> di Andrea Sartori*
Florida State University – Tallahassee
Spring Semester 2014
Guest Lecture for the course
Readings in Contemporary Italian Literature and Culture
taught by Prof. I. Zanini Cordi
In un articolo pubblicato nel 1976 sulla rivista L’erba voglio fondata dallo psicoanalista Elvio Fachinelli (1928-1989), Mario Perniola individuava nell’eterno ritorno dell’uguale il tratto fondamentale (e paradossale) della differenza italiana. Secondo quella diagnosi, il Paese era bloccato – fin nel suo genoma culturale – nell’impossibilità di evadere dall’apparenza del cambiamento. Perniola dilatava pertanto l’amara constatazione di Tomasi di Lampedusa (1896-1957) – secondo la quale tutto deve cambiare perché tutto rimanga così com’è – a cifra interpretativa non solo dell’Italia unificata, ma delle sue radici culturali pre-risorgimentali, addirittura cinquecento-secentesche. Il barocco italiano, ad esempio, con la sua enfasi sulla mutevolezza delle forme e delle immagini – l’Adone di Giovan Battista Marino (1569-1625) venne pubblicato nel 1623 a Parigi – già preludeva nell’analisi di Perniola alla levità, alla leggerezza senza peso specifico d’una società che ben conosciamo. Un società, in altri termini, il cui immaginario doveva essere fagocitato a breve da un nuovo soggetto economico-politico, incentrato sul possesso e l’utilizzo dei mass-media (della televisione, in particolare). Non molti anni dopo il 1976 in cui uscì l’articolo di Perniola, il governo socialista presieduto da Bettino Craxi cedette di fatto, tra il 1984 e il 1985, il monopolio della televisione commerciale a Silvio Berlusconi – ponendo così le basi di un successo che l’imprenditore, a partire dal 1994, avrebbe sfruttato anche sul piano politico.
La «differenza italiana» di cui si parla oggi, in tempi ben più recenti, per lo meno a partire dall’omonimo saggio di Antonio Negri pubblicato nel 2005 per l’editrice Nottetempo, è di tutt’altro tenore. È davvero differente. E questo non solo perché, come accade nella ricostruzione di Negri, è stato in Italia che si è parlato di Operai e capitale (Mario Tronti, 1966) al di fuori della prospettiva d’una filosofia della storia di derivazione hegelo-marxista, o di differenza sessuale (Carla Lonzi, e successivamente Luisa Muraro, Adriana Cavarero), al di là della questione della parità giuridica, dell’uguaglianza dei diritti, tra uomo e donna.
Con Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Torino: Einaudi, 2010), Roberto Esposito ha infatti sostenuto che il carattere distintivo del pensiero italiano coincide con il suo essere originariamente orientato verso il proprio esterno, con l’essere a stretto contatto con ciò che propriamente non è pensiero: la politica, la storia, la vita stessa. Lo storico della filosofia italiana Eugenio Garin, non a caso, ha parlato di filosofia civile, a proposito della tradizione di pensiero risalente all’umanesimo e al Rinascimento italiani. Esposito, da parte sua, scrive che quell’attitudine civile, in Italia, si sposa con un’inclinazione del pensiero verso l’arte e l’espressione letteraria, fino a giungere a una sovrapposizione di stile e impegno, nella quale risiede «the unique propensity of Italian philosophy for the nonphilosophical» (R. Esposito, Living Thought. The Origins and Actuality of Italian Philosophy, Stanford: Stanford University Press, 2012, 11).
Ponendosi in relazione con il «non-filosofico», ovvero con le dimensioni di per sé non facilmente razionalizzabili della politica, della storia e della vita, la filosofia italiana si distingue pertanto sotto un triplice profilo dalla tradizione del pensiero moderno che risale a Cartesio (1596-1650) e che si rinnova con Immanuel Kant (1724-1804). Niccolò Machiavelli (1469-1527) sul piano politico, Giambattista Vico (1668-1744) su quello della comprensione della storia e della sua origine, Giordano Bruno (1548-1600) per quanto riguarda l’infinità (non più tolemaica) del cosmo e della vita che lo pervade, hanno secondo Esposito un visibile tratto comune. Tutti e tre hanno rappresentato l’antidoto più efficace a un pensiero del soggetto (sub-jectum) che ostinatamente si considera fondamento della realtà, sostrato immutabile del divenire del mondo sensibile, forma trascendentale incaricata di rendere conto della possibilità dell’esperienza.
