> di Giuseppe Brescia*
L’autonomia della poesia; la distinzione tra “persona pratica” e “personalità artistica” nello Shakespeare; l’interpretazione della legge dei “corsi e ricorsi storici”, come esigenza del perpetuo rinnovarsi di idealità spirituali e non meccanica ripetizione di fatti e accadimenti storici; la necessità, per non lasciarsi sopraffare, di contrapporre “forza a forza”, puntando però sempre al riscatto del cielo e dell’amore (“Love loves to love love”); il divario tra le “res gestae” e le “res gerendae” (“the irreparability of the past” e “the imprevedibility of the future”) nel corso dell’addio, al numero 7 di Eccles Street, tra Leopold Bloom e Stephen: – sono, questi, soltanto alcuni dei più importanti princìpi vichiani, e d’interpretazione vichiana, adottati da James Joyce in Ulysses (1922, ed. Penguin, London 1992, pp. 236 e 241-242; 490-492; 427-433; 816 sgg.), più tardi in Finnegans Wake, del 1939, il cui quarto libro è dedicato, propriamente, a “Il Ricorso”.
Ne trattai sistematicamente negli “Atti” dei Corsi di Formazione del Liceo Carlo Troya (Andria 2003); in Joyce dopo Joyce (Arte Tipografica, Napoli 2004); Tra Vico e Joyce (Laterza, Bari 2006), a proposito di “Quaternità e fiume del Tempo”, “Vitalità” e “flusso di coscienza”, “archetipi” e “accadimento”, “dialettica delle passioni” e teoria del “momento culminante”, sino al parallelo tra “Bassani e Joyce”, ne Il caro, il dolce, il ‘pio’ passato. Bassani e la memoria (Laterza, Bari 2010).
Sviluppo i punti essenziali. Nella sezione della cosiddetta “Biblioteca” (Ulisse, ed. it. Di Giulio De Angelis, con la consulenza di G. Cambon, C. Izzo e G. Melchiori, Milano 1960, alle pp. 256-257): “Questo ficcare il naso nella vita intima di un grand’uomo, cominciò Russell impazientemente. – Sei là, soldino buono? – Interessa solo un impiegato dell’anagrafe. Dico, abbiamo i drammi. Dico, quando leggiamo la poesia di ‘Re Lear’ che ce ne importa di come è vissuto il poeta? Quanto a vivere, i nostri servi possono farlo per conto nostro, ha detto Villiers de l’Isle. Sempre a ficcare il naso, a frugare fra i pettegolezzi di retroscena di quel tempo, quel che il poeta beveva, i suoi debiti. Abbiamo ‘Re Lear’: ed è immortale. – Il viso di Mr. Best interrogato consentì”. Russell risponde così a Stephen Dedalus, che vorrebbe che Amleto fosse lo stesso Shakespeare, manifestando la propria estetica ‘idealistica’: “L’arte deve rivelarci idee, essenze spirituali senza forme. La domanda suprema circa un’opera d’arte è da quali profondità vitali essa scaturisca. La pittura di Gustave Moreau è una pittura di idee. La poesia più profonda di Shelley, le parole di Amleto mettono il nostro spirito in contatto con la saggezza eterna, il mondo delle idee di Platone. Tutto il resto è speculazione di scolaretti per scolaretti” (op. cit., pp. 250-252). Definizione che – sia detto qui di passata – s’addice al recensore, ignaro del più vasto campo ermeneutico e riassumente il nostro libro come “diviso in tre parti”, Rosario Diana (“Il Denaro”, 13 ottobre 2007, n. 190, p. 69 e “Bollettino del Centro Studi vichiani”, XXXIII, 2007, pp. 200-201). Laddove, nell’originale (“Easy Ulysses”, dicono gli amici italiani studiosi di Joyce!) risalta il “punto vitale” della scaturigine dell’opera d’arte: con la differenza tra “persona pratica” e “personalità poetica” di ogni grande autore. Che è un aspetto sicuramente vichiano, o – se si vuole – vichiano-crociano, come nella giustificazione di Vincenzo Pepe, relatore al Convegno andriese del 2003 (cfr. Tra Vico e Joyce, Bari 2006, parte II, pp. 48-62).
“Art has to reveal to us i d e a s, formless spiritual essences. The supreme question about a work of art is out of h o w d e e p a l i f e d o e s i t s p r i n g. The painting of Gustave Moreau is the painting of ideas. The deepest poetry of Shelley, the words of Hamlet bring our mind into contact with the eternal wisdom, Plato’s world of ideas. All the rest is the speculation of s c h o o l b o y s f o r s c h o o l b o y s” (Ulysses, op. cit., p. 236).
