Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

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La rivoluzione di Croce a cent’anni dal Contributo e nella crisi della filosofia europea

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> di Giuseppe Brescia*

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Di fronte all’appariscente prevalere delle “filosofie analitiche” (cibernetiche, computazionali, epistemiche) rispetto alle cosiddette “continentali” (ermeneutiche, fenomenologiche, idealistiche o storicistiche), e al tentativo di ridurre il filosofare a una forma di “utile prassi”, si ripropone il lascito “rivoluzionario” di Croce, a cent’anni dal Contributo alla critica di me stesso (1915) e ormai centocinquanta dalla nascita.

Me ne occupai nel 1972, 1977-78, 1982, 1992, 2002 e 2012, coniugando l’attualità etico-politica con la ermeneutica filosofica, anche per confutare i presunti limiti di provincialismo culturale, conservatorismo etico, svalutazione della scienza e della teoria economica, imputati al filosofo da intellettuali ‘organici’ e variamente ‘militanti’. Distinguerei ora, in sintesi, dieci aspetti contenuti in nuce nel Contributo e atti a caratterizzarne il lascito : L’etica del lavoro e la “nobiltà del fare”; La Cura dell’angoscia e la incidenza della vitalità “cruda e verde”; Il culto della “Loica” nei tarocchi detti del Mantegna; La “lotta contro i demoni”; La esemplarità della “Filosofia del giusto”; La critica dei governi dei tecnici, “medici consultori”; L’abbozzo ermeneutico della importanza delle “mediazioni” nella circolarità spirituale; L’abbozzo ermeneutico della teoria del tempo, fulcro delle mediazioni; La ricerca di mediazioni tra giustizia e libertà, all’interno dei “modi” della ‘Libertà indivisibile’; e i Vertici della “Religione della libertà”.

Etica del lavoro e nobiltà del fare (dove il “fare” è inteso nella più vasta accezione e attualità di “In principio era il Logos”). Nel Contributo alla critica di me stesso leggiamo ancora: “Una brusca interruzione e un profondo sconvolgimento sofferse la mia vita familiare per il terremoto di Casamicciola del 1883, nel quale perdetti i miei genitori e la mia unica sorella, e rimasi io stesso sepolto per parecchie ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo. Guarito alla meglio, mi recai insieme con mio fratello a Roma, in casa di Silvio Spaventa, che aveva accettato di diventare nostro tutore: atto del quale solo più tardi potei intendere il valore, perché lo Spaventa, sebbene tutto immerso nella politica, sebbene non fosse stato in relazioni cordiali con mio padre negli ultimi tempi, sentì il dovere di prendere come in protezione i due giovinetti superstiti di una famiglia, presso la quale egli stesso, giovinetto, era stato circondato di cure affettuose. (..) Quegli anni furono i miei più dolorosi e cupi: i soli nei quali assai volte  la sera, posando la testa sul guanciale, abbia fortemente bramato di non svegliarmi al mattino, e mi siano sorti persino pensieri di suicidio” (Da Etica e politica, Bari 1956, pp. 363-411; Filosofia Poesia Storia, Milano-Napoli 1951 e Adelphi, 1996, pp. 1495-1543 oltre che in edizione a parte, curata da Giuseppe Galasso).

Pagine, tra le altre, che definii “didimèe” nel 1971 (come ad exemplum della analisi di Ortis e Didimo disegnata da Mario Fubini, che infatti mi ricambiò la citazione); e che son state lette con attenzione da Mario Corsi (1951), Stuart Hughes (1956), Federico Chabod (1960), Fausto Nicolini (1962), Raffaele Colapietra (1969 ) e Luciano Pellicani (2010), passando per i molti luoghi di Alfredo Parente e Raffaello Franchini, Gennaro Sasso e Fulvio Janovitz, non senza le analisi stilistiche di Giacomo Devoto e Gianfranco Contini, Desiderio o Marchesini. Pagine che riecheggiano, rivissute, in Eugenio Montale, a più riprese rievocatore di Croce, e Giorgio Bassani, mèmore del fatto che nella vita “bisogna morire giovani”, insegnamento paterno nel Giardino dei Finzi Contini. Il lavoro, prima erudito poi filosofico, e dal triennio romano 1883-1886 in avanti, riscatta Croce dal dolore. Così, pagine sempre alte dedica il filosofo alla “nobiltà del fare”, da un capo all’altro dell’esistenza. Da Ottimismo e pessimismo (nelle Indagini su Hegel e altri schiarimenti filosofici, Bari 1951. pp. 58-59) apprendiamo conferma: “La gloria di Dio si attua attraverso la gloria dell’uomo, al quale, se vien tolta ogni speranza di natura edonistica, rimane la severa soddisfazione di avere, con la fatica dell’opera sua, ben servito la causa dell’umanità. – La fatica propria, cioè il lavoro, e il lavoro è sempre disinteressato, ed attinge il suo fine in sé stesso e non in altro da sé stesso, perché, quando ciò avviene, è chiamato, e si chiama da sé, lavoro servile. Lo scrupolo che l’accompagna ne è l’espressione pura ed ha carattere religioso: di una religione che non conosce beatitudine e rende l’uomo pensoso e accresce gli stimoli del suo fare. Si direbbe che con questo si giunga per nuova via alle soglie del mistero, e di là alle immaginazioni di un’altra vita. Ma non ce n’ è nulla, e con quella rinunzia alla beatitudine l’uomo paga, semplicemente, la sua nobiltà. – E questa nobiltà fa sì che noi ci distacchiamo dall’opera nostra e la poniamo sopra di noi. La nutriamo col nostro dolore, ci consumiamo in essa per farla bella; ma la sua bellezza appena intravvediamo nell’attimo creativo e tosto ne siamo separati, sospinti a nuovi compiti, a risolvere nuovi problemi”.

E non è che un esempio di Crocianesimo e senso del lavoro (nelle mie Questioni dello storicismo. II. Il tempo e le forme, Galatina 1981). Si veda: “La sofferenza vera è la continua inquietudine e tristezza contro di cui il lavoro è riposo ma non gioia” (nella lettera del 1943 all’avvocato Nanni di Santa Sofia di Romagna, commentata da Mario Missiroli in Gente di conoscenza, Milano-Napoli 1972, p. 29). Si considerino la collaborazione e amicizia con il tipografo-artista Valdemaro Vecchi, trapiantato a Trani, con Tommaso Fiore e i suoi profili di Un popolo di formiche e Formiconi di Puglia. Parafrasando il racconto di un grande amico dell’Italia risorgimentale, il provenzale Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi, storia di un  contadino che da solo giorno dopo giorno ripopola una intiera regione, dal momento che, riforestando la terra, ne ricrea la fertilità, le acque dei ruscelli e la popolazione animale e umana, mi piacerebbe dire che Benedetto Croce è stato realmente – in molti campi del sapere e della vita civile – l’italiano “Uomo che piantava gli alberi”. Sulla estetica e la riforma dell’autonomia dell’arte, le ricerche del 1799, la riscoperta di Giambattista Vico, il ritrovamento di moralisti e poeti del Seicento, da Federico Della Valle e Giambattista Basile sino al trattato Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto ( forse, andriese ), quanti ermeneuti, filologi e storici -anche con ambizioni di “superamento”-, “nani seduti sulle spalle dei giganti” (metaforicamente, con Bernardo di Chartres e Giordano Bruno), o “pontefici minimi” con prosopopea della pennetta, si son succeduti e accavallati alla ricerca di nuove interpretazioni o integrazioni, che tutte giammai sarebbero sorte senza le piantagioni foriere di vita futura, dapprima alimentate dal Nostro autore!