Da questo punto di vista, la politica, la storia e la vita sono quell’esterno rispetto al pensiero, quel contenuto eccedente l’apriori della forma, che la globalizzazione economica sembrava avere messo ormai fuori gioco: con l’esclusione di un’alternativa al sistema capitalistico-liberale, con la fine della storia stessa (secondo la tesi di Francis Fukuyama), con l’amministrazione tecnologica e capillare del vivente. Proprio la disillusione rispetto alle promesse della globalizzazione, ha determinato il significativo ricomparire della differenza italiana nell’agenda del pensiero filosofico. L’esplodere della conflittualità politica (a livello nazionale e internazionale), il rimettersi in moto della macchina della storia (con il problema mai risolto della convivenza delle culture, della contemporaneità di arretratezza e sviluppo), assieme all’acuirsi della domande vitali che l’uomo pone alla scienza e alla tecnologia, hanno inclinato il pensiero nuovamente verso quegli autori – italiani – che della modernità non hanno mai avuto un’immagine trionfante e conciliatoria.
Per quanto riguarda la conflittualità del politico, ad esempio, l’Italia ha indubitabilmente dato il suo contributo di pensiero e di esperienza. Basti pensare alla contrapposizione – e alle sue successive metamorfosi – tra i maggiori partiti politici della storia repubblicana (il Partito Comunista e la Democrazia Cristiana), al dramma dell’8 settembre 1943 e alla tragedia della conseguente guerra civile, per risalire indietro fino all’origine stessa di una nozione moderna di politica. «Il “caso italiano”», ha scritto Dario Gentili, «ha (…) radici molto profonde: se è pur vero che nella seconda metà del Novecento, in Italia, politica ha significato, in prima istanza, prender partito, parteggiare per uno dei due – come li ha hegelianamente definiti Remo Bodei – “partiti etici”, il primato politico e la stessa anteriorità storica del partito rispetto allo Stato-nazione (o a qualsiasi altra Forma politica) trovano conferma già in Machiavelli, se non addirittura in Dante Alighieri» (D. Gentili, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica, Bologna: il Mulino, 2012, dall’ “Introduzione”).
Quello italiano, come sintetizza il titolo di un libro di Bodei, è un noi diviso (R. Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Torino: Einaudi, 1998), segnato da un’originaria scissione tra le parti, da una fondamentale partigianeria, che nel tempo ha assunto volti nuovi. Tra gli intellettuali comunisti del secondo dopoguerra, Alberto Moravia è stato sicuramente uno di quelli che per primi hanno avuto la percezione della non conciliabilità e della perdurante latenza di un conflitto in atto. Nel racconto “Luna di miele, sole di fiele” (1952), ad esempio, Giacomo avverte che il comunismo della neo-sposa Simona lo allontana da lui – indifferente alla politica – al punto da rendere preferibile, per lei, la conversazione con il compagno Livio: «soltanto due frati e due monache potevano avere, incontrandosi e discorrendo, quel tono» (“Luna di miele, sole di fiele”, 625).
Proprio la separazione politica, la contrapposizione aspra di idee non neutrali, capaci d’incidere – al pari d’una fede religiosa – anche sulla vita intima delle persone, è per Esposito l’eredità distintiva della politica italiana moderna. Ancora una volta, il pensiero filosofico è qui incentrato sulla differenza, anziché sull’identità, o meglio: esso individua una parte, un’identità, nella misura in cui confligge con un’altra parte, con un’altra identità: «The upshot of all this», scrive Esposito, «in Machiavelli’s case (…) was a philosophy that was non-neutral, and indeed completely foreign to the principle of neutralization around which modern political philosophy was gradually being constructed. This is a partisan (di parte) philosophy: not only does it participate in the issues posed by its living present as they arise, it is also partial in choosing from the fields imposed by its times» (R. Esposito, Living Thought, 46).
Niccolò Machiavelli nel capitolo XV del Principe (composto nel 1513), diceva di volere «to write something useful for anyone who understands it, [since] it seemed more suitable to me to search after the effectual truth of the matter rather than its imagined one». La «verità effettuale», nelle parole del Segretario fiorentino, si poneva quindi all’esterno del mero pensare, del puro e semplice immaginare concesso a un soggetto illusoriamente convinto d’essere fondamento del mondo e degli eventi contingenti della storia. Giorgio Inglese commentava così il passo di Machiavelli, dando implicito sostegno a quella che sarebbe stata la tesi di Esposito sulla prima delle differenze del filosofare italiano: «“verità effettuale” della storia è il conflitto», anzi «la storia non è animata dalla scelta fra bene e male, ma dall’alternativa fra “securtà” e “ruina”, fra vivere – nella lotta – o perire» (G. Inglese, “Il Principe – De principatibus – di Niccolò Machiavelli”, in Alberto Asor Rosa, edited by, Letteratura Italiana: Le Opere, Vol. I, Dalle Origini al Cinquecento, Torino: Einaudi, 1992, 901).
