Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Arthur Koestler, epistemologo della creatività

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> di Giuseppe Brescia*

Di Arthur Koestler (Budapest 1905 – morto suicida a Londra con la moglie Cynthia nel 1983), ‘assetato di assoluto’ e studioso del ‘senso oceanico’ specie nell’ultima fase della propria riflessione (dopo averne scoperto la esigenza in “Buio al Mezzogiorno”, come risposta al male), la cultura italiana si occupava a causa della morte, in occasione della pubblicazione del suo ‘capolavoro’, del contributo al “Dio che è fallito” (Testimonianze sul comunismo) e dei vari tomi della ‘Autobiografia’, via via poi declinando verso il ‘silenzio’, specie nel trentennale della scomparsa, o persino tentando una lettura a posteriori, “politically correct”, di “Darkness at Noon” (dal 1940, data dell’originale, al 1946, 1950 e 1992, per le prefazioni agli “Oscar Mondadori”).


Dice, tra l’altro, Ugo Berti Arnoaldi, in quest’ultima nota, che addirittura il libro testimoniale di Koestler sarebbe stato letto da alcuni marxisti “per rafforzarsi nella fede comunista, o addirittura per convertirsi” (p. 11). E riprendendo in parte il giudizio di Hannah Arendt, che aveva per Koestler una forma di idiosincrasia, che “ogni volta che si cerchi di instaurare il nuovo va messa in conto una certa quota di sacrificio e violenza. (…) Proprio perché il loro fine (i.e.: dei “mezzi” adottati per la “Utopia”) non era il benessere degli uomini o l’interesse del singolo, ma la creazione dell’umanità, Rubasciov e i suoi compagni hanno eliminato (sono ancora parole della Arendt) gli individui per la specie, sacrificato la parte per il tutto” (ibidem). Vedete, invece, che cosa scrisse l’altro pensatore politico, franco-ungherese, François Fejto, in occasione della morte, a proposito del libro del 1940: “Dai giornali parigini dell’epoca (1946) risulta che uno dei motivi più importanti della disfatta comunista in Francia fu proprio l’accusa contenuta nel libro ‘Buio a mezzogiorno’ (“Un testimone del buio staliniano. La tragica scomparsa a Londra dello scrittore Arthur Koestler”, nel “Corriere della Sera” di venerdì 4 marzo 1983; insieme con la corrispondenza da Londra di Renzo Cianfanelli, e l’elzeviro di Franco Fortini, “Koestler: la violenza spiegata al pubblico”, in “Corriere della Sera”, sabato 5 marzo 1983).
Anche il per certi versi “intellettuale organico”, Italo Calvino, dettò un breve ma partecipe ricordo dello scrittore su “Repubblica” del 4 marzo 1983: sì che non escluderei affatto che la esaltazione che Calvino fa, in vari luoghi critici, del Pierre Bezuchov di “Guerra e pace”, nel suo appropriarsi della risorsa del celeste durante la prigionia tra le armate napoleoniche, possa esser stata confermata dalla scoperta del “senso oceanico” e dell’“infinito”, pre-avvertita in Koestler. Certamente, il titolo della raccolta di Koestler, “Drinkers of Infinity” (London, Hutchinson, 1968), come dei “Bevitori assetati di Infinito”, bene inquadra tutta l’importanza della ultima fase della produzione saggistica koestleriana. E ci rammenta, a proposito della sua “fortuna”, il fatto che non risultano tradotti in italiano “Insight and Outlook”; “Promise and Fulfilment”; “The Lotus and the Robot”; “The Heel of Achilles”; “Bricks to Babel”; “Kaleidoscope”, con il centrale “Drinkers of Infinity” – appunto – (originali, rispettivamente, di London 1949, 1955, 1961, 1968, 1974, 1980 e 1981). Evidentemente, la persistente “cultura ideologizzata di massa” (come la chiamava Rosario Assunto, tra i primi a parlarmi di Arthur Koestler) e i “pontefici minimi”, frequentatori assidui dei “talk show” di casa nostra, hanno altro cui pensare. È stato, così, intercettato l’interesse per il contrafforte teoretico-epistemologico del pensiero di Koestler: che è, in primo luogo, il senso oceanico e il richiamo dell’assoluto; secondariamente, la “fonte delle fonti”, il “senso dei sensi”, cioè la indagine sulla creatività, l’“atto della creazione” (1964 e 1969): eccezion fatta per le benemerite traduzioni in nostra lingua della Ubaldini Astrolabio di Roma del 1975, per quest’ultimo libro; de “Le radici del caso” e “La sfida del caso” (1972 e 1974); o, ancora, de “I sonnambuli”, traduzione italiana di “The Sleepwalkers”, per i tipi della Jaca Book di Milano 1982, che è lavoro organico intieramente dedicato a problemi e autori della storia dell’astronomia (il cui originale è del 1959!). La risposta al “male assoluto”, come lo definì il polacco Gustaw Herling per il carattere più profondo della sua “raffinatezza” (a differenza dalla stessa idea kantiana del “male radicale”), e al “genocidio delle anime”, risiede nello studio della astronomia, dei suoi “eroi” e dei suoi “sonnambuli”: ma con il filo rosso conduttore della ‘Ricerca dell’assoluto’. E come Koestler confidò una volta a François Fejto, “L’idea che l’infinito rimanesse un enigma senza risposta mi era intollerabile”.