C’è poi la reinterpretazione ideale della teoria dei corsi e ricorsi storici. “The year returns. History repeats itself”. – “No. Returning not the same “ – “The new I want”. Dove, nella stessa pagina di Ulysses (pp. 491-492), mirabilmente, il Joyce mette direttamente a confronto la più ‘divulgata’ dottrina vichiana della storia, “che si ripete”, con la correzione – interpretazione di Croce, lavorata da quest’ultimo ai primi del Novecento, fino alla monografia del 1911: “No. Non ritorna mai lo stesso accadimento. – Io desidero il nuovo” (E’ la risposta).
Joyce – mi è accaduto di scrivere altra volta – è un “filosofo, travestito da letterato, e che si diverte”. In effetti, come cattura da ogni direzione concetti, idee e forme, immettendoli nel gioco linguistico dell’etimologia “perenne” e del “flusso di coscienza” (Ortega y Gasset definirà l’uomo – come è noto – ‘animale etimologico’), così lo scrittore irlandese ha preso molto da Dante, Bruno, Vico e Croce sia sui banchi del Belvedere College di Dublino, che a Trieste, dove chiede all’amico Dario De Tuoni copia della prima Estetica di Croce (cfr. “C’era Croce nell’Ulisse di Joyce”, in “Corriere della Sera-Cultura”, 25 gennaio 2003; e Joyce dopo Joyce, op. cit., pp. 41-50, sulle tracce dell’aureo libretto edito da Vanni Scheiwiller a Milano nel 1966, i Ricordi di Joyce a Trieste). Così, per il rapporto tra passato presente e avvenire, Joyce inserisce lo schema ‘ideale’ nella scena del lungo addio tra Bloom e Stephen, vero “momento culminante” del racconto, in vece del più celebrato monologo di Molly Bloom a Gibilterra, che lo ‘conclude’ (“E sì, dissi sì, voglio sì”), poi interpretato in tutte le salse teatrali o persino goliardiche. Qui Joyce ‘ferma il tempo’, adottando una forma di ‘rallentamento’ del tipo di quello introdotto dal ‘padre’ Omero nel XIX della Odissea, allorché Euriclea scopre la cicatrice di Ulisse e minuziosamente riporta la scena della caccia al cinghiale. Ma Joyce ricorre a circa trecento interrogazioni che definiscono in tutte le coordinate cosmiche l’addio tra Leopold e Stephen sul cancelletto di casa, congiungendo “vitalità” e “cosmo” e la collimazione dei due ‘percorsi’ ( del ‘padre’ e del ‘figlio’ ) in tutte le loro relazioni fotografiche, letterarie, religiose, filosofiche, linguistiche, spaziali, temporali, astronomiche, galattiche, celestiali e poi ancora affettive, familiari, europee, geografiche e storiche, che pongono al centro l’influsso degli astri sui destini umani e il rapporto passato-futuro. “Che cosa sentì Bloom, rimasto solo? Il freddo dello spazio interstellare, migliaia di gradi sotto il punto di congelamento o zero assoluto Fahrenheit, Centigrado o Réaumur: le incipienti avvisaglie della prossima aurora” (p. 916). “Quale prospettiva di quali fenomeni lo invogliò a rimanere? La sparizione delle tre ultime stelle, la diffusione della luce aurorale, l’apparizione di un nuovo disco solare” (ibidem).
E sull’attrattiva dell’Irlanda: “Le scogliere di Moher, le lande spazzate dal vento di Connemara, il lago Neagh con la sua città pietrificata sommersa, la Via dei giganti, il Forte Camdem e il Forte Carlisle, la Valle d’Oro di Tipperary, le isole di Aran, i pascoli della regale Meath, l’olmo di Brigid a Kildare, i cantieri di Queen’s Island a Belfast, il Salto del Salmone, i laghi di Killarney” (p. 946). Joyce, pur facendo poesia (p. 908: “L’albero celeste delle stelle carico di umidi frutti nottazzurri”), fa anche ironia sulla tesi degli influssi astrali, propria degli antichi: su Sirio, su Arturo, su Orione, sulla SuperNova del 1901 (ibidem). Fa ironia sul “ricorso annuale di piogge meteoriche verso il giorno di S. Lorenzo (martire, 10 Agosto)” e sul “ricorso mensile noto come la luna nuova con la luna vecchia tra le braccia”: “apparizione di una stella (di I^ grandezza) attorno all’epoca della nascita di William Shakespeare nel delta della costellazione reclina di Cassiopea che mai non tramonta..” (p. 911). “Accettava dunque egli come articolo di fede la teoria degli influssi astrologici sui disastri sublunari? – Gli sembrava passibile sia di prova sia di confutazione e la nomenclatura usata nelle carte selenografiche parimenti attribuibile sia a intuizione verificabile sia falsa analogia: il lago dei sogni, il mare delle piogge, il golfo delle rugiade, l’oceano della fecondità” (p. 912).