Se qui è il conflitto (politico) a fare differenza per il pensiero, è nella Scienza Nuova (terza edizione rivista nel 1744) di Giambattista Vico, che va rintracciato il secondo elemento caratterizzante la filosofia italiana, capace di resistere al formalismo intellettuale: la storia non si libera mai compiutamente dell’origine da cui essa proviene, né l’uomo può disfarsi dell’animalità che caratterizza anche le sue prestazioni (mentali, culturali) più evolute. Scriveva Vico che le menti umane, all’origine, «were not in the least abstract, refined, or spiritualized, because they were entirely immersed in the senses, buffeted by the passions, buried in the body» (G. Vico, Scienza Nuova, § 378). Una traccia dell’origine magmatica, corporea e indifferenziata da cui proviene l’uomo, è per Vico conservata nell’uso che il linguaggio ordinario fa delle metafore: «in all languages the greater part of the expressions relating to inanimate things are formed by metaphors from the human body and its parts and from the human senses and passions» (G. Vico, Scienza Nuova, § 405). La persistenza del corporeo nel linguaggio, dell’animalità impersonale dell’origine, da cui prende le mosse la storia, indica che la filosofia italiana può trovare nella propria tradizione gli anticorpi necessari a contrastare alcune mode di pensiero, oggi ormai vulnerabili al discredito. Tra queste va senz’altro menzionata l’idea che la realtà sia interamente esauribile nel linguaggio che la descrive (una tesi in linea generale riconducibile a Richard Rorty, 1931-2007), e che nulla esista al di fuori del testo scritto (secondo la vulgata del pensiero di Jacques Derrida, 1930-2004), neppure – per alcuni – gli oggetti naturali, come le montagne, le pietre e i fiumi! In questi esiti della filosofia contemporanea, è evidente che il linguaggio da un lato, il testo dall’altro, hanno assunto su di sé l’oneroso compito di sostituire il soggetto pensante nella sua funzione, se non di fondare, di rendere perlomeno minimamente intelligibile il mondo.
È però il pensiero di Giordano Bruno, espresso in particolare in opere come De la causa, principio et uno, e De l’infinito, universo e mondi (entrambi pubblicati nel 1584), a esporre la terza differenza della filosofia italiana, e a consentire a Esposito di sondare un terreno di dialogo con un altro filosofo italiano particolarmente apprezzato negli USA, Giorgio Agamben. Giordano Bruno, in rottura con la dottrina ufficiale della Chiesa, sosteneva che all’origine dell’universo non vi fosse un Dio personale e creatore, ma il principio infinito della vita. Nel secondo dialogo del De l’infinito, Bruno effettua un passaggio teorico che gli varrà l’accusa di eresia: l’identificazione tra la possibilità e la realtà, tra la potenza (power, potency) e l’atto (act), i due distinti concetti cardine della metafisica di Aristotele (IV sec. a. C.). Dio, se al momento della creazione dovesse fare passare dalla potenza all’atto gli oggetti del proprio pensiero, non sarebbe infinito, poiché la sua potenza – il campo delle sue possibilità – avrebbe fuori di sé l’attualità, la realtà, delle creature. Scrive Bruno: «the power to create implies the power to be created (il posser fare pone il posser esser fatto)». Esposito commenta: «For God to imagine a distinction between himself and his object, or even between himself as knower and himself as known – as the paradigm of person entails – would introduce untenable elements of insufficiency and dissociation into his highly simple intelligence» (R. Esposito, Living Thought, 60). Per questo motivo, secondo Giordano Bruno, Dio ha bisogno del mondo come il mondo ha bisogno di Dio, e quindi «the self-realization of the divine is not a Person but the world» (R. Esposito, Living Thought, 60).
Il nome che Bruno attribuisce a questa identità di Dio e mondo, possibilità e realtà, potenza e atto, è Vita. L’impersonalità della vita – come d’altra parte l’indistinzione originaria della ingens sylva popolata di bestioni di cui parla Vico – permette a Esposito di formulare in maniera originale il concetto di comunità. Egli lo pensa, infatti, a partire dall’espropriazione della capacità fondativa del soggetto, di un Dio personale e del pensiero stesso. Ciascuno di questi tre termini, nel momento in cui costruisce, fa, produce, è al tempo stesso costruito, fatto e prodotto, già da sempre parte della dimensione sovra-individuale di una communitas, in cui ogni realtà non si chiude in se stessa, ma si apre sempre e di nuovo al possibile («il posser fare pone il posser esser fatto»). «It is here», scrive Esposito, « – in this “disbelonging” of each with respect to the all, in this lack of distinction that causes bodies to be confused with one another and humors to be mixed – that life has its beginnings, expressing its expansive potency to the maximum» (R. Esposito, Living Thought, 78).
