che è multiplo e in apparenza eterogeneo per ricavarne un’autentica unità[64]: due gesti opposti che tuttavia sembrano richiamarsi in silenzio.
Bernardo Soares è l’autore impersonale e indifferente, privo di storia, di un diario disforico[65], intessuto in una prosa «lucidamente suicida»[66]: la sua opera è in realtà un non-libro, vale a dire un libro impossibile piuttosto che in potenza, un «testo irritante e sovversivo della restante testualità pessoana»[67]. Gli appunti frammentati ed anodini di Soares rivendicano un ripiegamento fallimentare e marginale, ovvero l’emergenza del tedio, inteso come il sentimento della vacuità dovuto alla sconfitta di una mitologia o di un dio, e quindi la rovina dell’illusione, che è la vera e unica realtà delle cose[68]: compongono dunque il non libro del tedio.
Desassosego, in quanto das Unheimliche dovuto alla mancanza (de) di quiete (sossego), ingenera straniamento; priva di scopo ed effetto, è un malessere eccessivo e futile che dà voce al desiderio di poter volere (come si legge nell’ortonima Tormenta). Suggerisce Álvaro de Campos che l’inquietudine sia presa a bocconi come pane ferrigno e scuro, mandata giù a mali sorsi come vino d’ubriaco che neppure la nausea ostacola: è un difetto di circolazione nell’anima, la lipotimia delle sensazioni (Vilegiatura). Ma l’inquietudine è dinamica: può essere intesa come il movimento di una singolarità che, non potendo approdare a nulla, è pronta a divenire altro[69]. Ha dunque in sé un nucleo di positività, come dimostra l’Unruhe leibniziana. Non si risolve in una figura del dolore segnata da presentimenti timorosi: si può associare anche alla speranza[70] che dunque, a differenza di quanto riteneva Spinoza, non è una passione triste. Nella misura in cui è inquieto il soggetto deforma il mondo, che in realtà cambia pur restando fedele a se stesso, dato che il suo ordine è l’equazione di una retta geometrica. Proprio l’azione, la vera intelligenza[71], è il principio di restaurazione del mondo corroso dallo sguardo anamorfico. Spingendo a cambiare[72], l’inquietudine è condizione di felicità, che non consiste in una gioia piena (che estinguerebbe il desiderio e renderebbe ottusi), ma in una progressione continua di nuovi piaceri e perfezioni. Risponde a desideri, talora vaghi, che dal fondo della soggettività reclamano di essere soddisfatti, a stimoli che – come molle – fanno agire assorbendo l’indifferenza[73].
Diversamente dall’inquietudine, l’angoscia è in sé negativa: non è dovuta a qualcosa di determinato e produce un’ansia improduttiva, poiché si lega a quel che è e potrebbe non essere, al nulla come al possibile. «Non possiamo dire dinanzi a che cosa uno è spaesato, perché lo è nell’insieme. Tutte le cose e noi stessi affondiamo in una sorta di indifferenza. Questo, tuttavia, non nel senso che le cose si dileguino, ma nel senso che nel loro allontanarsi come tale le cose si rivolgono a noi. Questo allontanarsi dell’ente nella sua totalità, che nell’angoscia ci assedia, ci opprime. Non rimane nessun sostegno»[74]. L’angoscia è la condizione dell’individuo come mera possibilità. Ma nel possibile tutto e possibile: «per la libertà, il possibile è l’avvenire, per il tempo l’avvenire è il possibile. Così all’uno come all’altro, nella vita individuale, corrisponde l’angoscia»[75], che rende la vita impotente. È il cancro del niente radicato all’interno del vivente. Se essa è la declinazione inconscia di una vita che sembra perdersi nel vuoto, in virtù della quale il niente consuma il cuore velandolo di vana disperazione, l’inquietudine è l’energia oscura del mondo. Sono i desideri a far lievitare la storia, non le loro eventuali soddisfazioni, dal momento che non solo orientano le inclinazioni (tanto più che non si dà mai una condizione di perfetto equilibrio) ma inducono ad agire.
Bernardo Soares non è inquieto ma angosciato: oltre la monotana ripetizione dei suoi giorni sfumati, è chiuso in sé, non desidera né agisce, e quindi è infelice. Conduce un simulacro di vita, che non è altro che l’anticamera del niente.
Note:
[1] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, a cura di A. Tabucchi e M. J. de Lancastre, Feltrinelli, Milano, 2006, § 100, pp. 121-122; cfr. Ivi, § 110, p. 131.
