> di Pietro Piro
Affamati di giustizia civile e desiderosi di ritrovare le ragioni di una filosofia critica che sempre più oscilla tra il culto museale dei patriarchi francofortesi e l’istigazione alla sollevazione contro l’Impero, potremmo rileggere gli “scritti civili” di Norberto Bobbio dedicati alla strage di Brescia che la casa editrice Morcelliana raccoglie in un piccolo ma denso volume dal titolo: La strage di Piazza della Loggia (Morcelliana, Brescia 2014). Questi “scritti d’occasione” ci permettono di ritrovare tutta la tensione civile di un filosofo della politica che ha sempre guardato con lucidità alla realtà, senza chiudersi unicamente nella torre d’avorio della speculazione accademica.
Bobbio – spesso accusato di essere un “tiepido” – ricordando la strage impunita di Brescia, evoca immediatamente il ricordo delle persone uccise: «Ogni morte è diversa dall’altra, come del resto ogni nascita. Ciascuno muore come singolo e solo, con gli affetti che lo hanno nutrito, con le fantasie che lo hanno aiutato a vivere, con gli incubi che lo hanno tormentato, con i suoi vizi e le sue virtù, con le sue abitudini, il suo modo di parlare, di ridere, di soffrire. La memoria esterna li accomuna, la memoria interna soltanto è capace di restituire a ciascuno la propria vita e anche la propria morte. Rievocando a una a una quelle vittime, e non tutte insieme, la strage appare ancora più orrenda. Dietro ogni vita stroncata c’era un universo di affetti e di progetti che è stato irrimediabilmente distrutto» (p. 26). È la persona, con la sua unicità e irripetibilità che la violenza annienta e per quanto le ragioni degli assassini possano trovare delle giustificazioni politiche, niente restituisce l’universo degli affetti dei caduti. Per Bobbio la strage è «fra tutte le forme di violenza, quella più vicina alla violenza assoluta: è il massimo delitto, l’omicidio, diretto consapevolmente contro gli innocenti» (p. 29). Bobbio riconduce la strage a una più ampia dinamica del potere e la colloca nella dinamica politica di una democrazia incompiuta che soffre la violenza del governo invisibile o criptogoverno. Il governo invisibile utilizza la violenza – che una vera democrazia rifiuta in toto – come strumento di destabilizzazione e di ricatto nei confronti del potere democratico. Bobbio scrive: «in uno Stato capitalista degenerato come il nostro, il pubblico diventa privato; lo stesso stato diventa un’immensa azienda privata le cui gigantesche risorse sono utilizzate per favorire certi gruppi di potere piuttosto che altri, per ottenere attraverso la conservazione e l’aumento delle clientele, la legittimazione a governare. Chi è padrone del sottogoverno è padrone del governo: per questo mi è accaduto di dire che l’Italia non è governata, ma in realtà è sottogovernata, governata “da sotto”, da un potere sottostante, si tratta di una vera e propria sottostruttura che sorregge una sovrastuttura labile e soggetta a frequenti mutamenti. Il governo passa, il sottogoverno resta» (p. 56). Se la trasparenza, il governo dal basso verso l’alto, il rifiuto categorico della violenza sono le caratteristiche fondamentali della Democrazia, il criptogoverno al contrario, è opaco, ambiguo, lascia filtrare mezze verità – o qualche utile menzogna – e diffonde molto rumore di sottofondo per depistare l’attenzione e confondere la ragione. Per Bobbio un “governo democratico ideale” dovrebbe reggersi sul perfetto funzionamento del principio di maggioranza, sulla sconfitta del governo invisibile e sulla centralità del Parlamento. Ma com’è possibile sconfiggere un potere invisibile che si rigenera anno dopo anno? Se il potere che governa è “sotto” e “sopra” non c’è che un teatrino di marionette, chi è in grado di “rovesciare la scena”? Per Bobbio indebolire il parlamento significava concedere ulteriori margini di movimento al criptogoverno. La diagnosi conclusiva di Bobbio giunge sino a noi senza essere stata corrosa dal tempo: «La nostra società non è tanto una società pluralistica (questa sarebbe ancora una connotazione positiva), ma una società policentrica, una società che non riesce più a trovare il proprio centro. In questo senso, […] si può parlare di disarmonia, di uno squilibrio, di un contrasto […] tra le istituzioni da un lato, e la società civile dall’altro» (p. 63). Possiamo non condividere la traiettoria politica di Bobbio. Tuttavia, dobbiamo onestamente riconoscergli quella passione civile che dovrebbe animare ogni filosofo che intenda assumere il proprio tempo, come banco di prova dei propri ragionamenti.