Era stato Leo Valiani, il “Mario” del campo di Vernet in “Schiuma della terra”, a lanciare la pista verso la “filosofia” (Dante, Vico, Croce). Dunque: “Tutta la vita e tutta la creazione di Koestler possono riassumersi in questa ricerca dell’assoluto alla quale egli votò i suoi ultimi vent’anni. Si rivelò un mistico, rimanendo nemico accanito di tutte le mistificazioni” (Fejto).
Attratto dagli studi di Freud sul motto di spirito e le relazioni con l’inconscio, dalle teorie dell’archetipo di Carl Gustav Jung, dalla psicologia scientifica e dalla riflessologia, dalla “Weltliteratur” e poesia universale, dalle scoperte einsteiniane e della meccanica quantistica (senza dimenticare l’approccio tardo-positivistico allo studio della coscienza, proprio della cultura anglosassone dell’epoca, debitrice in parte verso il darwinismo), Koestler affronta, allora, il tema della “creazione”, “in che cosa consista precisamente l’’atto’ della creazione”, a partire dalle dinamiche del riso (‘La Logica del riso’, ‘Riso ed emozione’, ‘Varietà di Humour’, ‘Dallo Humour alla scoperta’) e magari anche del pianto (‘Scienza e emozione’; ‘La logica delle lacrime’; ‘Riso e pianto’, nella Parte Terza del libro, ‘L’artista’). Si potrebbe parlare di un indizio filosofico del lume dialettico, la “dialettica delle passioni”, pure se non consaputa da Koestler, ma come evidenza del processo di ‘scaricamento’ dei riflessi nervosi nel cosiddetto “momento culminante” dell’arte o dello “eureka” della scoperta. È l’idea stessa (come sappiamo), questa, ai vertici della revisione dell’estetica crociana e post-crociana; ma, insieme, l’idea che contraddistingue il “passaggio” tra le forme di attività spirituali, “le doglie di tutti i parti dello spirito teoretico e pratico” (Raffaello Franchini). Certo, essa non è detta – con questa piena chiarezza – in Koestler. Semmai, è detta per l’ approssimazione alla dottrina aristotelica della “catarsi” tragica, messa a confronto con la parallela teoria della “esplosione”, nel comico (v. la figura 1 de “L’atto della creazione”, p. 23).
Goethe diceva che non è importante chiedersi se la si pensi in tutto e per tutto “allo stesso modo”; ma soltanto se “si proceda nello stesso senso” o “nella stessa direzione”. Ebbene, è impossibile seguire Koestler, quando, in lotta con il male, avvalorando la “focalità” della concentrazione interiore, il battito della creazione, la teoria del “momento culminante” in estetica ed epistemologia, puntualmente rintraccia e segue tutte le fonti, gli interni rimandi, i critici e i poeti, dai modernisti (Joyce, Yeats, Proust) ai classici, e astronomi e scienziati, dai medici agli psicologi e terapeuti, quasi all’infinito. La pagina dell’ultimo Koestler è ‘vertiginosa’, forse ancor più delle cordiali recensioni di Carlo Emilio Gadda alle raccolte poetiche di Eugenio Montale, delle citazioni di Italo Calvino critico di Giorgio De Santillana e nei “Six Memos for the next Millennium”, fino alla sintesi matematico-teologico-poetica della “Colonna e il fondamento della verità” di Pavel Florenskj. Gli è, pure, che la ricerca dell’assoluto nell’‘atto della creazione’ di Koestler procede esattamente nello stesso senso di “Tempo e Libertà. Teorie e storia della costruttività umana”, mio approccio ermeneutico del 1984, là dove, a partire dallo storicismo di Carlo Antoni e Benedetto Croce (“L’avanguardia della libertà”) e dalla psicologia umanistica di Erich Fromm, nella parte terza mi addentravo nella “Teoria del tragico” e nella “Teoria del comico”, per approdare alla ricomposizione di “Tempo Costruttività Amore” ed al ripensamento della categoria della “simultaneità” in Kant e prosecutori (Lorentz, Einstein, Carabellese, Scaravelli, Fano).