Joyce, cioè, fornisce una risposta “epistemologica”, di tipo pre-popperiano, circa la falsificabilità degli “pseudoconcetti” adottati dalla scienza astronomica per caratterizzare la superficie lunare (ma lo stesso procedimento ‘scettico’ – dirà poi Margherita Hack – si può applicare alla individuazione delle “costellazioni”). Nella modernità, confuta la tesi astrologica e magica della influenza del cielo sulle vicende storiche; e raccoglie elementi di fascinosità poetica; ma li colloca nella categoria della “Utopia”. “La sua (di Bloom) conclusione logica, soppesata la questione e salvo eventuali errori? – Che non era un albero celeste, né un celeste speco, né un animale celeste, né un uomo celeste. Che era un’Utopia, non essendoci alcun metodo noto dal noto all’ignoto: un infinito, che poteva esser reso ugualmente finito dalla probabile suppositiva apposizione di uno o più corpi ugualmente della stessa e di differenti grandezze: una mobilità di f o r m e i l l u s o r i e immobilizzate nello spazio, rimobilizzate nell’aria: un passato che probabilmente aveva cessato di esistere come presente prima che i suoi spettatori futuri fossero entrati nella loro attuale presente esistenza” (p. 912).
Così, il senso del celeste (come nei ‘moderni’) rimane ‘risorsa’, per Joyce, dal momento che giova a inquadrare e proteggere in tutte le direzioni il rapporto tra la ‘figura paterna’ (Leopold) e il ‘figlio’ (Telemaco). Ma la medesima percezione non accredita la tesi degli influssi astrali, non più perché non vale e non può valere come “articolo di fede” (che era la confutazione già adotta da Pico della Mirandola e Tommaso Campanella); sì – bene – perché non regge alla prova della verificabilità e della falsificabilità, dal punto di vista epistemologico-scientifico. Del resto, le costellazioni sono illusorie, come le mappe della superficie lunare sono geo-morfe o antropo-morfe, – dice oggi Margherita Hack a colloquio con Viviano Domenici (Notte di stelle, Pickwick 2010).
Ed è esattamente in questo contesto che si colloca l’inserto sul rapporto tra passato e futuro, come una delle trecento interrogazioni verticali della penultima ‘stazione’ di Ulisse (pp. 905-906).
Secondo Vincenzo Pepe, peraltro, anche nel cosiddetto episodio “Le mandrie del sole” (Ulisse, op. cit., p. 537), è parlante nel “tuono” (“thunder”) la eco vichiana dell’età dei bestioni e dell’ “avvertimento del cielo”. “Ma grado a grado, come sopra detto, questa sera dopo il cader del sole, tirando il vento da ponente, nuvole rigonfie grandiccie furon viste in cielo sul far della notte e gli strologhi a studiarle e qualche lampo riflesso prima e quindi, dopo le ore dieci, un gran colpo con tuono prolungato e in un batter di baleno via tutti a scapicollo al coperto per l’acquazzone furibondo, gli uomini facendo riparo ai cappelli di paglia con stracci o fazzoletti, le femmine saltellando con le gonne tirate su appena venne il rovescio”.
Ma ora, per tornare all’alternativa dell’addio: “Che cosa rendeva problematica per Bloom la realizzazione di queste proposte escludentisi a vicenda? – L’irreparabilità del passato: una volta a una rappresentazione del circo Albert Hengler alla Rotunda, Rutland Square, Dublino, un pagliaccio intuitivo e multicolore in cerca di paternità era penetrato dalla pista fino al posto dove Bloom, solitario, stava seduto tra il pubblico e aveva dichiarato pubblicamente agli spettatori esilarati che egli (Bloom) era il suo (di lui) papà. – L’imprevedibilità del futuro: una volta nell’estate del 1898 egli (Bloom) aveva contrassegnato un fiorino (2 s.) con tre tacche nel contorno zigrinato e l’aveva offerto in pagamento di un conto dovuto a e ricevuto da J. E T. Davy, drogheria con servizio a domicilio 1 Charlemont Mall, Canal Grande, perché circolasse sulle acque della pubblica finanza, nell’eventualità di un possibile ritorno, indiretto o diretto. – Era il pagliaccio figlio di Bloom ? – No. – Era tornata la moneta di Bloom ? – Mai”.
