«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot
«Pari opportunità per tutti e distribuzione equa dei beni primari e, laddove ci fossero disuguaglianze, dovranno andare a benificio dei più svantaggiati».
Non è difficile riconoscere in questa affermazione il secondo principio di giustizia di John Rawls (ricordiamo anche il primo: «Uguali libertà per tutti»). Principi su cui, secondo la teoria della giustizia rawlsiana, doveva fondarsi il “consenso per sovrapposizione”; ovvero due principi che, a prescindere dalla personale concezione del bene e della “vita buona” di ciascuno, avrebbero dovuto mettere tutti d’accordo, su cui tutti avrebbero dovuto convenire.
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La figura del filosofo, nel Teeteto[1] viene tratteggiata più volte da Platone, quasi come un filo rosso che accompagna tutto il dialogo, un riferimento costante nelle parole di Socrate: in apertura, per esempio, nel prologo, Euclide e Terpsione ricordando il giovane Teeteto, morto prematuramente in battaglia, individuano in lui delle qualità particolari che rendono la sua una vera “natura filosofica” [2], tanto che «era proprio destinato a diventare un uomo di chiara fama, se fosse giunto ad età matura» [3].
Socrate delinea poi un tratto fondamentale del vero filosofo: il vero filosofo non deve «riempire i suoi discepoli, come fossero dei vasi vuoti», con le proprie dottrine, ma deve agire come una levatrice, deve saper riconoscere un’anima in travaglio, deve saper aiutare questa a tirar fuori le idee di cui è gravida e deve, infine, essere in grado di riconoscere se questo è stato un vero parto oppure un aborto [4]. È il tema della maieutica socratica, che riguarda, certo, la figura del filosofo, anzi ne costituisce una parte considerevole, ma non è su questo che vorrei soffermarmi in quest’occasione.
Vorrei, invece, prendere in esame il vero e proprio “Intermezzo sul filosofo” [5], in cui Socrate ed il geometra Teodoro – senza dimenticare che all’ascolto c’è, un po’ confuso e forse anche turbato, dai discorsi e dall’interrogazione serrata a cui Socrate lo sta sottoponendo da un bel po’, il giovane e provetto allievo di Teodoro, Teeteto – si soffermano sulla figura del filosofo.
Ne La vita autentica (Cortina Editore, Milano, 2009), saggio che possiamo definire divulgativo, Vito Mancuso affronta il tema, molto sentito filosoficamente, dell’autenticità (da autos = se stesso).
Non bisogna lasciarsi ingannare dalla apparente semplicità con cui è scritto il testo: Mancuso è un teologo preparato, non dogmatico (lo testimonia l’aver scritto un libro con Corrado Augias, Disputa su Dio e dintorni, in cui ha messo in discussione le proprie religiose convinzioni) e numerose sono le citazioni colte cui ricorre per illustrare e rafforzare le sue tesi.
L’intento di Mancuso (non originale in verità), esplicitato nella prefazione, è fare come Dionigi che girava con la lanterna in mano alla ricerca dell’uomo.
Se è vero che l’autenticità è legata anche agli oggetti, alle cose (banconote, opere d’arte, ecc.) è altrettanto vero che, riferita all’uomo, diventa un concetto molto più complesso, intimamente legato a quello di libertà (non a caso due tesi su tre del libro sono legate alla “libertà” e alla “libertà da se stessi”).
La libertà umana è strettamente connessa alla vita (qui considerata come dato oggettivo) e alle sue interpretazioni ovvero all’ethos del bìos, alla bioetica.