Non per puntigliosità ma come contributo ermeneutico, ravviso che rinvenivo una “catarsi comica” degna di stare al fianco della “catarsi tragica”, corroborando gli esiti delle ricerche giovanili sul “Testo e la fortuna della ‘Poetica’. Note di critica aristotelica” (SPES, Milazzo 1984, sotto gli auspici di Augusto Rostagni, Manara Valgimigli, Nicola Festa e Aristide Colonna), in particolare riprendendo gli schemi del “Tractatus Coslinianus”, sulle biforcazioni del genere comico e tragico nell’antichità, certo avvalorandole in una logica profondamente diversa. Trascorrendo da Eschilo a Sofocle a Shakespeare a Mozart e altri esempi del melodramma italiano dell’Ottocento, rintracciavo la presenza del “momento culminante” (che vive anche, diversamente modulato, in Caravaggio o Cezanne, nella danza e nel cinema), proprio con l’aristotelico “riconoscimento di fronte a cose inanimate” (l’arco di Filottete, il fazzoletto di Jago); ma questa medesima possibilità rinvenivo nella tecnica del comico (il ferro da stiro che scotta Fabrizio per la malizia di Mirandolina nella “Locandiera” di Carlo Goldoni, sempre in via d’esempio). Koestler vede, invece, autentica “catarsi” solo nella teoria del tragico, e improvvisa “esplosione” come “scaricamento” nervoso nella procedura del comico. Pagando lo scotto verso il positivismo, parla di meccanismo di “bisociazione” e schematizza “questi due modi di scarica della tensione: l’e s p l o s i o n e delle emozioni aggressivo-difensive (nel comico) e la  c a t a r s i, o ‘messa a terra’, graduale, delle emozioni di partecipazione (nel tragico: v. testo con figura 6, alle pp. 78-79).
Ma non potrebbe anche darsi il paradigma del momento culminante nel comico e della diffusività delle emozioni nel tragico, sol che si risalga al più volte citato saggio sul “Riso” del Bergson, alla “Esperienza vissuta e Poesia” di Wilhelm Dilthey, e alle altre fonti della ricerca di tipo neo-kantiano sulle “pieghe dell’anima umana”, di carattere trascendentale? La sorpresa è nel ritmo; l’aspettazione sfocia nella delusione, da una parte. Pietà e terrore si scaricano nella purificazione delle stesse passioni, dall’altra (Il pubblico ‘sa’ l’errore non voluto di Edipo; ma ‘non sa’ qual sia per essere il di lui destino. Lo spettatore ‘sa’ ciò che Romeo ‘non sa’, quando vede Giulietta giacente nella tomba. E così via).
