> di Federica Caniglia*
Il secolo del Novecento nella memoria collettiva si presenta come un flusso continuo di immagini-sequenza, in cui gli eventi che lo contraddistinguono sono richiamati mediante immagini convenzionali e ricorrenti, pensiamo allo storico discorso pronunciato da Mussolini dai balconi di Palazzo Venezia che annuncia l’avvenuta dichiarazione di guerra alla Francia e all’Inghilterra, il discorso del Führer proferito all’indomani della vittoria nelle elezioni del 1933 ai membri del partito Nazional Socialista, la caduta del muro di Berlino nel 1989 e l’attentato al pontefice Giovanni Paolo II, potremmo elencarne ancora degli altri, ma questi pochi esempi attestano l’esistenza di un immane archivio memoriale di immagini filmiche che il cinema prima e la televisione poi hanno trasmesso e reiterato nel tempo. Questo dato è di primaria importanza perché segnala come l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa abbia modificato i tradizionali modelli di comprensione e di conoscenza del mondo reale. L’immagine ha assunto così una valenza conoscitiva decretando la vista come il principale ed unico universo sensoriale a codificare, interpretare e conoscere il mondo circostante, le relazioni e le esperienze degli individui. Negli ultimi anni la proliferazione della produzione filmica sulla Shoah ha raggiunto i massimi livelli, come hanno osservato un gruppo di studiosi durante un work-shop svoltosi al Center for Advanced Holocaust Studies nel giugno del 2000, gli Holocaust Film hanno acquisito lo statuto di vero e proprio genere cinematografico a partire dalla metà degli anni 50 con il documentario commemorativo Notte e Nebbia, realizzato nel 1956 dal regista francese Alain Resnais e dal film hollywoodiano, Il diario di Anna Frank, realizzato nel 1959 dal regista George Stevens. Questo dato rivela come gli studi sulla cinematografia concentrazionaria sia di fondamentale importanza nella trasmissione dell’Olocausto, tanto più ora che la memoria, nell’inevitabile scomparsa dei testimoni diretti, diventa mediata dalle immagini, dai racconti, dalle informazioni disponibili ed accessibili liberamente dai new media. Marianne Hirsch la definisce la “post-memoria”, una forma molto potente e particolare di memoria, proprio perché il suo rapporto con l’oggetto e con la fonte non è mediato dai ricordi, ma da un investimento dell’immaginazione e dell’invenzione. Ciò non significa che la memoria non sia di per sé mediata, ma essa è più direttamente legate al passato. La post-memoria caratterizza l’esperienza di coloro che sono cresciuti avvolti nei racconti di eventi che hanno preceduto la loro nascita, per cui è come se alle loro storie personali si fossero sostituite le storie delle generazioni precedenti, che hanno vissuto eventi ed esperienze traumatizzanti [1].