> di Ruggero D’Alessandro*
Uno dei segnali inequivocabili di un’epoca intessuta di fermenti artistici e riflessioni filosofiche, intensità letteraria e ricchezza musicale è l’apparire di opere capaci di rispecchiare e sintetizzare tali fermenti, gettando un ponte verso il futuro. Oggi, rileggere libri come La civiltà del Rinascimento in Italia di Jakob Burckhardt, la Breve storia della musica di Massimo Mila o Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna di Claudio Magris, collegare fra loro Cultura e rivoluzione industriale sulla scia di Raymond Williams permette di respirare un’atmosfera attraverso le sue migliori testimonianze. Ci sembra che il libro di Eric Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni [Raffaello Cortina, Milano 2013] rappresenti un avvenimento non frequente in questi anni. Anzitutto per la ricchezza di collegamenti; poi per l’intensità multidisciplinare, per la forza con cui si abbattono gli steccati (purtroppo ancora esistenti e resistenti) fra le culture umanistica e scientifica (si pensi ad un testo che nel 1959 fa epoca: Le due culture, di Charles Percy Snow).
La figura dello scienziato statunitense Eric Kandel è un esempio pressoché unico di ponti lanciati fra scienze “dure e morbide”: vince il Nobel per la medicina nel 2000 studiando pionieristicamente i meccanismi biochimici che portano a formare la memoria all’interno delle cellule nervose. Si è occupato in particolare di psichiatria e psicoanalisi, indagando sulle prove sperimentali dei risultati ottenuti dalla cura analitica: una sorta di rifrazione a livello di tracciati neurologici del magistero di Freud e dei suoi successori. Insegna ancora, ad oltre 80 anni, presso la Columbia University di New York, ove dirige il Center for Neurobiology and Behaviour. Il campo d’interessi di questo corposo volume è già ben sintetizzato nel titolo e sottotitolo: l’autore dimostra i legami più che sotterranei e tutt’altro che casuali fra letteratura e arte, neurologia e psicoanalisi in quel «grande laboratorio della fine del mondo» (come la definisce Karl Kraus) rappresentato da Vienna fra l’ultimo decennio dell’800 e i primi 14 anni del ‘900, giusto a ridosso dello scoppio del primo conflitto mondiale. Una citazione c’introduce con ironica poeticità in quella particolare capitale della Belle Époque, comparabile a pochi altri esempi nella storia moderna:
«Rodin si chinò verso Klimt e disse: “Non mi sono mai trovato in un’atmosfera simile: il vostro tragico e magnifico affresco su Beethoven; la vostra indimenticabile, sacra esposizione; e ora questo giardino, queste donne, questa musica … e intorno tutta questa gaia, infantile felicità … Come si spiega tutto ciò?”. E Klimt mosse lentamente la sua magnifica testa annuendo e rispose con una sola parola: “Austria” (p. 11)».
Il Nobel per la medicina mette di fronte la mente umana e l’ambiente intellettuale viennese fra 1889 e 1914, tracciando un ritratto stimolante dell’intensa simbiosi che si viene a determinare. Le prime tracce della possibilità di comprendere la mente in termini biologici cominciano a diffondersi proprio in quella città di due milioni d’abitanti, incrocio fra una quindicina di nazionalità e decine di lingue e dialetti, fulcro di splendore e decadenza dell’Impero più antico d’Europa ancora in vita nel 1900 – anche se si tratta ormai di sopravvivenza. Chiedersi come ricordiamo, impariamo, percepiamo e darsi risposte attendibili sul piano scientifico è consentito dalla fine del secolo scorso grazie alla fusione fra psicologia cognitiva (scienza della mente) e scienza del cervello (neuroscienza). Ma il punto d’arrivo, costituito dalla possibilità stessa d’indagare i processi neurologici di formazione di fenomeni come empatia e pensiero, coscienza e giudizio estetico, questo punto parte da artisti e scienziati che Kandel identifica in specie nei cinque protagonisti delle sue pagine. Così spiega la particolare scelta della capitale austro-ungarica nella fase del massimo apogeo e del contemporaneo tramontare:
«Uno dei tratti caratteristici della vita viennese di quel tempo era costituito dai continui, agevoli scambi tra scienziati e artisti, scrittori e pensatori. L’interazione con gli studiosi di medicina e di biologia, e anche di psicoanalisi, influenzò significativamente la ritrattistica di questi artisti (p. 13)».