Certo, si tratta di un filone teoretico – estetico di interpretazione; diverso e distante rispetto all’altra visione, ‘illuministica’, propria del gioco a scatole cinesi,il giallo poliziesco – filologico circa la perdita del secondo libro della “Poetica” trascorrente nel “Nome della rosa” di Eco, e sue fortunate derivazioni. Val bene riproporlo, ora, unitamente agli spunti ermeneutici sulla “creatività”, il “ripiegamento”, la “meraviglia” della curiosità e della scoperta, in cui sempre sentiamo “spirar l’Ambrosia”, “indizio” della Musa (“Dei sepolcri”). “Comicità è dunque, con il motto di spirito che ne è la forma ellittica e sintetica, non già liberazione di energie represse o inibite, scarico di ‘ingorgo psichico’, sfogo o ‘divertissement’ antiautoritario e vitalistico, bensì conquista di una prospettiva, scioglimento del ridere attraverso il compatimento, lezione di umanità, redenzione nel ritmo e nel processo dialettico delle vanità e passioni e interessi individuali, metafora insomma – al pari del tragico – dell’umano destino” (“Tempo e Libertà”, pp. 305-306). Platone nel “Convito”, dedicato a Eros figlio di Poros e di Penìa nel mito di Diotima, tocca della “catarsi comica”, quando: “soltanto Agatone, Aristofane e Socrate rimanevano ancora desti e bevevano, l’un dopo l’altro verso destra, da una gran tazza, e Socrate discorreva con loro. Di che precisamente ragionassero, Aristofane non ricordava – perché non aveva sentito il principio, ed era tutto assonnato – ma in sostanza, al dire di Aristodemo, Socrate li sforzava a convenire, che s’appartiene allo stesso uomo il saper comporre tragedie e commedie, e chi per virtù d’arte è poeta tragico, dev’essere anche poeta comico” (“Tutte le opere”, versione del Martini, Sansoni, Firenze, p. 457). Adducevo gli esempi dell’“Amphytruo” plautino, della “Commedia” di Dante, della mirabile dipintura padovana della giottesca Cappella degli Scrovegni che affascinò Proust, di Skakespeare e del “comic relief”, del “Commedione” del Belli, di Chaplin, Eduardo e Buster Keaton (“Tempo e Libertà”, cit., pp. 306-314 e 317-320).
Carlo Antoni, nelle sue “Riflessioni e congetture”, avrebbe colto un punto di ragione nella tesi di Koestler: “Il pianto è una non-azione, una passività, dove lo spirito arriva al margine del nulla. A sua volta il riso, all’altro estremo, si disfrena di scatto, per un’improvvisa caduta della volontà. (..) L’emozione, per se stessa, è un fatto della coscienza, ma il riso è fuori della sfera della coscienza, perché si sottrae al controllo della volontà: noi ‘scoppiamo’ a ridere, non riusciamo a ‘frenare’ il riso, ci ‘abbandoniamo’ ad esso, così come non riusciamo a ‘trattenere’ il pianto. Ma le teorie del riso, più che alla spiegazione del meccanismo, mirano a scoprire lo ‘stimolo’ esterno, il comico oggettivo, ciò che ha la ‘virtù’ di far ridere. Ora, come non vi è il bello di natura, così non vi è il comico in sé, nelle cose, nelle situazioni” (“Riflessioni e congetture. Del comico. Ancora del riso”, in “Criterio”, 1/2, febbraio 1957, pp. 151-155). Il problema si situa allora nella temporalità, nella dimensione husserliana della “Zeitigung”, innestando Aristotele e Kant, Bergson con Croce. “O anche, in termini più ampi e comprensivi, tragedia può essere definita per il piacere dispiacevole (piacere nel ritmo, dispiacere nel contenuto); e la commedia, invece, per dispiacere piacevole (dispiacere nel ritmo, piacere nel contenuto). Nella tragedia, il piacere è permanente (come ‘Gefallen’, o ‘diletto nel Giudizio’), e il dispiacere è successione di accadimenti terribili; mentre la mediazione dialettica di piacere e dispiacere, ritmo e mito, permanenza e successività, è data nella catarsi tragica, in quanto simultaneità di terrore e pietà. Nella commedia, invece, il dispiacere è l’attimo (come sorpresa, inganno, disillusione), ed il piacere è permanente (ma come ‘Vergnugen’, o ‘diletto che piace nella sensazione’, soddisfazione vitale e rassicurante dinanzi a casi in cui lo spettatore non è coinvolto, e che sono anzi rappresentati in guisa da agevolargli il senso di superiorità e distacco). Ma il rapporto di piacere e dispiacere, continuità e interruzione, soddisfazione e disillusione, si può adempiere nella catarsi comica, come momento culminante cui mena il susseguirsi crescente dei colpi di scena e del gioco aspettazioni-delusioni, ovvero come purificazione piena e suprema del riso in pietà” (“Tempo e Libertà”, cit., pp. 343-345). La “bisociazione” dei piani del comico in Koestler va, perciò, “temporalizzata”, assunta come dispiegantesi nel ritmo, in cui varia la “relazione d’intensità, la graduazione del rapporto temporale fra piacere e dispiacere (e, con essa, la intermittenza del piacere comico e tragico); ma non già la totale invadenza o assenza dell’uno rispetto all’altro. Ché, altrimenti il comico cade nella caricatura; ed il tragico, nel puro orrore” (ibidem: o, in Koestler, i tre pannelli del trittico riprodotti all’inizio della Parte prima, “Il buffone”).