Si tratta di un passo del più alto interesse, dal momento che riflette sul problema del rapporto tra “the irreparability of the past”, cioè la “historia rerum gestarum”, e “the imprevedibility of the future” (nel linguaggio dello storicismo, come “historia rerum gerendarum”). Che sono i termini concettuali stessi, cui approderà il Croce nel classico La storia come pensiero e come azione (1938), con una consapevolezza più matura e raffinata, ma i cui incunaboli erano già presenti nella fase sistematica, Capitolo III, “L’arte e la filosofia”, della Estetica del 1902, nota a Joyce nella sua terza edizione del 1908, a Teoria e storia della storiografia, edita in tedesco nel 1915, in italiano nel 1917. Vero è che nella prima Estetica il Croce era ancora vicino alla propria tesi giovanile della “Storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte” (Memoria alla Accademia Pontaniana del 1893). Ma vi si affacciavano già, dal di dentro, i concetti della ricerca dell’ “individuum omnimode determinatum”, come oggetto della “intuizione” (p. 35 della edizione Adelphi, Milano 1990), e del fatto che non si può cambiare, appartenendo esso al passato: “factum infectum fieri nequit” (cioè: ‘il fatto non accaduto non può accadere’, alla pagina 67 del capitolo “L’attività teoretica e la pratica”, ed. cit., pp. 61-69). Inoltre, nelle note “Marginalia” apposte a Teoria e storia della storiografia, del 1915-1917 (dunque precedenti l’ Ulysses, che è del 1922), la distinzione era chiaramente introdotta, al paragrafo “Unità e diversità di storia e storiografia”, ossia “delle ‘res gestae’ con l’historia rerum gestarum” (pp. 354-355 della edizione Adelphi, Milano 1989).
Antonio Gramsci, in una delle lettere dal carcere del 12 dicembre 1927, aveva sostenuto – non a caso – che Teoria e storia della storiografia contiene, “oltre che una sintesi dell’intero sistema filosofico crociano, anche una vera e propria revisione dello stesso sistema, e può dar luogo a lunghe meditazioni”. Lo storico curatore della riedizione di quel testo, Giuseppe Galasso, osserva che: “Lo stesso spunto esplicitamente offerto da Gramsci è rimasto senza alcuno svolgimento; e ciò nonostante che a lui si siano ispirati, dalla pubblicazione dei Quaderni del carcere in poi, tanti studiosi del Croce o dei problemi del suo pensiero” (cfr. pp. 401-417 della “Nota del curatore” all’edizione adelphiana citata del 1989). In verità, ne avevano parlato già Raffaello Franchini (La teoria della storia di Benedetto Croce, Morano, Napoli 1966 ) e Gennaro Sasso (Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Morano 1975), ponendo in relazione la distinzione tra pensiero e azione, ‘res gestae’ e ‘res gerendae’, con il concetto di “accadimento” e il rapporto tra “accadimento” totale e “volizione” singola. Ma il punto è che l’esigenza riformatrice del sistema crociano, a proposito del rapporto tra pensiero e azione (secondo il celebre detto di Marx, infatti, “I filosofi fino ad ora hanno interpretato il mondo; ora si tratta di cambiarlo”, traccia evidente della necessariamente cursoria annotazione gramsciana), sarebbe poi stato effettivamente sanato nel capolavoro della maturità, della Storia come pensiero e come azione, dove lo stesso filosofo italiano – a differenza di Gentile – chiariva bene che il rapporto tra la conoscenza del passato (pensiero) e la preparazione dell’avvenire (azione) era di condizione “preparante e non determinante”, dal momento che esiste la libertà e, con essa, la ineliminabile assunzione della scelta, frutto di responsabilità individuale.
Ora Joyce, da par suo, inserendo la domanda sul rapporto tra “The irreparability of the past” e “The imprevedibility of the future” all’interno del lungo addio Bloom-Stephen, vigila, accogliendolo, sul cruciale problema ( “filosofo che si diverte nel travestirsi da mero letterato”, abbiamo detto). Da Dario De Tuoni ha avuto copia della Estetica, segnandola e meditandola a proposito del rapporto tra le forme spirituali, facendo specialmente propria la dottrina della “quaternità” delle stesse, dottrina innalzata anzi – junghianamente – ad “archetipo” della visione del mondo. Ma anche tutti gli altri amici triestini di Joyce e di Svevo, Silvio Benco, Boris Furlan e Oskar Schwarz (gli ultimi due suoi allievi nell’apprendimento della lingua inglese) erano “imbevuti di filosofia crociana”.
“Joyce also knew Croce’s Estetica, with its chapter on Vico: Croce’s restatement of Vico, ‘Man creates the human world, creates it by transforming himself into the facts of society; by thinking it he re-creates his own creations, traverses over again the paths he has already traversed, reconstructs the whole ideally, and thus knows il with full and true knowledge’, is echoed in Stephen’s remark in Ulysses 505 (623), ‘What went forth to the ends of the world to traverse not itself. God, the sun, Shakespeare, a commercial traveller, having itself traversed in reality itself, becomes that self…Self which it itself was ineluctably preconditioned to become. Ecco!”, – così annota il massimo biografo Richard Ellmann, James Joyce (Oxford University Press, 1959 e 1982, p. 340, a proposito degli anni 1913-1914).