I due medici al centro dell’indagine sono Sigmund Freud e Arthur Schnitzler – che appare quale scrittore e scienziato, assai apprezzato dal fondatore della psicoanalisi. I tre artisti visivi sono: Gustav Klimt, Oskar Kokoschka ed Egon Schiele, fra i massimi esponenti del modernismo viennese a cavallo di XIX e XX secolo. Come gruppo di pittori cercano per la prima volta non più di comunicare e diffondere bellezza, ma nuove verità. E lo fanno lavorando in una sorta di Innere Stadt, di Vienna quale città interiore, da metà ‘800 mutatasi in moderna metropoli di statura europea. La psicologia dell’arte fondata scientificamente – uno dei campi nei quali eccelle Freud – è ben lontana dal restare chiusa nel proprio alveo specialistico, magari nelle famose “riunioni del mercoledì”. Al contrario, i conturbanti e dorati mosaici femminili di Klimt, gli sguardi allucinati e ironici di Kokoschka, i corpi degli amanti scheletrici in Schiele respirano a fondo le lezioni della prima vague di scienza del profondo che si diffonde dall’indirizzo 9 Berggasse. Se nel 1909 Freud confida a Jung in viaggio verso gli Stati Uniti «non sanno che stiamo per portare loro la peste», i protagonisti del modernismo viennese vivono fino in fondo questa “malattia” come linfa vitale per il loro esprimersi attraverso l’arte del far vedere e percepire territori oscuri.
La visione freudiana dei meccanismi psicologici del profondo considera la mente nell’ambito della scienza empirica, anziché quale piattaforma per la produzione di concetti filosofici (per citare Gilles Deleuze). È questa la differenza chiave rispetto alle teorie di Schnitzler, Nietzsche e molti artisti a cavallo dei due secoli. La psicologia cognitiva, in altri termini, è costruita sulla prima pietra freudiana:
«un tentativo di descrivere la complessità del pensiero e dei sentimenti umani in termini di una sistematica rappresentazione, interna alla mente, del mondo esterno» (p. 32).
Se il fondatore della psicoanalisi scopre che la maggior parte della vita mentale è inconscia e passa al livello di consapevolezza grazie a parole e immagini, è proprio su questa scia che si muovono Schnitzler e Kokoschka, Schiele e Klimt (i quattro artisti considerati nel volume kandeliano). Tutti e quattro, ognuno nel suo stile, nella propria “maniera” (nel senso alto) si avvicinano con curiosità e passione tanto all’arte/letteratura quanto al mondo delle emozioni e della mente che la psicologia del profondo comincia a mostrare all’inizio del XX secolo. Centrale nel lungo studio dello scienziato e umanista statunitense è il movimento modernista viennese fra gli anni 1890 e 1914. I tre punti centrali sono:
– la strutturazione in gran parte irrazionale della mente umana;
– a seguito del profondo influsso freudiano esercitato sui protagonisti del Modernismo, assume funzione determinante l’autoanalisi (dalle pulsioni al mondo onirico);
– si apre una nuova prospettiva di cultura interdisciplinare, tra medicina e arti visive, letteratura e biologia, musica e neurologia.
Un esempio del terzo punto è il ruolo primario della scienza contemporanea nella pittura di Gustav Klimt: in particolare la sua narrazione evoluzionista e prefreudiana. Altro esempio è la collaborazione fra Ernst Kris – partito come critico d’arte e approdato fra i protagonisti della prima generazione psicoanalitica – e il collega critico Ernst Gombrich: l’arte e la scienza che dialogano influenzandosi mutuamente. Una discendenza che mostra come una simile doppia rivoluzione – della percezione e della rappresentazione – resti tutt’altro che confinata ai suoi tempi e a Vienna, è l’influsso dell’opera di Oskar Kokoschka sulla pittura inglese, in specie su Lucian Freud – guarda caso nipote dell’autore dell’Interpretazione dei sogni. Come dicono i francesi, tout se tient! Eric Kandel sottolinea come non di sola psicoanalisi si tratti in questo sconvolgimento della cultura che si produce in un quarto di secolo nella capitale dell’impero absburgico. Si pensi alla scuola psicologica della Gestalt. È a Berlino nel 1910 che nasce il gruppo attorno a Max Wertheimer, Wolfgang Köhler e Kurt Koffka – poi rivitalizzato e diffuso negli Stati Uniti da Kurt Lewin negli anni ‘30/40. Ancora una volta (come con Kris e Gombrich), un’altra figura di contatto si muove sul confine fra scienza e arte: Rudolf Arnheim, infatti, è allievo di Wertheimer e Köhler, e sviluppa negli anni una psicologia dell’arte basata proprio sui principi gestaltiani. Come la percezione è strutturata e ordinata, così lo è ogni opera d’arte. Scrive Kandel:
«L’idea centrale della psicologia della Gestalt (…) è che ciò che vediamo, la nostra interpretazione di qualsiasi elemento di un’immagine, non dipenda solamente dalle proprietà di quell’elemento, ma anche dalla sua interazione con altri elementi presenti nell’immagine e dalle nostre esperienze passate relative a immagini simili» (pp. 203-204).
Per esemplificare visualmente e con efficacia riportiamo uno schema dal volume (fig. 12.1, p. 210): si tratta della rappresentazione in tre stadi del comportamento dell’osservatore dell’opera d’arte – percezione, emozione, empatia:
Comportamento dell’osservatore – Contributo dell’ Osservatore
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Psicologia cognitiva – Rappresentazione mentale di percezione, emozione ed empatia
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Meccanismi cerebrali – Meccanismi cerebrali di percezione, emozione ed empatia
In sostanza, analizzare i meccanismi del cervello coinvolti nella percezione e nella correlativa emozione rispetto all’opera d’arte (ma ovviamente in qualsiasi altra coppia operativa percezione/emozione) necessita dell’ausilio della psicologia cognitiva.