La Cura dell’angoscia e la vitalità “cruda e verde”.

La tensione verso l’opera si nutre di amore-dolore, dialettica delle passioni, vitalità “cruda e verde”.   La nozione di vitalità, nell’ultimo ma non solo nell’ultimo Croce, è un concetto “pluripotente” (mutuando il termine dalla definizione delle cellule staminali). E lo è, come per la categoria di Essere o di Libertà in Aristotele ( “può dirsi in molti sensi”, della Metafisica ); o per la “volontà di potenza” in Nietzsche, la “volontà di vivere” in Schopenhauer, la “Libido” e il “Thanatos” di Freud; in generale, la dottrina della “dialettica nella storia del pensiero. Si rintracciano circa venti accezioni del “vitale”, sul piano della descrittiva, sempre sapientemente confermata e variata e approfondita dal Croce. Queste accezioni insistono nel momento della “mappatura”, della rappresentazione di valori e significati ( es.: vitalità “cruda e verde”, “non si soddisfa mai”, “gioia e dolore”, “Epopea e Tragedia”, “terribile forza”, accadimento che “scavalca gli individui”, “pùngolo”, “risorsa”, abbattimento ed esaltazione, “forza vitale” in attrito con la “forza morale”, “rifluire prodigioso di forze”, “angoscia infernale e gioia divina”, forza nella debolezza e debolezza nella forza, autentico “cominciamento”, suo riattaccarsi al “principio” dalla “fine”, “inferiorità rispetto alle opere” ma anche “valore” della vita stessa e “vita nella vita”, “inquietudine e trafittura” eppure “integrazione” e “vigore mentale”, dialettica nella vitalità e vitalità nella dialettica, e così via rassegnando nelle diciture tratte da Filosofia e storiografia, dalle Indagini su Hegel, Storiografia e idealità morale, o Una pagina sconosciuta degli ultimi mesi della vita di Hegel). Ma, poi, c’è un piano ermeneutico del “vitale”, come “modo categoriale”; “Principio regolativo” prima e più ancora che “Principio costitutivo” (per stare ai termini della Critica di Kant); come la esigenza di soddisfare al problema del “passaggio” tra le forme e verso le forme (avvertita nei lucidi contributi di Antoni e del Parente, per tacer d’altri).

 Rileggo, sul punto, un momento delle citate Indagini su Hegel, del ’51.“Terribile forza questa, per sé affatto amorale, della vitalità, che genera e asservisce o divora gli individui, che è gioia e dolore, che è epopea ed è tragedia, che è riso e pianto, che fa che l’uomo ora sai senta pari a un dio, ora miserabile e vile; terribile forza che la poesia doma e trasfigura con la magia della bellezza, il pensiero discerne e conosce nella sua realtà e nella realtà delle illusioni, e la coscienza e la volontà morale impronta di sé e santifica ma che svela sempre la sua forza propria, con le sue ragioni che si fanno valere oltre la nostra volontà e riemergono di volta in volta l’umanità nella barbarie , che precede la civiltà, e alla civiltà succede interrompendola per far sorgere in lei nuove condizioni e nuove premesse”.

La Loica nei Tarocchi detti del Mantegna.

La funzione della “Loica”, della “Logica”, del “sillogismo” di fronte al male e all’errore (come diceva Bernardo Tanucci, citato da Croce), viene esaltata nel saggio La ‘Loica’ nei Tarocchi detti del Mantegna, del 1941. Ma anche qui, è la “funzione” di “reggimento” e “ispirazione” di tutto il circolo spirituale, su cui occorre far battere l’accento: è la “modalità” della “modalità categoriale”, che siam chiamati a riscoprire.

“Nei famosi tarocchi detti del Mantegna mi attira in modo particolare la figura della ‘Loica’: una donna dai capelli crespi che leva nella mano sinistra e considera con occhio attento un drago avviluppato in un velo. (..) Nella figura, dunque, che ho dinanzi, una giovane donna dalle braccia nude, rimboccate le maniche della veste che le scende sino ai piedi, affisa tra esterrefatta, pensosa e rattristata, eppure con sguardo penetrante, il sordido mostro, avvolto nel velo trapunto, che ella, per ben guardarlo, ha sollevato con la mano sinistra all’altezza del suo viso, mentre la mano destra, che è libera, disegna il gesto istintivo, con le dita tese, di chi vuole allontanare da sé qualcosa che gli ripugna, e la gamba e il piede destro accennano il moto iniziale di arretramento che è in tutta la persona. (..) La Loica non soffoca né sostituisce la spontaneità del fare, ma la sorregge e la difende contro le rapine che sopr’essa tenta la convulsa e bruta vitalità, la quale prende arie spavalde di vigoria, ed è mostruosità ed è debolezza. E perciò io, da mia parte, divenuto particolarmente devoto della logica, ho messo in un quadretto e ho sospeso a una parete della mia stanza da studio la sua figura in questo ‘tarocco del Mantegna’, come l’immagine di una santa, alla quale mentalmente mi raccomando perché voglia tenermi sempre nella sua severa e buona guardia” (Discorsi di varia filosofia, Bari 1945, I, pp. 1-10; Filosofia Poesia Storia, Milano-Napoli 1951; e Adelphi, 1996, pp. 133-143). Non è chi non veda la necessità, e l’attualità, di questo principio nel marasma dei sofismi e dei disastri, che storicamente attraversiamo.

La lotta contro i demoni.

Questo punto è inteso, teoreticamente, come “lotta” contro il non-essere, o il non-essere-ancora, della attività. Storicamente, esso è motivato dalla tragica esperienza dei totalitarismi (comunistico, nazionalsocialistico, fascistico): ed è un bisogno ancora parlante, procedendo dalla crisi giovanile alla premonitrici pagine dell’ Anticristo che è in noi e della Fine della civiltà (entrambi  del 1946).

