> di Paolo Calabrò
Tutto si consuma. E la nostra società potrebbe venir ricordata come quella che, invece di assistere al logorio ineluttabile delle cose, incentivava a prendere parte da protagonisti all’evento, a diventare finalmente “consumatori”. Di questa “svolta” dal carattere ben poco filosofico, sono in tre a farne le spese: il mondo – che non riesce più a sopportare la riduzione a “fondo” da sfruttare e l’alterazione degli equilibri geotermici che hanno permesso (a lui come a noi) di sopravvivere per milioni di anni – e l’uomo, schiacciato dalle crisi economiche, avvilito dall’assenza di futuro, depauperato dai tagli alla spesa, mortificato e vessato dalla propaganda che lo vuole artefice (e colpevole) unico del proprio destino (a suon di: “Ognuno è quel che decide di essere”, “Questo è il più ricco dei mondi possibili” e “Non ci sono alternative al capitalismo”). La terza vittima, forse la più colpita di tutte, è il tempo:
misurato, quantificato, monetizzato fino all’estenuazione (così che anche il “tempo libero” non è più tale, trasformatosi ormai in tempo da “impegnare divertendosi” – a pagamento presso agenzie specializzate, ça va sans dire). Non è tutto qui. Perché cambiando il modo di rapportarsi al tempo, cambia di conseguenza – anche se in maniera subdola, quasi impercettibile – il nostro modo di rapportarci ad esso: sembra che non siamo più in grado di vivere il tempo come esso ci si offre, e che non facciamo altro che cercare di forzarlo spostandone continuamente l’asse. Ecco che i giovani – ignari che nel fluire delle cose ci sia anche qualcosa che permane – non fanno altro che stipare freneticamente ogni attimo della loro vita di attività sempre più numerose e disparate, nel tentativo frustrante (e frustrato) di “non perdersi nulla” (finendo per trasformare, di fatto, le loro esistenze in una gigantesca e inconcludente perdita di tempo); ed ecco che i vecchi – una volta “anziani” da ascoltare con attenzione e con rispetto, ma oggi nient’altro che zavorre restie ad adeguarsi ai ritmi e alle novità di questo mondo accelerato – sono invogliati (per non dire costretti) a fare gli “eterni giovanotti”, dediti a pratiche sessuali e sociali inadeguate e caricaturali. Pressati da queste tendenze, si rischia di morire ancora col fiatone. Senza neanche il tempo di domandarsi: cosa ne ho fatto della mia vita? Ho vissuto veramente?
Quando si ha a che fare con due “grandi” della sociologia come Miguel Benasayag e Riccardo Mazzeo – accomunati da una sensibilità, si vorrebbe dire, “letteraria”, per la capacità non solo di affrontare il tema da un punto di vista generale, ma di saper scendere negli anfratti dell’esperienza singolare – non si può che prendere atto della capacità tanto di mettere a fuoco domande complesse e inesplorate quanto di fornire risposte puntuali ma accessibili, adatte al palato di lettori diversi anche quando più raffinate e tecniche. A partire dal titolo intrigante ed eloquente: C’è una vita prima della morte? Come a ricordare, fin dalla copertina, che certe volte – tutti presi dalla corsa volta a “bruciare le tappe” – ci dimentichiamo che la nostra vita… era quelle tappe. Un libro dal taglio filosofico che, partendo da Spinoza e passando per Cartesio e Morin, Bauman e Žižek, Borges e Musil, restituisce il respiro della riflessione moderna in un dialogo a due (ma in realtà le voci sono poi tante, e gli echi ancor di più) dal fascino greco. Da non perdere.
M. Benasayag, R. Mazzeo, C’è una vita prima della morte?, ed. Erickson, 2015, pp. 134, euro 15.