In effetti, attualizzando La filosofia di Giambattista Vico (Cap. II, 1911, poi Napoli 1997, p. 32), in quel passo dell’ Ulisse (op. cit., p. 669), Stephen stava rispondendo sulla ‘circolarità’ della “ottava”, per poi affrontare il tema dell’uomo che crea la sua storia, e perciò la conosce. “E c’è dell’altro. (Si acciglia) La ragione è che la tonica e la dominante sono separate dal più grande intervallo possibile che… Il Berretto: Che? Finisci. Non ce la fai. Stephen (Con uno sforzo): Intervallo che.. E’ la più grande ellisse possibile. Che corrisponde al Ritorno definitivo. L’ottava. Che. Il Berretto: Che? (Fuori un grammofono comincia a strombazzare ‘La Città Santa’). Stephen (Bruscamente): Quello che è andato fino alle estremità del mondo per evitare di traversarsi. Dio, il sole, Shakespeare, un commesso viaggiatore, avendo se stesso in realtà attraversato se stesso, diviene quel se stesso. Aspetta un momento. Aspetta un secondo. Al diavolo il rumore per la strada di quel tale. Quel se stesso che se stesso diventa doveva per un ineluttabile precondizionamento. Ecco! (in italiano nel testo )”. Notevolmente, ancora nel carteggio con Frank Budgen, ricorda Richard Ellmann per gli anni 1932-1935, James Joyce sintetizza il proprio debito a Vico con la identificazione: “Imagination is memory”. Infatti: “On the other hand, he often agreed with Vico that ‘Imagination is nothing but the working over of what is remembered’, and said to Frank Budgen, ‘ Imagination is memory’“ (Richard Ellmann, op. cit., p. 661 n.).
Boris Furlan, “Joyce’s Trieste pupil”, prima di prender parte attiva nella politica jugoslava, aveva scritto saggi su Kant, Croce, Masaryk (op. cit., pp. 341-342). E Oskar Schwarz, “his young pupil, deeply imbued with Croce’s expressionism”, aveva definito per “musicalità” l’opera di Joyce (op. cit., pp. 381-382: felice essendo, l’autore, dell’acuto riconoscimento, che troverà calzante anche a proposito di Finnegans Wake).
Non meraviglia affatto, quindi, che Joyce, con la sua ‘intelligenza’ eccezionale, abbia saputo ‘intus legere’, appunto, nella struttura ‘in fieri’ della dottrina crociana della fase sistematica, e più precisamente nella “teoria e storia della storiografia”, allorché nel flusso infinito dello “stream of consciousness”, giunto ai vertici dell’ultimo incontro ‘padre’ – ‘figlio’, mette a confronto il senso del passato (come “irreparability of the past”) con la previsione del futuro (invece, “imprevedibility of the future”). E queste categorie adotta o assume dentro episodi significativi del ‘vissuto’ esperienziale: nel primo caso, con l’episodio del clown, certamente nato e venuto al mondo, che asserisce d’essere il figlio di Leopold Bloom (il che non è vero); e, nel secondo, avendo segnato una banconota con una zigrinatura, nell’attesa o auspicio che la stessa gli faccia ritorno.
Sì che abbiamo: nel primo caso, i fatti dell’esser venuto al mondo il clown, d’aver detto d’esser il figlio di Bloom, d’aver avuto lo stesso clown bisogno della ‘figura paterna’, ed aver infine mentito sulla identificazione della paternità. Tutti questi sono “fatti”, irrefutabili. Senonché – si badi al passaggio -, mentre due sono realmente “fatti” (l’esser nato il clown, ed aver bisogno di protezione paterna), gli altri sono anche “accadimenti” ma in quanto “narrazioni” o “racconti” o “interpretazioni” di “fatti” (l’esser figlio di Bloom, a suo dire, e quindi l’aver mentito).