 “In verità, -scrive Croce- l’Anticristo non è un uomo, né un istituto, né una classe, né una razza, né un popolo, né uno stato, ma una tendenza della nostra anima, che, anche quando non si fa sentire in essa operosa, vi sta come in agguato; e non sale dagli abissi a muoversi nel mondo né nasce umanamente di donna, sebbene taluni credano di averlo incontrato e individuato: non viene tra noi, ma è in noi. (..) Il vero Anticristo sta nel disconoscimento, nella negazione, nell’oltraggio, nella irrisione dei valori stessi, dichiarati parole vuote, fandonie o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati dei creduli e degli stolti l’unica realtà che è la brama e cupidigia personale, indirizzata tutta al piacere e al comodo. Questo è veramente l’Anticristo, opposto al Cristo: l’Anticristo distruttore del mondo, godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distruzione stessa. (..) A questo ideale di morte, che ora si chiama ‘totalitarismo’, ‘partito unico’ e ‘obbedienza al partito’, dié avviamento e sostegno teorico l’esaltazione dello Stato che fu della filosofia hegeliana e della pubblicistica tedesca e che col suo peso gravò sull’idea della coscienza morale alla quale il Kant e il Jacobi avevano mantenuto il primato. (..) Emana da queste forme (lo Stato, Moloch, Kemosch, Baal, Jahve) un singolare fascino, possente a inebriare molti cervelli torbidi e deboli; e il semplicismo del concetto, che hanno in comune, piace agli intelletti semplicistici, insofferenti di sostenere, nell’apprendere, le complicazioni e gli approfondimenti che il serio pensiero richiede. Quella premessa mentale, che è un grossolano scambio logico, assai favorisce l’Anticristo che è in noi e che dai nostri petti si allarga o minaccia di allargarsi negli eventi della storia del mondo” (da Filosofia e storiografia, Bari 1969, 2^ ed., pp. 313-319: poi nel mio Ethos e Kratos, Bari 1994 e il carteggio con Karol Woytila).

Ancora. -”Non c’è studioso, anzi non c’è lettore un po’ attento e affettuoso del Croce, che non abbia presente, tra i suoi scritti della più tarda età, la conferenza del 1946, sulla ‘Fine della civiltà’, poi raccolta nel volume di saggi Filosofia e storiografia del 1949. (..) L’immagine della civiltà “come il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire, e del pregio suo che non è nell’eternità che non possiede, ma nella forza eterna e immortale dello spirito che può produrla sempre nuova e più intensa’ non può non tornare a visitare assidua i nostri animi, pur dopo che la vita sembra aver ripreso rigogliosa sulle macerie della catastrofe hitleriana, e dai forni di Auschwitz è nato il nuovo popolo israeliano, e dall”intellighenzia’ sovietica martirizzata, schiacciata, annullata nei Lager staliniani sono state raccolte opere che, per la loro tensione ideale, fanno impallidire la quotidiana letteratura e polemica degli stanchi letterati d’occidente, per panni rivoluzionari e rinnovatori che essi pretendano rivestire”. Così il sempre coraggioso Aldo Garosci interpretava Morte e vita dell’umanità, nella “Rivista di studi crociani” (luglio-settembre 1974; poi nella antologia da me curata Letteratura e vita morale nel Novecento, Laterza, Bari 2008, pp. 9-14); consentendoci di attualizzarne la profonda lettura nell’età dell’Isis e del barbaro annientamento di siti archeologici, monumenti e chiese patrimonio dell’umanità; nel mentre donne e fanciulli vengono degradati a strumenti di morte, per segno del vero Anticristo distruttore del mondo, “godente della distruzione, incurante di non poterne costruire altro che non sia il processo sempre più vertiginoso di questa distinzione stessa”.

La esemplarità della “Filosofia del giusto”.

 Croce è stato testimone di verità, e da sùbito, come per esempio di “Filosofia del giusto”, negli interventi per “Polonia Armenia Romania”, del 1915, e nella intervista a un giornalista svedese del 1938, per condannare come “orrore” la Shoah (v. il mio Croce inedito.1881-1952, SEN, Napoli 1984, pp. 150-161). “Terribile massacro” fu definito lo “sterminio degli Armeni”, perpetrato ad opera dei Giovani Turchi, in una lettera alla Rivista “Armi e Progresso “ del Capitano pubblicista Fabio Ranzi, nel numero del 5 febbraio 1916 (ma riprendendovi altre fonti puntuali, come il giornale “Armenia”. Eco delle rivendicazioni armene diretta dal Prof. Corrado Corradino). L’appellarsi agli “storici”, per dirimere la controversia tra Papa Bergoglio e il Premier turco attuale Erdogan, a proposito del giudizio prospettico pronunciato dal Pontefice sull’ essere lo sterminio degli armeni il primo caso di “genocidio” nella storia del Novecento, trova, pertanto, già risoluzione nel pronto intervento etico-politico, con conseguente giudizio storico, del Croce.

La critica dei governi dei tecnici, “ medici consultori”.

“Gli invocati competenti furono dal Taine, che si riconosceva come uno di essi, chiamati ‘medici consultori’; dove sarebbe da avvertire la involontaria ironia di siffatti medici che danno consulti ma non già medicano, se non importasse rilevare l’errore sostanziale che era appunto di concepire il mondo come un malato e di fronte ad esso uomini che hanno la capacità di prescrivergli la cura da adottare per vincere la malattia. Il mondo non è un malato se non fosse di quella malattia che è la vita stessa, la vita nel suo rigoglio, un complesso di forze vitali che bramano e vogliono e tentano e operano, ardono di passioni,di speranze,di fedi,si oppongono tra loro in gare e contrasti,prorompono in deliri di amore e di odio. E i competenti o tecnici o immaginari medici dell’immaginario malato sono uomini tra uomini, malati e sani né più né meno degli altri tutti, né posseggono la capacità, né hanno né debbono arrogarsi il diritto e l’autorità di fare diagnosi e dettare ricette, perché sono impegnati come forze vitali tra quelle forze vitali, pari in ciò agli altri uomini tutti” (Il ricorso ai ‘competenti’ nelle crisi storiche, del 1948, poi in Filosofia e storiografia, Bari 1969, pp. 335-340). Raccolsi il senso della calzante lezione crociana nel 1993, organizzando il libro che chiamai Ethos e Kratos, “Lettere aperte sulla crisi” (Bari 1994, pp. 70-73).Così avessimo seguito l’insegnamento della prudenza e della cognizione delle istorie, ora che meglio sappiamo dei limiti del Governo Ciampi (il primo a introdurre nel bilancio della Stato, a mo’ di abbellimento ma anche di rischio economico e amministrativo, l’acquisto dei fondi cosiddetti “derivati”, ossia fondi strutturati non su valori produttivi, azionari o obbligazionari, ma su altri beni di intermediazioni bancarie, con tutto ciò che ne è seguito)! Senza dire troppa parola dell’intreccio di interessi e problemi, gravitanti tra dislivelli dello “spread” (rendimento dei titoli di Stato rispetto agli interessi della Germania) e riforme desultorie e inconsulte del sistema pensionistico dei Governi Monti o Letta, di cui paghiamo le conseguenze (a tutto vantaggio dei grossi “boiardi di Stato”). E altro non ci appulcro !