Punto d’arrivo di queste riflessioni fra lo scientifico e l’artistico è il nuovo campo della neuroestetica che, unendo biologia e psicologia della visione, le rende operative nel campo delle arti visive. Come osserva ancora Kandel:
«Questo dialogo potrebbe aiutarci a capire meglio i meccanismi cerebrali che rendono possibile la creatività nell’arte, nelle scienze o nelle discipline umanistiche, e ad aprire una fase nuova nella storia intellettuale» (p. 497).
Un volume come L’epoca dell’inconscio rappresenta allo stesso tempo una mappa, una guida e un incitamento a percorrere con convinzione questa nuova pagina della storia della cultura. Kandel resta fedele alla lunga tradizione umanistico-scientifica di scuola anglosassone che tanto ha contribuito a illuminare il senso della permanenza dell’umanità nel mondo. Un mondo complesso e arduo, il cui futuro si mostra offuscato: una parte della nebbia d’ingiustizia ed egoismo sociale può però essere dissolta proprio dall’arte e dalla scienza, in stretto e democratico contatto.
Lugano (CH), Marzo 2014
* Ruggero D’Alessandro, laureato in legge e in scienze politiche, dottore di ricerca in sociologia, lavora come quadro nel settore sociale della pubblica amministrazione del Cantone Ticino (CH). Svolge attività di docenza presso l’università dell’Insubria (sede di Varese) e presso l’università “La Sapienza” di Roma (a.a. 2013-14). Autore dei volumi: La teoria critica in Italia, Roma, 2003, Breve storia della cittadinanza, Roma, 2006, Lo specchio rimosso. Individuo, società, follia da Goffman a Basaglia, Milano, 2008, La società smarrita, Milano, 2010, La teoria e l’immaginazione. Sartre, Foucault, Deleuze e l’impegno politico 1968-1978, Roma, 2010, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, Milano, 2011, Le messaggere epistolari femminili attraverso il ‘900. Virginia Woolf, Hannah Arendt, Sylvia Plath, Milano, 2012, Dal voto alla piazza. Partiti e movimenti nella società globale, Roma, 2013, Il genio precario. Per un ritratto di Walter Benjamin, Roma, 2013. Nel 2011 ha pubblicato il romanzo: La stagione delle sabbie. Ha pubblicato altresì contributi su volumi collettanei e riviste (tra cui “La Cultura”, “Critica marxista”, “Nuova Antologia”).
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17 aprile 2014 alle 18:00
Senz’altro si è trattata di un’epoca tanto interessante quanto enigmatica. Ricordo di esservi brevemente entrato in contatto quando redassi la mia tesi su Wittgenstein, che pure nacque in quella congerie.
Certo magari dal mio punto di vista sarebbe interessante andare a osservare in che modo gli artisti abbiano influenzato le ricerche psicologiche di quegli anni, più che il contrario. Dopo tutto credo che le ricerche scientifiche, al di là del materiale, non possano mai incidere granché a livello formale sullo sviluppo di un procedimento filosofico (persino i più grandi apologeti del positivismo di fatto tentano di “adottare” le scienze naturali come sotto tutela della loro filosofia, trovandosi per l’appunto nell’impossibilità di assoggettare la filosofia ad un discorso scientifico). In questo senso, di nuovo, non sarebbe più interessante andare a vedere in che modo i fenomeni culturali come sviluppo vitale dei concetti antropologici che ci animano influenzano poi l’immagine che ci facciamo di rappresentazioni come il cervello?
Da questo punto di vista credo che l’impostazione fenomenologica abbia dato qualcosa di inestimabile: quello che ci interessa davvero non è una spiegazione, ma una comprensione. Del resto, se anche fosse possibile mettere in relazione in modo conclusivo una data biochimica del cervello con la creatività artistica, non sarebbe ciò allo stesso livello dello spiegare in che modo la fisiologia della mano permette al pennello di essere maneggiato in un certo modo? L’essenziale ci sarebbe sfuggito del tutto.
PS Altra domanda che mi viene spontanea: perché questo signore dice che a partire da Freud si riconosce una struttura in gran parte “irrazionale” della mente? Io dalla mia lettura di alcuni suoi articoli mi ricordo in nuce la presenza di conclusioni molto diverse; se infatti l’inconscio si può ricondurre ad una dialettica di impulsi rimossi per ricostruire un’omeostasi fra essi e la nostra natura sociale, non vedo cosa ci sia di inintelligibile in questo processo (di fatto si aveva una concezione della mente molto più irrazionale proprio allorchè, razionalisticamente, si divideva il mondo in “ragione” e “sragione” – come ad esempio ha illustrato Foucault).