Ma questo è esattamente il problema della “storiografia” e della “ideale contemporaneità della storia”, dalla “Guerra del Peloponneso” di Tucidide alla teoria di Croce. Già Nietzsche, in un celebre aforisma spesso enfatizzato e frainteso, aveva detto che non esistono “fatti” ma solo “interpretazioni”. E Croce ora aggiunge, su Storia e cronaca, che: “Questi ravvivamenti hanno motivi affatto interiori; e non c’è copia di documenti o di narrazioni che possa effettuarli, anzi sono essi medesimi che raccolgono in copia e recano innanzi a sé i documenti e le narrazioni, che, senza di essi, rimarrebbero sparpagliati ed inerti” (op. cit., 27). Vale sempre il magistrale esempio della battaglia di Borodino, in Guerra e pace di Leone Tolstoj: “Il Tolstoj s’era fisso in questo pensiero che, non solamente nessuno, nemmeno un Napoleone, possa predeterminare l’andamento di una battaglia, ma che nessuno possa conoscere come davvero essa si è svolta, perché, la sera stessa che pone termine alla battaglia, sorge e si diffonde una storia artificiosa e leggendaria, che solo uno spirito credulo può scambiare per istoria reale, e sulla quale nondimeno lavorano gli storici di mestiere, integrando o temperando fantasia con fantasia. Ma la battaglia è conosciuta via via che si svolge; e poi, col tumulto di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo importando la nuova situazione di fatto e la nuova disposizione d’animo che si è prodotta, e che si esprime nelle poetiche leggende o si attua con le artificiose finzioni. E ciascuno di noi conosce ed oblia a ogni istante i più dei suoi pensieri e atti (e guai se così non facesse, perché vivrebbe compitando faticosamente ogni suo minimo moto!): ma non dimentica, e serba più o meno a lungo, quei pensieri e quei sentimenti, che rappresentano crisi memorabili e problemi aperti per il suo avvenire: e talvolta, non senza alto stupore, noi assistiamo al risorgere in noi di sentimenti e pensieri, che credevamo irrevocabili. Onde è da dire che noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia che c’importa conoscere; e della restante, poiché non c’importa non possediamo le condizioni del conoscerla, o le possederemo quando c’importerà” (op. cit., pp. 60-61). Ora, questo chiarimento forma l’assunto dello stesso Ulysses di Joyce, della “nostra storia che c’importa conoscere”, e che, in questo interesse, è di volta in volta tutta la “nostra storia”, ivi comprese le “poetiche leggende” o le “artificiose finzioni” (come quella inventata dal clown, rispondente però, nella sua “artificiosità”, all’autentico “bisogno” etico della paternità, e dunque riconducibile alla “contemporaneità” ideale della storia, che sempre sorge da un ‘problema’ o ‘bisogno’, sottolinea il Croce). Ma questo passo forma l’assunto di un altro aspetto essenziale nella poetica del Joyce (fors’anche del ‘modernismo’ in generale, e delle ‘intermittenze del cuore’ in Proust): nella sintesi di accadimento totale e volizioni o azioni del singolo, ontogenesi e filogenesi, autobiografia e storia, finisce per dominare la conoscenza, e dimenticanza insieme, dei propri pensieri e atti e sentimenti, in particolare di quelli che “rappresentano crisi memorabili e problemi aperti”, fino al punto che “noi assistiamo al risorgere in noi di sentimenti e pensieri, che credevamo irrevocabili”. Sia detto con ogni cautela: non sembra di vedere qui prefigurato lo stesso joyciano “flusso di coscienza”, con il mobile ordito di memoria e latenza di pensieri sentimenti e atti? E che cosa è l’Ulisse se non la storia universale, compendiata e ri-esaltata nella giornata dell’ uomo comune di Dublino, in particolare delle sue “crisi memorabili” e dei “problemi aperti sull’avvenire”? E che cos’ è ancora L’“Here comes Everybody”, “Ecco qui passa ognuno”, di Finnegans Wake, se non la storia universa vissuta e rivissuta nella esperienza dell’oste, che sogna il destino dell’umanità, entro il complesso di archetipi e miti (la donna fiume, le quattro regioni dell’Irlanda, il Book of Kells, i quattro evangelisti e i quattro libri, e così via)? Notando infine come l’ “Ecco” in italiano nel testo di Ulysses paradigmaticamente è preso nello stemma “H.C.E.” dell’opera tizianesca di Joyce, non sarà azzardato prospettare che anche la lettura della fase “sistematica” del Croce, segnatamente dalla Estetica alla Teoria e storia della storiografia, abbia potuto offrire ben più che uno spunto, una traccia, una pista al laborioso acquisto delle “poetiche di Joyce”.
Perciò, la domanda successiva “Era il pagliaccio figlio di Bloom?” ha come risposta il netto “No”: come dire, che sia i “fatti” che le loro “narrazioni” rientrano nella “irreparabilità del passato”. Mentre la successiva domanda “Era tornata la moneta di Bloom?” riceve un secco “Mai”, a proposito del secondo aspetto della “imprevedibilità del futuro”, delle “res gerendae” (dove non esiste – si badi – un grado probabilistico, come nell’esperimento di testa e croce o nel teorema di Von Mises; ma l’impossibilità assoluta del “Mai”, che statisticamente – direbbe Popper – è uguale a 1). Si osservi, di passata, che quando il filosofo amico Raffaello Franchini introdusse la “Teoria della previsione”, proprio partendo dalla dottrina dell’accadimento e del rapporto tra pensiero e azione, preparante ma non determinante rispetto all’azione (1964 e 1972), lo stesso interprete fu criticato da Alfredo Parente per aver segnato con tratti praxistici, o pragmatici, la teoria della storia, anche se in quella originale revisione non risultava affatto abolita la distinzione tra i due momenti spirituali (v. la celebre polemica tra filosofi amici sulla “Rivista di studi crociani” dei primi anni Settanta del secolo scorso, con il mio recente percorso Tempo e Idee). In altri termini, l’umanità sa di aver attuato stragi e guerre; ma ciò non le impedisce di ricadervi; allo stesso modo che l’individuo sa d’ aver commesso degli errori o delle imprudenze, ammalandosi o trascurandosi in passato; ma tutto ciò non gli impedisce affatto di ricadere in errori simili o identici per l’avvenire.