L’abbozzo ermeneutico della importanza delle mediazioni.

Il ‘sistema’ a quadrifoglio del pensiero crociano non si riduce a “filosofia delle quattro parole” (come malignamente diceva Gentile) né a divisione del mondo in “quattro spicchi” (come satiricamente poetava il Montale: ma il rapporto di Montale a Croce è ben più complesso, come ragiono in molti capitoli di Tempo e Idee, Albatros, Milano 2015). La ricerca di “mediazioni” all’interno della circolarità della vita spirituale è ben continua, già in Filosofia della pratica del 1909, con la tematica del “colpo d’occhio”, o giudizio percettivo, terza forma di conoscenza tra intuizione e concetto; della “attenzione”, come impegno morale immanente alla prospettiva teoretica propriamente detta; ed a proposito della “unità del teoretico e del pratico”.

C’è poi il passaggio centrale della Storia come pensiero e come azione del 1938, su cui si riferma la attenzione della ermeneutica filosofica, a proposito delle funzioni della “moralità”. “Il fine della morale è di promuovere la vita. ‘Viva chi vota crea’, cantava Wolfgang Goethe. – Ma la vita promuovono tutte le forme dell’attività spirituale con le opere loro, opere di verità, opere di bellezza, opere di pratica utilità. Per esse si contempla e si comprende la realtà, e la terra si copre di campi coltivati e d’industrie, si formano le famiglie, si fondano gli stati, si combatte e si sparge il sangue, si vince e si progredisce. E che cosa mai aggiunge a queste opere belle, vere e variamente utili la moralità ? Si dirà: le opere buone. Ma le opere buone, in concreto, non possono essere se non opere di bellezza, di verità, di utilità. E la moralità stessa, per attuarsi praticamente, si fa passione e volontà e utilità, e pensa col filosofo, e plasma con l’artista, e lavora con l’agricoltore e con l’operaio, e genera figli ed esercita politica e guerra, e adopera il braccio e la spada” ( L’attività morale. Cap. IX de La storia come pensiero e come azione, Bari 1938: con varii luoghi discussivi di Alfrdo Parente, Carlo Antoni e Gennaro Sasso ). Beninteso, in Filosofia e storiografia del 1949, la moralità assicura “imperium” e non “tyrannidem” sulle forme distinte di attività spirituale. E, per converso, le figure e opere del “santo”, dell’ “eroe”, del “genio” dell’azione (come osservava l’Antoni) non dismettono la loro prerogativa di “volizioni dell’universale”, dunque di anelito morale propriamente e specificamente rappresentato.

Ma, nel complesso, rimane il fatto che si è rimesso in moto o in circolo il rapporto di “implicazione” o “mediazione” tra le “forme”: la ricerca di un “principio” dei “principii”, un metacategoriale o pre-categoriale (come sarà per il “vitale”) che segna il tempo alle categorie. Come era evidente già nella citata “Unità del teoretico e del pratico”, di Filosofia della pratica, vale: “In principio non era né il verbo né l’Atto; ma il Verbo dell’Atto e l’Atto del Verbo”, – a commento plurimo del primo versetto di San Giovanni, a sua volta tradotto nella audace lettura, per esclusione e selezione di “la Parola”, “il Segno” e “la Forza” sino all’ “Atto”, del Faust di Goethe.

L’abbozzo ermeneutico della teoria del tempo.

Se si pone il problema del “passaggio” tra le forme, o verso le forme, comunque indirizzato e ispirato (l’urgenza del vitale, il presidio della logica, l’anelito della moralità), si pone il problema del “tempo”, della Zeitigung più che della Zeit, della “temporalità” più che della “temporaneità”, direbbe il caro Rosario Assunto (ereditando, con Croce e Antoni, il “vivente originario” di Schelling e la “Critica del concreto” del Carabellese). Tra tutti i passi che alludono alla fenomenologia del tempo, al ritmo della crescita spirituale, all’ampliamento dell’anima nella grande letteratura che si fa poesia, scelgo la chiusa di Montenerodomo (del 1919), uno dei due paeselli d’Abruzzo ( l’altro è il natìo Pescasseroli, cui è toccato in sorte di ospitare il cosiddetto “Premio Croce”), a significare l’inerenza della temporalità per la scansione dell’esistenza. “E per lunghe ore mi sono trattenuto a conversare  coi miei cugini e nipoti Croce e con Tito de Thomasis, assiso sui poggiuoli di pietra, nell’angusto spazio tra le due case, che è chiuso nel fondo della chiesa di San Martino, e da cui si dipartono due vie, l’una in salita, che prende nome da Giuseppe de Thomasis, e l’altra in discesa, che ha il nome di mio nonno, Benedetto Croce. Era quello, ed è ancora, il cuore della piccola terra di Montenerodomo, dove vissero ab antico i miei maggiori – tutti coloro dei quali, da ‘Sancta Crux’ in giù, leggo i nomi nell’albero della famiglia -, e dive essi rimasero fino a poco più di un secolo fa, ed io mi sforzavo di trovare nel fondo del mio essere qualcosa che mi ricongiungesse a loro, una regola, un istinto, una passione, un palpito, e riuscivo in ciò soltanto a una consapevolezza debole, intermittente e sfuggevole, laddove ritrovavo prontamente quanto mi congiunge, con tanta molteplicità di legami e con tanta prepotenza, al vivo presente. E pensavo non senza malinconia (così mi pareva a volte di essere straniero e diverso), che l’ uomo, piuttosto che figlio della sua gente, è figlio della vita universale, che si attua di volta in volta in modo nuovo; piuttosto che filius loci, è filius temporis” (Appendice alla Storia del Regno di Napoli, Bari 1966, p. 302).

La ricerca di mediazioni tra “giustizia” e “libertà”.