[2] Cfr. F. Pessoa, lettera ad A. Casais Monteiro, 13 gennaio 1935, in A. Tabucchi, Un baule pieno di gente. Scritti su Fernando Pessoa, Feltrinelli, Milano, 20002, p. 128.
[3] A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, cit., p. 8.
[4] J. Gil, Fernando Pessoa ou La métaphysique des sensations, Editions de la Différence, Paris, 1988.
[5] Cfr. A. Badiou, Inestetica, a cura di L. Boni, Mimesis, Milano-Udine, 2007, p. 61. Più in particolare, il pensiero poetico pessoano sfida il pensiero contemporaneo a superare il luogo comune del rovesciamento del platonismo.
[6] A tal riguardo si può richiamare un solo contributo: R. Leal, A monadologia discriminatória de Fernando Pessoa, «Diário da Manhã» (9 dez. 1961).
[7] Cfr. P. J. Perez Lopez, Poesìa, Ontologìa y tragedia en Fernando Pessoa, Editorial Manuscritos, Madrid 2012.
[8] Il Dio Orologiaio non può che essere perfetto e benevolente. Se v’è una ragione dell’esistente, questa riguarda di certo anche particolari che, a prima vista, sembrerebbero fuori luogo. Si vede la ragione, ma non il suo piano complessivo. «Come un poeta dall’agile ritmo può scrivere un verso stonato, cioè per lo stesso fine dal quale sembra allontanarsi […], così il Creatore può intercalare quello che la nostra stretta ragione considera aritmie nel decorso maestoso del suo ritmo metafisico» (F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 244, p. 262). Si tratta di un piano argomentativo, classicamente apologetico, legato all’insegnamento agostiniano e recuperato, nel discorso estetico, anche dalla teoria leibniziana dell’armonia; ed è significativo che per Pessoa l’armonia sia l’equilibrio fra forze divergenti piuttosto che l’assenza di tensioni o sparizione d’intensità (cfr. J. Gil, Fernando Pessoa ou La métaphysique des sensations, cit., p. 158).
[9] Il soggetto è come uno «specchio caduto che sente e che guarda la varietà del mondo» (F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 155, p. 172). Il rispecchiamento richiede l’alterità, dal momento che non ci si può vedere da fuori: «non c’è specchio che ci rifletta in quanto fuori, poiché non c’è specchio che ci tiri fuori da noi stessi. Sarebbe necessaria un’altra anima, un’altra impostazione dello sguardo e del pensare» (Ivi, § 151, p. 167).
[10] «Tutto ciò che esiste, esiste forse perché un’altra cosa esiste. Nulla è, tutto coesiste» (Ivi, § 259, p. 279).
[11] Cfr. A. Badiou, Inestetica, cit., p. 62.
[12] A. Tabucchi, Un baule pieno di gente, cit., p. 39.
[13] Sono emblematiche, per quel che concerne il caso Pessoa, due opere singolarissime, vale a dire O ano da morte de Ricardo Reis (1984) di José Saramago, che sviluppa pienamente la biografia abbozzata da Pessoa per il medico-poeta esiliato in Brasile per le sue idee monarchiche, e Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa. Un delirio (1994) di Tabucchi, che presenta i cinque principali eteronimi al capezzale del loro creatore.
[14] F. Pessoa, lettera ad A. Casais Monteiro, 13 gennaio 1935, cit., p. 129. Giorgio Agamben ha ricordato, in un’occasione, che la lettera a Casais Monteiro sulla genesi degli eteronimi è forse il più impressionante documento novecentesco di una desoggettivazione, ovvero di sperimentazione poetica dell’Io con risvolti etici (cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino, 20052, p. 109): nella crezione eteronimica, la soggettivazione presuppone una desoggettivazione, così come la desoggettivazione implica la risoggettivazione, vale a dire una reazione alla spersonalizzazione. «Tutto avviene come se l’esperienza poetica costituisse un processo complesso, che chiama in causa almeno tre soggetti – o, piuttosto, tre diverse soggettivazioni-desoggettivazioni, perché di un soggetto in senso proprio non è più possibile parlare» (ivi, pp. 110-111).
[15] La creazione eteronimica è infatti principio di distruzione.
[16] Cfr. F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, a cura di R. Francavilla, Feltrinelli, Milano, 2013, § 55, p. 65.