Resta però un punto ancora da chiarire. Che cosa accade nella “preparazione non determinante” del futuro, meglio dell’ Avvenire? Se Franchini o Braudel parlano di “Teoria della previsione” o di “avvenire non a strada unica” in sede di ermeneutica filosofica o metodologia storiografica, Joyce risponde a questa domanda in Finnegans Wake, “Ordovico” or “Viricordo”. “Anna was – Livia is – Plurabell’s to be”. “Fu – E’ – Sarà”. “Anna fu – Livia è – Plurabella sarà” (alla chiusura del Libro primo di Finnegans Wake, 1939, ed. Penguin, pp. 215-215 bis).
Là dove, giocando coi i termini “Vico” e “ricordo”, lo scrittore irlandese genialmente introduce una tripartizione, analoga a quella teoretica di Pantaleo Carabellese nella Critica del concreto del 1921 (tra conoscenza del passato, o pensiero – conoscenza del presente, o intuizione – conoscenza dell’avvenire, o volizione/azione).’ Anna was’ è la conoscenza del passato, dal momento che Anna è anche “amnis”, il ‘fiume’ in latino. ‘Livia is’ è la intuizione della bellezza, il presente, proprio perché Livia è immagine e metafora di “Liffey”, il fiume di Dublino. ‘Plurabelle is to be’, è il futuro, lo ‘stare per essere’, il segno di “plurabilità” su cui Joyce gioca all’infinito. Il futuro non è una “strada unica”: ma si apre come ‘a ventaglio’, è la ‘creazione di ogni istante’, è l’andare ‘verso..’ (dirà poi lo psicologo e fenomenologo Eugene Minkowskj): è la “prospettiva”. “Plurabilità” corrisponde all’orizzonte “iridato” dell’azione e della scelta (come una volta dice Croce nella Filosofia della pratica, a proposito del ‘colpo d’occhio’, terza forma di conoscenza, e della volizione-azione). Quindi, per noi, è ‘dialettica delle passioni’, ‘aut-aut’, dramma interiore che sfocia poi nella volizione-azione. Mirabilmente, a suo modo e nella propria “ingens sylva”, lo ha pur detto James Joyce: lo stesso che Croce e Gentile, con Einstein e altri pensatori, difesero dalla condanna dettata in America da un giudice iniquo per la pretesa “immoralità” dell’Ulysses; e Croce e Nicolini accolsero come il “nostro” Joyce nella laboriosa “Bibliografia vichiana” in due volumi del 1947-48 (cfr. il mio Joyce dopo Joyce e Tra Vico e Joyce, da cui anche siam partiti).
Colpo d’occhio di storia della critica.
Nel dibattito a proposito delle poetiche del modernismo, e delle molteplici fonti nel pensiero estetico italiano, ricorda una fonte non sospetta, il critico Giacomo Debenedetti, come: “Nella ‘Vita’, Vittorio Alfieri racconta esattamente, con la sua scabra e attillata eleganza, come il sapore di certi confetti gli risusciti la figura dello zio che, a lui bambino, regalava di quei confetti. (…) Benedetto Croce era stato colpito da questo tratto proustiano avanti lettera dell’Alfieri e lo ricordava volentieri nelle sue conversazioni, specie con i lettori dell’Alfieri che fossero anche lettori di Proust” (Il romanzo del Novecento, Garzanti, Milano 1971, anno accademico 1963-1964, pp. 432-433).
Andrea Battistini lascia un contributo critico-bibliografico fondamentale nella edizione delle Opere di Giambattista Vico, in due volumi, per i “Meridiani” Mondadori del 1990.
Si moltiplicano gli studi in campo internazionale, di cui cito alcune tappe. Il docente alla Università di Alberta, in Canada, affida il saggio Naming things. Aethetics, Philosophy and History in Benedetto Croce (La Città del sole, Napoli 2000), con larghi riferimenti alle poetiche del Novecento, oltre al contributo nel volume collettaneo Croce dopo Croce (Fondazione Luigi Einaudi e Fondazione Cortese, 2003). Sandra Rudnick Luft, Professor of Humanities alla San Francisco State University, ci consegna un importante volume Vico’s Uncanny Humanism. Reading the ‘New Science’ between Modern and Postmoderm, (Cornell University Press, Ithaca and London 2003 con riferimenti a Croce e Joyce, Ellmann, Berlin e la concezione della storia). Donald Phillip Verene si segnala per il suo La Filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé (trad. it. di Vincenzo Pepe, Vivarium. Napoli 2003).