E’ nota la critica dell’ “ircocervo”, ossia della pretesa di coniugare liberalismo e socialismo, idea di giustizia e aspirazione di libertà, giusta la pretesa sistematrice di Calogero e Capitini per il manifesto liberalsocialista. E’ noto l’anelito “religioso” del Croce, nel tenace dialogo con l’Einaudi: onde il liberalismo è “Teoria e Vita”, come “nascita dal dolore” (eco remota della tragedia giovanile, ancora parlante); è “forza creatrice”; “ideale pratico”; “concetto filosofico”; “epopea tragica della storia”; opera del “fervore e dell’amore”; “forza e solerzia” di tanti studiosi. Il liberalismo non spregia le istituzioni e le distinzioni dei poteri (da Locke a Montesquieu). Pure, nel dialogo con l’Einaudi e l’Einstein, e l’intervista del 1937 a “New Republic”: “Se manca l’animo libero, nessuna istituzione serve, e  se quell’animo c’è, le più varie istituzioni possono secondo tempi e luoghi rendere buon servigio”. Sovra tutto, la Libertà è “compenetrazione di forze vitali e morali”, con “l’occhio all’eterno e al divino; “ardore dell’anima nel bene”; persino, “invocazione a Dio”, e presenza dell’ “infinito nello spirito nostro” (ad altro proposito, in Senato, contro l’art. 7: “Veni Creator Spiritus). Né si dimentichino le fini diciture della Libertà: come “travaglio vitale”; “lotta con le forze demoniache”; o consapevolezza tutta moderna del “residuo di imprevedibilità” nelle cose umane (concorde la Scuola austriaca di economia, con il teorema di Hayek).

Tutto ciò si raccoglie da La religione della libertà, Principio Ideale Teoria, Forze vitali e forze morali, Ancora di liberalismo, liberismo e statalismo, unificati in Liberismo e liberalismo (Milano-Napoli 1988; Rcs, Milano 2011, passim ma segnatamente alle pp. 24-25, 28-29; 57-61, 61-65, 65-66, 73-74; 77-78 e 80-81; 85-88 e 90). In una querelle, non di rado oggetto di interpretazioni di “schieramento” e fraintendimenti di “scuola”, non vanno messe certo in non cale – con le profonde note metodologiche ed esistentive crociane – i riconoscimenti dello stesso Luigi Einaudi, a proposito della sussistenza di “schemi astratti” in economia (“schemi astratti” affini alla funzione adempiuta dal “colpo d’occhio” previsionale-prospettico nella Filosofia della pratica); dell’importanza della “prudenza pratica” e del “liberismo religioso”; specialmente, dei ‘nostri’ modi categoriali  in rapporto alla trama di relazioni tra lo stato e i “furbi”, ed al quesito (interrogativo rettorico) se la cosiddetta “terza via” possa consistere nei “piani” (op. cit., pp. 93 sgg., 96-98, 99-100 e 139-144).

E’ a questo proposito che inserisco un tentativo nuovo di rielaborazione, parallelo dell’altro ermeneutico-filosofico, ma all’interno del campo economico e politico, mémore del chiarimento di  Libertà e giustizia. Revisione di due concetti filosofici: “Per esercitare quest’ufficio e compiere questa scelta la libertà dev’essere economicamente affatto spregiudicata, e avere il coraggio di adottare, al fine del civile progresso, anche i provvedimenti che sembrano o sono i più diversi e opposti, quelli che si chiamano liberistici e quelli che si chiamano comunistici, che tutti sono buoni in certi casi se rispondono al fine che si è detto e tutti, in relazione ad esso, perdono la loro precedente qualificazione e prendono l’altra di provvedimenti moralmente necessari. Per questa ragione or son già molti anni, io mi adoperai a slegare il legame indebitamente annodato tra ‘liberalismo’, che è vita morale o etico-politica, e ‘liberismo’ che è un tipo tra gli altri tipi possibili di ordinamento economico; sul qual proposito mi sono permesso di fare ripetutamente osservare che, se quel legame fosse reale, si darebbe causa vinta al materialismo storico e, d’accordo con esso, si verrebbe a negare l’autonomia della morale, diventata maschera di bisogni e di soddisfacimenti utilitari” (Maggio 1943, Edizione Laterza, Bari 1943, pp. 25-27). E’ evidente che, guardando in alto e in prospettiva, con l’argomento di “non dare causa vinta al materialismo storico” ponendosi sul suo stesso piano, Croce vuole “togliere i panni di dosso” (per dir così) a Togliatti e alla minaccia del sorgente consociativismo comunistico, stabilendo un piano nobile di contesa ideale e dialettica politica. Gli sviluppi successivi del dibattito e delle condizioni storiche in Italia sembrano dargli piena ragione. Ma noi vogliamo qui soffermarci sul punto meno, o nient’affatto, notato dagli storici e dagli interpreti o polemisti. Come, sul piano teoretico, agiscono i “modi categoriali” memoria – sentimento – tempo, così, sul piano etico, occorrono nuove regole e nuove modalità a tutela della libertà. Non basta più dire “Europa”, come nell’ Epilogo della Storia d’Europa del ’32 prevedeva Croce (“A quel modo che, or sono settant’anni, un napoletano dell’antico Regno o un piemontese del regno subalpino si fecero italiani non rinnegando l’esser loro anteriore ma innalzandolo e risolvendolo in quel nuovo essere, così e francesi e tedeschi e italiani e tutti gli altri si innalzeranno a europei e i loro pensieri indirizzeranno all’ Europa e i loro cuori batteranno per lei come prima per le patrie più piccole, non  dimenticate già, ma meglio amate”): ma bisognerà dire quali modalità per i poteri effettivi del Parlamento europeo (non solo per Commissione e Banca Centrale). Non basta dire “concorso” per docenti o dirigenti; ma quali le “modalità” di selezione. Non basta dire “invalsi”; ma quali gli incroci tra ideologia e tecnocrazia posti in essere attraverso quella cifra di valutazione delle istituzioni scolastiche (sorta di nuovo “ircocervo del 2000”). Nè basta dire, per un verso, “Welfare”. Ma occorre ben aver presenti i possibili e reali passaggi successivi del sistema economico statalistico: come la liceità d’indebitamento; la concezione della cosa pubblica, reputata terreno di conquista; quindi, la varia fenomenologia dei reati. Né basta dire, per l’altro riguardo, “Mercato”. Ma occorre tenere, con altrettanta fermezza, presenti i passaggi evolutivi in senso degenerativo del liberismo: rischi della assoluta deregulation (come per la crisi finanziaria del 2008, prima statunitense poi planetaria); “dittatura finanziaria”; quindi, di nuovo, fenomenologia di reati. Dove – si badi – quello che non si può omettere è proprio il primo “passaggio”, tale da poter recare poi – su entrambi i versanti di “sistema” – ai “reati”. E’, cioè, proprio il concepire lo Stato come il “papà pantalone” di turno, la cosa “di tutti” che è sentita come res nullius, ad autorizzare l’indebitamento crescente, che porta al proliferare dei reati. E, d’altra parte, è il concepire il “Mercato” come totale “assenza di regole”, che può indurre, e di fatto induce, a forme di Ge-stellung finanziaria e nuovi reati.  I modi categoriali, i “princìpi regolativi”, sono,  per così dire, “caldi”, e non “freddi”: dal momento che è la introiezione a livello psicologico del cattivo esempio “statalistico”, o falsamente “liberistico”,  modello di comportamento, e presunta legittimazione di malversazione della cosa pubblica e privata, a generare processi crescenti di indebitamento o corruzione. – “Lo ha fatto quell’amministratore, quell’esponente politico, quel consiglio regionale o comunale o provinciale, quella cooperativa, quella banca o istituto di credito, quell’impresa, quella lobby o consorteria: – ebbene, lo si può ancora fare, e perpetrare, consimile atto criminogeno, anche da parte altrui !” Di siffatto, o consimile, tenore, sembra essere l’atteggiamento della presunta classe dirigente, di fronte alla “strana crisi italiana”, “europea”, “mondiale”. Ed è qui che si può ravvisare il collegamento con la enucleazione dei modi categoriali in filosofia, o ermeneutica filosofica,  “memoria-sentimento-tempo”: enucleazione che si coglie e sorprende nel sempre vario ed affascinante dettato della prosa di Croce, e per certi versi dobbiamo  alle oneste letture sul “morale” e sul “vitale” (in fondo, la “dialettica delle passioni”), saggiate dall’erede non inerte, Alfredo Parente. Sia consentita una ultima chiosa: Alberto Ronchey non a caso, in editoriali degli anni Settanta sul “Corriere” o nell’ Atlante ideologico, scriveva che, per spiegare la crisi, gli economisti e gli statistici debbono consultare gli psicologi e i moralisti; e lo stesso Pasolini enfaticamente censurava il modello consumistico in quanto introiezione psicologica di ‘bisogni’ falsi o malamente apposti. Ma soprattutto, con Carlo Antoni (che invitava a considerare la “Libertà indivisibile”), era Benedetto Croce a richiamare che “la libertà ha bisogno della mano sinistra e della mano destra, perché regge il tutto”.