[17] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 149, p. 165.
[18] «Fingere è amare […]. Non sfuggiamo, per quanto lo vogliamo, alla fratellanza universale. Ci amiamo tutti gli uni con gli altri, e la menzogna è il bacio che ci scambiamo» (F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit., § 135, p. 130).
[19] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 15, p. 38.
[20] Cfr. Ivi, § 62, p. 85. È degno di nota che Pessoa in portoghese significhi persona, che a sua volta rievoca la maschera latina. La biografia dell’eteronimo è un prolungamento dell’atto creativo (cfr. E. Lourenço, Considerazioni poco o affatto intempestive, in Id., Fernando re della nostra Baviera. Dieci saggi su Fernando Pessoa, trad. it. di D. Stegagno, Empirìa, Roma, 1997, p. 21).
[21] F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit., § 135, p. 130.
[22] J. Gil, Fernando Pessoa ou La métaphysique des sensations, cit., p. 227.
[23] Cfr. F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit.,§ 12, p. 34. In definitiva, quel che non è l’anima è soltanto scenario e decorazione (cfr. Ivi, § 79, p. 86).
[24] Cfr. F. Fénelon, lettera al duca di Noailles, 22 giugno 1690, in Id., L’amore disarmato. Antologia dalle lettere, a cura di B. Papasogli, Edizioni Paoline, Milano, 1996, p. 95.
[25] G. W. Leibniz, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male, a cura di S. Cariati, Bompiani, Milano, 2005, § 315, pp. 715-717.
[26] Cfr. F. Giampietri (a cura di), Leibniz allo specchio. Dissimulazioni erudite, Mimesis, Milano-Udine, 2012.
[27]Se «la vita è essenzialmente uno stato mentale» (F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 195, p. 209), allora la realtà non è altro che un completamento naturale dell’anima (cfr. Ivi, § 13, p. 35).
[28] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 7, p. 30.
[29] F. Pessoa, Cefeira.
[30] «Nessuno comprende il prossimo. Siamo, come disse il poeta, isole nel mare della vita; scorre fra di noi il mare che ci definisce e ci separa» (F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit., § 190, p. 167). Inoltre, la soggettività sfugge all’immaginazione letteraria che induce erroneamente a ritenere che l’altro, in una data circostanza, si comporterebbe come farei io (Id., Il libro dell’inquietudine, cit., § 20, p. 43).
[31] Ivi, § 10, p. 33.
[32] Ivi, § 235, p. 255.
[33] Ivi, § 12, p. 34.
[34] G. W. Leibniz, lettera a J. Bernoulli, s. d., in Id., Mathematische Schriften, hrsg. von C. I. Gerhardt, Berlin-Halle 1849-1863, III, pp. 536-537.
[35] Si tratta del modello delle scatole cinesi, ovvero l’emboîtement che Leibniz assunse sul piano scientifico della teoria del preformazionismo embriologico (cfr. F. Giampietri, Teratologia e teodicea. Il problema della generazione nel pensiero di Leibniz, «Verifiche», XLI (4), 2012, pp. 307-330.
[36] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 133, p. 154.
[37] F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit., § 86, p. 92.
[38] E. Lourenço, L’infinito Pessoa, in Id., Fernando re della nostra Baviera, cit., p. 64.
[39] «Chissà che il romanzo non sia una realtà e una vita più perfetta che Dio crea attraverso di noi, e che noi – chissà – esistiamo soltanto per crearla?» (F. Pessoa, Il secondo libro dell’inquietudine, cit., § 95, p. 98). Pensarsi come espressione di una trama narrativa è un valido esercizio morale: «considerare tutte le cose che ci accadono come accidenti o episodi di un romanzo al quale assistiamo non con l’attenzione bensì con la vita – solo con questo atteggiamento potremo vincere la malizia dei giorni e i capricci degli eventi» (Ivi, § 125, p. 119).
[40] Per quel che concerne la metafora leibniziana del mondo come romanzo, cfr. G. W. Leibniz, lettera ad A. Ulrich, 16 aprile 1713, in Zeitschrift des historischen Vereins für Niedersachsen, hrsg. von R. Doebner und E. Bodemann, Hannover, 1888, pp. 233-234.
[41] G. W. Leibniz, Riflessioni sulla nozione comune della giustizia, in Id., Scritti politici e di diritto naturale, a cura di V. Mathieu, Utet, Torino 19652, p. 223.