La intelligenza di Koestler vede anche sprigionarsi l’assoluto nell’attrito tra il “banale” e il “tragico”. “La forza delle abitudini e delle convenzioni finisce col relegarci al Piano Banale; noi neanche ce ne accorgiamo perché le catene sono invisibili, i legami agiscono sotto il livello della coscienza. Ciò che Bergson definisce ‘il meccanismo incrostato sul vivente’ deriva dal fatto di essere stati per lungo tempo relegati sul Piano Banale. Ma, grazie a Dio, l’uomo non è sempre un essere così piatto – lo è quasi sempre. Come l’universo in cui vive, anch’egli è in uno stato di continua creazione. Il bisogno d’esplorare è in lui altrettanto fondamentale del principio d’economia che tende all’automatizzazione delle tecniche; il suo bisogno di trascendere il proprio io è altrettanto fondamentale della necessità di far valere il proprio io” (cfr. “Il ventre della balena”, titolo mitico – orwelliano dell’apposito Capitolo in “L’atto della creazione”, pp. 352-355). Dove anche Koestler vede analogie con i fenomeni di ‘rigenerazione organica’ e quelli di ‘adattamento originale’ di cui sono capaci gli animali in alcune situazioni critiche (qualche contatto anche con Popper non è escluso (pp. 166 e 236).
Perciò stesso: “Quando il Tragico e il Banale si incontrano, l’Assoluto si umanizza, attirato nell’orbita dell’uomo, mentre gli oggetti banali della vita quotidiana si trasfigurano, vengono circondati, per così dire, da un’aureola di luce. Tale incontro può avere la maestà di un’incarnazione in cui il ‘logos’ diventa carne; o il fascino della trasfigurazione di Krishna disceso a giocare con le guardiane di vacche. Su una scala meno grande, il tragico e il banale si incontrano anche nelle persone dei giovani d’oro e degli spazzacamini; nella scarpa pietrificata stretta nella mano pietrificata del calzolaio di Pompei; nel sapone che Bloom cambia di tasca mentre segue un corteo funebre. Per Laplace il fine ultimo della scienza era quello di dimostrare, partendo da un granello di sabbia, il meccanismo di tutto l’universo” (ibidem). Prende molto dalle estetiche delle “epifanie”, Koestler: da Yeats e Joyce, Baudelaire e Verlaine, di prima o seconda o plurima lettura. “In uno dei suoi saggi – ‘The Cutting of an Agate’ – William Butler Yeats riferiva uno dei più sciocchi errori popolari del nostro tempo: ’Quegli eruditi che fanno paura ai bambini e ripugnano agli innamorati, tutti quelli che sono il bersaglio di un umorismo tradizionale che ha qualcosa della saggezza contadina, sono matematici, teologi, avvocati, scienziati di vario tipo’. L’errore consiste nell’identificazione degli ‘scienziati di vario tipo’ con il tipo più infimo: la figura del pedante privo di ispirazione nel museo delle cere dell’immaginazione popolare” (cfr. “Alcuni aspetti del genio: Il senso di Meraviglia”, pp. 413 sgg.). Trattasi dei “scientists”, quelli che Assunto chiamerà spesso gli “scientisti delle scienze umane”, lontani dalla genialità di Chargaff o di Schroedinger, Einstein e Planck; gli “scientisti”, più che gli “scienziati”, che usano i “forcipi dell’intelligenza che schiacciano la verità tentando di impossessarsene”, come diceva H. G. Wells, con un linguaggio affine alle categorie dell’empirio-criticismo viennese (gli “stenogrammi”) o degli “pseudoconcetti” (o: “concetti funzionali”) in Croce (v. Capitolo “Immagine ed emozione”, pp. 373 sgg.)
L’immagine del fiocco di neve, “la contemplazione della natura”, è ineliminabile persino in una “persona meno romantica di Keplero” (Cap. “Creazione visiva”, in op. cit., pp. 356-358).