Vertici della “Religione della libertà”.

Se si vuole attingere una controprova significativa per la bontà della presente comparazione, questa stessa si può agevolmente ritrovare nel fatto che ciascuno degli opposti ‘sistemi’, lo statalistico e il liberistico, confuta o attacca l’avversario, ponendo esattamente l’accento sui gravi limiti del primo “passaggio” degenerativo. Il liberismo lo fa imputando al Welfare State la garanzia e la presunzione di liceità d’indebitamento come diretta conseguenza della sistematica occupazione della cosa pubblica; lo statalismo, rinfacciando alla idea e prassi del Mercato non tanto il ‘liberismo’ in generale (a cui, peraltro, è disposto a riconoscere il pregio della “modernità”, del resto sulle orme di Marx estimatore di Ricardo e Stuart Mill); ma, specialmente, l’errore ed il vizio della totale de-regulation. Il quadro complessivo postula una sorta di nuova “rivoluzione copernicana”, in campo socio-economico, atta a ‘mediare’ i due opposti sistemi,  e rintracciando proprio in Croce talune tessere giustificative.

Ma non si tratta più di ‘mediazione’ dottrinariamente astratta e giustappositiva, tipica dell’ “ircocervo”; sì – bene – di deduzione di tipo ‘modale’ e regolativo,  interna al dispiegarsi dei nuovi modi della religione della libertà.

Nei “Quaderni della Critica” del 1945 (II, p. 110), Croce infatti chiarisce, a proposito di socialismo e libertà: “Ma se il socialismo non sarà più angustamente ristretto alla classe operaia, se esso correggerà o abbandonerà le teorie marxistiche, se si amplierà di nuovo a movimento umano e liberale e democratico che si dica, come era nelle sue origini, lis finita est, e socialismo e liberalismo confluiscono” (passo rintracciato da Raffaello Franchini, Croce il socialismo e la libertà, “Rivista di studi crociani”, 1972/I, p. 120). In Per invigilare me stesso: “Voi vedete in lotta dei deboli e dei forti. – Dalla parte di chi siete tratto a mettervi ? E il giovane esplosivamente: da quella dei forti ! Ebbene, se sentite così, siete fascista con chiara coscienza: con la stessa coscienza con la quale io sono avversario, perché io e coloro presso cui mi sono educato e formato abbiamo avuto e abbiamo per massima, che bisogna porsi sempre dalla parte dei deboli e degli oppressi” (ed. a cura di Gennaro Sasso, Bologna 1989, p. 108: v. il mio Croce nel mondo, Bari 1999, p. 40 e Antonio Jannazzo, Il liberalismo italiano del Novecento. Da Giolitti a Malagodi, Rubbettino 2003, p. 110).

Ci sono due metodi per rapportarsi a un testo, la lettura ermeneutica o com-prensiva, e la lettura strutturale e intellettualistica. Con la prima, procediamo dal testo a noi (anche se siamo certamente noi a interrogare il testo in base a uno speciale bisogno o problema); ma procediamo facendo balzare alla evidenza quanto nel testo è indicato (circolo ermeneutico). Con la seconda metodica, invece, procediamo da noi al testo (vivisezionando un’ opera all’infinito con operazioni di analisi dell’intelletto astraente, le cui inevitabili incongruenze o aporie addebitiamo poi al testo, come accade nella critica strutturalistica). Ora, il primo modo di lettura rintraccia nell’opera crociana precise menzioni di concetti regolativi, giunture gnoseo-pratiche, modalità categoriali: e le fa venire alla luce, avvalora, e ricompone. Esse sono: il “colpo d’occhio”  e la terza forma di conoscenza. la “conoscenza percettiva”, in Filosofia della pratica; Il “Verbo dell’Atto e l?atto del Verbo”, nella Unità del teoretico e del pratico (ivi); la funzione della “moralità” (La storia come pensiero e come azione, al capo IX); la funzione pluriprospettica della “vitalità” (nell’ultimo Croce).

Se si vuole, si può parlare – con il Cotroneo – di un “liberalismo anomalo” di Benedetto Croce. La descrittiva così introdotta, in rapporto alle tradizioni di “scuola” (l’economica o liberistica, la istituzionale, la dottrina strutturata per contrappesi o check-balanced, in scala europea), può serbare qualche legittimo fondamento. Pure, ove ciò accada, bisognerebbe contestualmente considerare la genesi storica e autobiografica della asserita “anomalia”: e cioè il “bisogno di fede”, di “rifarsi in forma razionale una nuova fede religiosa”, all’indomani della crisi provocata dal terremoto di Casamicciola, da cui siam partiti, rileggendo la lucida narrazione del Contributo. E’ da lì che partono l’erudizione passionata del giovane Croce; l’interesse per i personaggi femminili nella Repubblica Napoletana del ’99 (Luisa Sanfelice, Eleonora Pimentel Fonseca); l’attenzione per le poetesse ed eroine dell’età umanistica (Gaspara Stampa, Isabella Morra, il circolo di Vittoria Colonna, la “divina Saucia” di Storie e leggende napoletane); la necessità di non confondere i “programmi” con la “fede” nella noterella Fede e programmi del 1911; la ricerca del “cuore” nella grande poesia; della virtù etica nella storiografia; il rimpianto del “poco amore nel mondo” in Antistoricismo del 1930; infine, la “religione della libertà”, nella dottrina etico-politica.