[42] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 167, p. 184.
[43] Cfr. F. Giampietri, Il fondo umbratile dell’individualità. Leibniz e il principio di individuazione, «Bollettino della Società Filosofica Italiana», 206,2012, pp. 47-56. In quel che vive fra noi/tutto è notturno e confuso, si legge in Frestra del Poeta ortonimo.
[44] G. W. Leibniz, Discorso di metafisica, § 8.
[45] Cfr. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 222, p. 241.
[46] «Il mondo non sarà mai per noi altra cosa se non quello che è per noi» (Ivi, § 203, p. 219).
[47] Ivi, § 12, p. 34.
[48] La finestra di Soares ha imposte che possono essere aperte sia all’esterno sia all’interno (cfr. A. Tabucchi, Bernardo Soares, uomo inquieto e insonne, in Id., Un baule pieno di gente, cit., p. 67).
[49] «Forse la mia sorte è di essere un contabile in eterno» (F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, § 4, p. 28).
[50] Cfr. Ivi, § 12, p. 35.
[51] Cfr. Ivi, § 7, p. 30.
[52] Ivi, § 34, p. 58.
[53] Ivi, § 115, p. 137.
[54] Cfr. G. W. Leibniz, Saggi di teodicea, cit., III, § 296, p. 689.
[55] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 10, p. 33.
[56] G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, a cura di D. Tarizzo, Einaudi, Torino, 20042, p. 141.
[57] Cfr. G. W. Leibniz, Monadologia, § 20.
[58] Ivi, § 21.
[59] Cfr. G. Deleuze, La piega, cit., pp. 151-152.
[60] «Non c’è interruzione nella mia coscienza: sento ciò che mi circonda: se non dormo ancora, o se non dormo bene, comincio subito a sognare appena mi addormento» (F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 168, p. 185).
[61] Ivi, § 35, p. 59.
[62] Ivi, § 39, p. 63.
[63] G. Deleuze, La piega, cit., p. 114.
[64] Per quel che concerne questa operazione tipicamene leibniziana, si rinvia a J. Ortega y Gasset, La idea de principio en Leibniz y la evolucìon de la teoria deductiva, Buenos Aires, 1958, p. 267.
[65] Cfr. A. Tabucchi, Gli ultimi tre giorni di Fernando Pessoa, cit., p. 44.
[66] E. Lourenço, Fernando re della nostra Baviera, cit., p. 94.
[67] E. Lourenço, Il libro dell’inquietudine testo suicida?, in Id., Fernando re della nostra Baviera, cit., p. 105. Racchiudendo in sé tutte le tonalità della produzione pessoana, Il libro dell’inquietudine compromette la mitologia eteronimica: si tratta di un testo agonico che ha scongiurato un suicidio effettivo.
[68] F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Id. Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1975, VII, p. 341.
[69] Cfr. J. Gil, Fernando Pessoa ou La métaphysique des sensations, cit., p. 24.
[70] Cfr. G. W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, a cura di M. Mugnai, Editori Riuniti, Roma, 1982, II, XX, § 10, p. 161.
[71] F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine, cit., § 55, p. 79.
[72] G. W. Leibniz, Princìpi razionali della natura e della grazia fondati sulla ragione, § 18; Id., Nuovi saggi, cit., II, XXI, § 29, p. 175.
[73] Cfr. Id., Nuovi saggi, cit., II, XX, § 6, p. 159.
[74] M. Heidegger, Che cos’è la metafisica?, in Id., Segnavia, a cura di F. Volpi e F. W. von Herrmann, Adelphi, Milano, 1987, pp. 67-68.
[75] S. Kierkegaard, Il concetto di angoscia, in Id., Il concetto di angoscia. La malattia mortale, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze, 1965, p. 113.
*Francesco Giampietri, dottore di ricerca in Filosofia, è cultore di Storia della Scienze e delle Tecniche presso l’Università di Roma Tre e di Logica e Filosofia della Scienza presso l’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Socio fondatore della Sodalitas Leibnitiana, ha collaborato con l’ILIESI-CNR. Ha scritto saggi sul pensiero filosofico e scientifico del Seicento, ed è autore di Il cielo sceso a corte. Diritto e politica nel pensiero di Leibniz (Lampi di stampa, 2010) e curatore di Leibniz allo specchio. Dissimulazioni erudite (Mimesis, 2012).
[Clicca qui per il PDF]