Dove ritorna Joyce, per le “integrazioni e confronti”, tra “Intrecci e personaggi”: “I fisici moderni sanno molto di più di Democrito, ma anche l’Ulisse di Joyce sa molto di più di quello di Omero; e sotto certi aspetti, anche tale progresso della conoscenza è di ordine cumulativo” (p. 343). Dove, ovviamente, l’aspetto cumulativo va sempre inteso in senso trascendentale, come l’attimo che s’insedia e innalza nella compagine di “successione – simultaneità – permanenza”, e non come crescita quantitativa di tipo matematico e astratto.
Degli aspetti esponenziali del genio (la originalità, l’accento, e la economia), in risposta al Male nella storia, piace sottolineare l’importanza del “Ripiegamento”. Trattato da Koestler in pagine assai belle. Per noi, è un poco “Con l’opera tacendo” di Dante guidato da Virgilio; è la “contractio animi” di Giordano Bruno; fors’anche il momento della “Dissimulazione onesta” di Torquato Accetto, se non temessimo di aggiungere altri alberelli alla “ingens sylva” bibliografica fiorita dopo e sovra la primigenia riscoperta del Croce 1928, “uomo che piantava gli alberi” (‘E pochi accendono i fuochi; molti vi si riscaldano attorno’, dice Leopardi nel suo “Zibaldone dei miei pensieri”).
Ma Koestler, anch’egli grande ispiratore di fuochi o delle candele per l’umanità evocate in “Schiuma della terra”, va oltre, così sviluppando gli esempi di Tolstoj e Hemingway. “Ma esistono altri metodi di ripiegamento: l’obliquità, la concentrazione (concentrare le idee, comprimere), i ‘sette tipi di ambiguità’, secondo la stima modesta di Empson. L’ultimo Joyce, per esempio, ci fa capire perché la parola che i tedeschi usano per ‘scrivere poesie’ sia ‘dichten’, il cui primo significato è ‘condensare’ (termine certamente più poetico di ‘comporre’, cioè ‘mettere insieme’, ma forse meno poetico dell’ungherese ‘koelteni’, ‘covare’). Di fatto, Freud credeva che la poesia in sostanza consistesse nel condensare o comprimere parecchi significati o parecchie allusioni in una parola o in una frase. Nei libri di Joyce è senz’altro un elemento essenziale; nei grandi monologhi del ‘Finnegans Wake’ quasi ogni parola è sovraccarica di allusioni e di sottintesi. Per riprendere una metafora che abbiamo già usato, l’economia impone che i punti di riferimento del racconto siano abbastanza distanziati da richiedere al lettore un notevole sforzo; Joyce dà al lettore l’impressione di correre una maratona ingombra di ostacoli ad ogni passo e aggravata da un chilometro di geroglifici da decifrare. Se esistesse il lettore perfetto, forse Joyce sarebbe lo scrittore perfetto” (p. 329).
“Condensare”; per “comporre”; meglio “covare” (dal tedesco al latino all’ungherese), quindi. Ossia, nella ermeneutica filosofica, autentica lingua universale: ‘macinare’, ‘mettere insieme amalgamando e fondendo’, il ‘moliri quaedam’ di Virgilio nella sua “Eneide”, il “dialeghesthai” degli antichi greci, alle ‘origini della dialettica’ e nei personaggi di Omero e dei grandi tragici. Ed è, in definitiva, l’ atto della creazione, la “fucina del mondo” (come disse una volta Francesco De Sanctis a proposito del Dante giovanile): la “dialettica delle passioni” come memoria-sentimento-tempo (cfr. Pietro Addante, “La fucina del mondo. Storicismo Epistemologia Ermeneutica”, Schena, Fasano 1994, sintesi del mio percorso filologico e filosofico dagli inizi alle “Questioni dello storicismo”, “Tempo e Libertà”, e alle revisioni di Popper e Einstein, Pascal e Vico).
Grazie ad Arthur Koestler, “pur mo venian i miei pensier tra i tuoi”, eticamente scongiurando la “fine della civiltà” (di cui Croce 1946); epistemologicamente, accostando la “fucina del mondo” al “Mulino di Amleto”, sì caro a De Santillana, ed esso sì matematicamente sorretto dalla legge della precessione degli equinozi, ma altrettanto evidentemente nutrito degli universali fantastici di poesia e mito, scrutati col “senso del celeste” del nostro autore.

* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt“; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, in corso di pubblicazione).

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