Senza dire che, sempre su scala europea, dovrebbe esser reputato “anomalo” anche il liberalismo di Benjamin Constant, il quale, nel celebre discorso comparativo della Libertà degli antichi e della libertà dei moderni del 1819, esortava i nobili ascoltatori a pregiare, oltre l’ideale utopico della “felicità”, la meta dell’ “autoperfezionamento”, con un colpo d’ala da valer per sempre nella storia della idea liberale: “D’altronde, Signori, è proprio vero che la felicità, di qualsiasi tipo sia, costituisce l’unico fine della specie umana ? In tal caso, il nostro cammino sarebbe davvero ristretto e la nostra destinazione ben poco elevata. Non c’è uno solo tra noi che, a voler abbassarsi, restringere le sue facoltà morali, svilire i suoi desideri, sconfessare l’attività, la gloria, le emozioni generose e profonde, non potrebbe abbrutirsi ad esser felice. No. Signori, chiamo a testimone la parte migliore della nostra natura quella nobile inquietudine che ci perseguita e ci tormenta, la brama di ampliare i nostri lumi e sviluppare le nostre facoltà; non è alla sola felicità, è al perfezionamento che il nostro destino ci chiama: e la libertà politica è il mezzo più possente e il più energico perfezionamento che il cielo ci abbia dato”. Come anche qui il “perfezionamento” etico oltrepassa e scavalca l’obiettivo della mera “felicità” (“di qualsiasi tipo”, dice Constant: e cioè economica, eudaimonistica, fisiologica, di benessere), così la “nobile inquietudine che ci perseguita e tormenta” dipinge con rara efficacia lo Streben, la tensione religiosa dell’anima, che sarà propria  della parabola umana e civile del Croce. E che dire di un altro antesignano della crociana “religione della libertà”, il repubblicano francese Edgar Quinet, l’autore – tra l’altro – delle Rivoluzioni d’Italia (1863 e 1871), La rivoluzione religiosa del secolo XIX, La Repubblica (1874), e I Gesuiti (1877), grande amico dell’Italia e dei patrioti italiani, di cui rintracciammo i prolegomeni per la crociana “religione della libertà” ( Niccolò Montenegro. La vita e l’opera.1839-1879, PensaMultimedia, Lecce 2011: Giuseppe Santonastaso, Edgar Quinet e la religione della libertà, Bari 1968)? “Anomalo” si dovrebbe reputare ogni momento, testimonianza o appello della idea liberale il cui l’etico-politico (e quindi il “religioso”) precede e sorregge l’aspetto economico o istituzionale.

Di “anomalia” in “anomalia”, non vorremmo che si arrivasse a nuovi modi degli “sbarchi su Croce” (Franchini 1969): ossia, fuor di metafora, dalla apparente caratterizzazione asettica e descrittiva, alla invalidazione assiologica e di merito, onde Croce “non è stato un grande pensatore liberale” (come nel giudizio di Giuseppe Bedeschi nella sua “Storia del pensiero liberale”, tuttora rieditata).

Ma: – E la “efficacia” della sua lezione nelle crisi storiche ? E la tempestività degli interventi ? E la corrispondenza con Roepke e von Hayek, con Einstein e la Mont Pelerin Society? Chi non voglia ripetere il moto di gratitudine per la testimoniata “nobile inquietudine che ci perseguita e tormenta”. C’è chi si è spinto ancora avanti nell’imputare alla cultura politica e letteraria italiana (segnatamente all’altezza del dibattito Einaudi-Croce su “Liberismo e Liberalismo”) la coniazione del termine “liberismo” che risulterebbe estraneo alla civiltà anglosassone. Ma c’è lo splendido precedente sul giornale milanese “La Concordia” del 15 settembre 1848, dettato da Alessandro Manzoni, che, nel saggio Indipendenza politica e liberismo economico, esalta la volontà libera di instaurare rapporti di mercato dei milanesi verso i commercianti di Praga, ma non a tutti i costi, “ fin dove rimanessero pure liberi” ( dunque riconoscendo le antiche origini italiane del termine “liberismo”, che come agricoltore e studioso di economia il nostro Alessandro ben dominava ). Ove poi  si voglia  opinare  che il termine “liberismo” non compaia espressamente nella cultura anglosassone, resterebbero ancora da ragionarne le motivazioni storiche, considerando – come chiariva Carlo Antoni in pagine assai intense – che, comunque, quella corrispondente “area semantica” era protetta dalla filosofia dell’empirismo e della creatività individuale, alla base dell’idea liberale.

“Il ‘liberismo’ che sorse come scienza economica in Inghilterra nel XVIII secolo è prima di tutto una scoperta filosofica nonostante che i libri di testo di storia della filosofia non lo menzionino affatto. In un saggio assai noto, il Croce dimostrò che le due scienze ‘secolari’ sorte nel XVIII secolo – l’economica e l’estetica – sono in un certo modo correlate, in quanto entrambe contengono la giustificazione di facoltà sensibili, e per sopravvivere devono svincolarsi dalla filosofia morale. In realtà il rapporto era in origine molto più stretto. Il culto dell’estetica sorse anche in Inghilterra nel XVIII secolo come l’opposizione alle ‘regole’ che governavano la poesia razionale, e si fece paladino entusiasta della grande scoperta – il genio fruttifero della fantasia e l’ ‘originalità’ creativa. Avvenne allora che l’attributo di potere creativo, accettato fino ad allora come prerogativa della Deità, fu concesso al genio dell’uomo. Ancora oggi molti non si sono ancora resi conto di questo, sebbene la parola ‘creativo’ sia nel frattempo entrata nel linguaggio di ogni giorno e sia diventata quasi un luogo comune. Ciononostante, troviamo la stessa idea..all’origine del ‘liberismo’ di Adam Smith. Il ‘liberismo’ è la scienza che scoprì la produttività della mente umana, la fertilità dell’iniziativa che, come l’arte, non riconosce altre regole se non le sue proprie. Considerando il lavoro la base di tutti i meriti, porta alle stelle la creatività” (Libertà indivisibile, nella “Biblioteca della Libertà”, A. III, n. 2, maggio-giugno 1966, pp. 13-28).