Certo, su Joyce “interprete” di Vico, la letteratura critica è oramai pressocché sterminata, da Attila Faj ad Andrea Battistini e dai Convegni americani a quelli di Trieste e Roma (per tacer d’altro). Pure, si ha netta l’impressione che non tutto sia stato ancor detto, soprattutto a proposito delle “modalità” e degli “innesti” plurimi di siffatta ”interpretazione”, conquistata o almeno corroborata “ attraverso – come s’è visto per i problemi dell’arte e della storia – “la lente di Croce”. – ”Questo voler sempre salire ‘sulle spalle dei giganti’, esclamò una volta Giuseppe Talamo impazientemente”! (Quaderni della “Voce”, Roma 1966). Giustifichi, il cortese lettore, la ‘ripresa’ della celebre pagina della “Biblioteca” joyciana. E’ prevalsa, infatti, o è sembrata prevalere talvolta, la “ideologia”, la ideologica rivisitazione della genesi del “verum ipsum factum”, o in San Tommaso (Romano Amerio), o inclinando alla “filosofia della storia” piuttosto che allo “storicismo” (Karl Löwith, Aldo Ferrabino, Pietro Piovani, Rodolfo Mondolfo). Ma Croce, l’ “uomo che piantava gli alberi” (parafrasando il titolo di un celebre racconto di Jean Giono), ha visto crescere, intorno alla propria filosofia (assestantesi tra il 1900-1902, il 1905, il 1908 e il 1915-1917, e che nella interpretazione di Vico ha un ‘momento’ essenziale), tutta una “selva”, via via sempre più “ingens”, di postillatori, correttori, restauratori, epitomatori assetati (più che dell’ acqua pura alle fonti dell’ermeneutica: quella stessa acqua zampillante che il piantar alberi – come dice Giono – ha favorito) del “mito del superamento”, alimentato quando gli stessi esegeti o prosecutori non avrebbero potuto più persistere nel “silenzio” o nell’opera di voluta “rimozione” (così, onestamente, ne critica i tentativi Michele Maggi, alla Fondazione Spadolini, Firenze 2012). Di fronte a tanta mole di glossatori, ci sono però i ‘geni’: Joyce con gli amici Silvio Benco, Alessandro Francini Bruni e Nino Frank; Samuel Beckett, autore della dissertazione giovanile Dante…Bruno. Vico.. Joyce e radicale confutatore dell’allegorismo in arte; o Carlo Emilio Gadda, gran recensore della “Bibliografia vichiana” e del “Commento” alla Scienza Nuova del Nicolini; Eugenio Montale, ristoratore – pur nelle ‘distanze’ – della estetica “non mimetica” e della “religione della libertà”; Rosario Assunto (maestro di “umiltà orgogliosa” e non di “altezzosità servile”); Isaiah Berlin, liberale e critico della ideologia in senso forte (Vico e Herder); Donald Philip Verene, studioso della Filosofia e il ritorno alla conoscenza di sé; Bruno Liebrucks, autore dei sette volumi di Parola e Linguaggio (Sprache und Bewusstsein); e Giovanni Macchia, francesista e comparatista di rango; con Giorgio Bassani, che innalzò il Romanzo di Ferrara a cifra dell’universale amore-dolore e del dramma umano, e Carlo Ludovico Ragghianti, di lui amico e maestro, che al Vico dedicò Arte e conoscenza nella paleostoria (sorridendo vicino il genio sollecitatore del filosofo dell’architettura e dello spazio-tempo, Bruno Zevi). Che sono tutti spiriti “naturaliter viciani”, epperò intesi alla esponenzialità del Tempo. In “Montenerodomo”, appendice del 1919 alla Storia del Regno di Napoli, scrisse Croce: “forse l’uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che ‘filius loci’, è ‘filius temporis'”. E Bruno Zevi estende la forza ermeneutica del concetto: “La lotta tra tempo e spazio è lotta tra libertà e costrizione, tra inventività e accademia, in termini linguistici tra ‘parole’ e ‘langue’, in termini psicoanalitici tra io e super-io, in termini sociali tra struttura e sovrastruttura” (p. 31 di “Pensiero einsteiniano e architettura” nei Pretesti di critica architettonica, Torino 1983).
* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt“; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, in corso di pubblicazione).
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2 novembre 2014 alle 21:31
Mi sembra un esercizio più che ottimo. Qui si vola, con pindaro e ulisse, sull’ottovolante della conoscenza. Non è per tutti e non vuole esserlo. Qualche lettore precipiterà dalla cabina della giostra ma pazienza… saranno i meno avvezzi al prodigio dell’alta quota e della curva mortifera :)
Apprezzo più che mai le notizie riguardo a Vico. Volevo approfondirne lo studio sugli originali nella biblioteca dei Girolamini ma un tal Marcello li ha traslocati nella sua libreria con l’aiuto di uno stalliere che lui stesso aveva messo a guardia dei pregiati tomi. Quando si dice “sete di sapere”! Spero che prima o poi si impadronisca anche della mia vecchia edizione dell’Ulisse e, in specie, del monologo di Molly il quale da solo conferisce a due minime sfere le dimensioni di una mongolfiera.