Questa pietra miliare della ermeneutica della Libertà, con i chiari dettati di Manzoni e Croce, dovrebbe forse esser tenuta presente da Sergio Ricossa, il quale – discorrendo di “libertà economica” – arriva a sentenziare: “In Italia si è spesso equivocato sul suo significato, a tal punto che ci siamo inventati un termine, ‘liberismo’, che non esiste nel vocabolario anglosassone del liberalismo. E già questo particolare non è poco significativo” (Intervista a Davide G. Bianchi, Il pensiero di Hayek per un’Italia più liberale, in “L’Occidentale” -NCD, dell’ 11 novembre 2007, anche sulla base della Prefazione all’edizione italiana del 1998 della Società libera di Friedrich A. von Hayek). Forse coloro che con scherzosa serietà chiamo “pontefici minimi” ritengono che, nella stagione della “filosofia minima”, nessuno si prenda la briga di controllare la storia delle idee e delle fonti, dal momento che non si leggono più direttamente gli “autori”, avendo via via provveduto – il mondo della istruzione e dell’insegnamento – a soppiantare le “conoscenze” con le “competenze”.

Ma Kant ci ha insegnato: “Noto soltanto, che non è niente insolito, tanto nella conversazione comune quanto negli scritti, mediante il confronto dei pensieri che un autore espone sul suo oggetto, intenderlo , magari, meglio che egli non intendesse se medesimo, in quanto egli non determinava abbastanza il suo concetto, e però talvolta parlava, o anche pensava, contrariamente alla sua propria intenzione” (cfr. Critica della ragion pura, ed. Gentile – Lombardo Radice, riveduta da Vittorio Mathieu, Bari 1963, pp. 304-305).

Non per nulla Croce cita Sismondi e Constant nel capitolo primo La religione della libertà della Storia d’Europa nel secolo decimonono (del 1932: ed. Adelphi, 1991). “Ora chi raccolga e consideri tutti quanti questi tratti dell’ideale liberale, non dubiti di denominarlo, qual esso era, una ‘religione’: denominarlo così, ben inteso, quando si attenda all’essenziale ed intrinseco  di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, per quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie”.

Perciò: “ Si volle la sincerità della fede, – chiarisce Croce nel medesimo contesto – la coerenza del carattere, l’accordo tra il dire e il fare, si rinnovò moralmente il concetto della dignità personale, e con essa il sentimento dell’ aristocrazia vera, con le sue regole, le sue rigidezze e le sue esclusioni, dell’aristocrazia  che era diventata oramai liberale e perciò affatto spirituale”. E’ un vertice risorgimentale e desanctisiano della “religione della libertà”, trasmigrato dal ritratto di Una famiglia di patrioti (i Poerio) e dal Discorso di Muro Lucano sul “Dovere della borghesia nelle province meridionali” alla Storia del Regno di Napoli, del 1923: come “accordo di mente e di animo, circolo vivo di pensiero e di volontà, religione come unità dello spirito umano e sanità e vigoria di tutte le sue forze”.

Forse, lo Schelling della “Filosofia positiva”, quella intesa a indagare non tanto “che cosa è” una cosa ma “come essa si attua” (lo Schelling che Croce chiama per brevità “il secondo Schelling”, e che deve a Kant della Religione entro i limiti della semplice ragione lo spunto circa la “origine razionale” e “origine temporale” del “male”, la prima rivolta all’ “esistere” la seconda all’ “accadere” del “male” stesso, in quanto “evento”); ebbene questo Schelling della Età del mondo e della Filosofia della rivelazione si dimostra, altresì, inauguratore, mercé la ricerca della “potenza di essere” intermedia tra “essenza” ed “esistenza”, delle filosofie moderne e contemporanee di impronta fenomenologica e storicistica, e dunque di tutte le derivazioni sulle “modalità” delle “forme del fare”, sino alle nuove ‘regole’ della “religione della libertà”, alla cui tutela abbisogna una “classe dirigente” nutrita di cultura, alto disinteresse e visione prospettica globale dei problemi.

Qui si torna a una pagina dimenticata del 20 novembre del ’52, dettata dal Montale, Il maestro e il suo insegnamento: “Qui finalmente Croce metteva in luce il suo elemento romantico, direi quasi risorgimentale, garibaldino; l’hegeliano tornava ai suoi primi maestri, il Carducci e il De Sanctis; il pensatore che aveva ‘calato’ il pensiero nella storia, continuando le intuizioni del Vico, pareva tornare alla sua antica posizione herbartiana, contrapponendo all’essere il dover essere, all’io le esigenze di un alto imperativo morale. (..) Essere crociani in un Paese che aspira a mantenere e perfezionare le proprie istituzioni democratiche vorrà dire anche in avvenire non transigere in questioni di principio, non rinunziare mai a quel senso di pietas, di partecipazione storica, che solo può legare il presente col passato. Essere crociani vorrà dire domani, e speriamo sempre, esser cittadini di un’ Italia che faccia parte inseparabile del mondo della cultura umanistica, di un’ Italia che non sacrifichi ad alcun Moloc, ad alcun mito materialistico ( la violenza, la forza, le cosiddette esigenze dell’uomo economico ) quella fisionomia, quei caratteri veramente spirituali che, in mancanza di altre ricchezze,  sembrano esserle statti impressi dal suo genio interiore, dal suo destino; o da quel Dio che Croce, come tutti i migliori credenti,non volle mai nominare invano” (“Corriere d’ Informazione”, Milano, 20-21 novembre 1952, poi in Il secondo mestiere, I, pp. 1458-1464: riesaminato nel mio Tempo e Idee, Albatros, Milano 2015, con prefazione di Franco Bosio, pp. 116-119).

* Giuseppe Brescia, Presidente della Libera Università “G. B. Vico” di Andria, Preside titolare nei Licei, Medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola nel 1990 e Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica, dopo la fase filologica (La poetica di Aristotele e Croce inedito, del 1984), ha espresso un sistema in quattro parti: Antropologia come dialettica delle passioni e prospettiva in due volumi (Bari 1999); Epistemologia come logica dei modi categoriali (2000); Cosmologia come sistema delle scienze di frontiera (1998) e Teoria della tetrade (2002). Ha lavorato all’innesto tra umanesimo storicistico epistemologia ed ermeneutica, dando valore attrattivo ai tempi del “tempo” e della “Lebenswelt“; alle Ipotesi e problemi per una filosofia della natura (1987), L’azione a distanza (1990) e Pascal matematico (1991); alle attualizzazioni dei problemi del male e del sofisma (Critica della ragione sofistica, 1997; Ipotesi su Pico, 2000 e 2011; Il sogno di Castorp e il progetto di Pico, 2002; Il vivente originario. Saggio sullo Schelling, Milano 2013; I conti con il male, in corso di pubblicazione).

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