Giorgio Agamben da tempo indaga le implicazioni del concetto di «potenza» per il pensiero e la vita, esaminando due luoghi fondamentali della filosofia di Aristotele: il libro IV della sua Metafisica e il De Anima. Se il pensiero è essenzialmente «potenza» (nel senso già preso in considerazione di possibilità), quali sono le conseguenze di ciò per l’essere vivente? Quel che Agamben mette in evidenza in Aristotele, è che «potenza» non ha nulla a che fare, alla sua origine, con il concetto di forza. La potenza è qui sinonimo di incompiutezza, privazione, difetto, mancanza. Per Aristotele, nella lettura di Agamben, «power (potenza), insofar as it determines a privation, as power (potenza) not to do and not to be, cannot be assigned to a subject as a right or a property» (G. Agamben, “The Power of Thought”, Critical Inquiry, Vol. 40, n. 2, Winter 2014, pp. 480-491, qui 487). Come per Esposito, la potenza non appartiene a un soggetto, non è un suo possesso, anzi, proprio della potenza è il non appartenere a un individuo specifico, essa è veicolo di «disbelonging», non di proprietà. Secondo una formulazione simile e complementare, Agamben sostiene che «power (potenza) is that which welcomes and lets happen nonbeing and this welcoming of nonbeing defines power (potenza) as fundamental passivity and passion (…). Every human power (potenza) is, co-originally, powerless (impotenza); every ability to be (poter-essere) or do is, for man, constitutively in a relation to his own privation» (G. Agamben, “The Power of Thought”, 487).
Un altro filosofo italiano critico della violenza implicita nella nozione di soggetto è Gianni Vattimo (“Metaphysics, Violence, Secularization”, G. Borradori, edited by, Recoding Metaphysics, Evanston, IL: Northwestern University Press, 1988, pp. 45-61). Sia pur tracciando una genealogia differente e da quella di Esposito (Machiavelli, Vico e Bruno), e da quella di Agamben (Aristotele), Vattimo è giunto a teorizzare la debolezza del pensiero. Ad essere indebolito, e quindi propriamente non superato, non messo da parte, non criticato, è in questo caso il pensiero della metafisica tradizionale, risalente per lo meno a Platone e tramandatosi in forme diverse lungo la filosofia moderna da Cartesio, a Kant e Hegel. Concetti tradizionali come quelli di essenza, idea, universale, soggetto e fondamento, pur venendo colti da Vattimo nella loro natura violenta verso il particolare, il contingente, l’individuale, non sono criticati al punto di forgiare nuove figure del pensare come quelle dell’impersonale di Esposito o della passività radicale di Agamben. L’annuncio della morte di Dio formulato a suo tempo da Friedrich Nietzsche (1844-1900), è stato preso in parola da Vattimo solo per metà. Egli si rivolge piuttosto a Martin Heidegger (1889-1976) e all’idea secondo cui, a partire dalla celebre Lettera sull’umanismo (1947), il nichilismo della società della tecnica, che mette all’opera quelle categorie violente della metafisica tradizionale, è un male necessario, di più, è un destino. Vattimo, coerentemente con alcune intuizioni di Heidegger, cessa di cercare una vita d’uscita dal nichilismo della società contemporanea (a dire il vero di tutta la storia dell’Occidente) e viene a patti con quello stesso nichilismo. L’idea alla base della sua «ontologia dell’attualità» è che l’attualità stessa, il presente di un’età nichilista, fornisce, se vi sono, le risorse per correggere dall’interno la modernità (G. Vattimo, “Ontology of Actuality”, in S. Benso e Brian Schroeder, edited by, Contemporary Italian Philosophy. Crossing the Borders of Ethics, Politics and Religion, New York: State University of New York Press, 2007, 89-107). Un pensiero come quello della passività radicale nei termini di Agamben, o dell’«impersonale» di Esposito, nella misura in cui riconfigurano un nuovo senso del «possibile» e della «potenza», si pongono invece, rispetto alla modernità, in un rapporto di maggiore antagonismo, se non di rottura.
Il pensiero debole di Vattimo – ovvero la convinzione che la violenza della metafisica sia inviata all’uomo direttamente dall’essere, e che tutt’al più possiamo sperare in suo, ambiguamente salvifico, indebolimento – è stato recentemente interpretato come pensiero della rassegnazione. Se ritorniamo al dilemma di partenza che nel 1976 turbava Mario Perniola – ovvero che peculiare dell’Italia è l’impossibilità del cambiamento e quindi l’accettazione acritica dell’esistente – notiamo che Vattimo potrebbe essere considerato come colui che ha fornito – da sinistra – l’impalcatura ideologica (anzi, filosofica) che ha sostenuto l’avventura italiana dagli anni ’80 a oggi (l’antologia Il pensiero debole, curata con P. A. Rovatti, è del 1983, e a essa prese parte tra gli altri anche Umberto Eco).
Alessia Ricciardi – che individua appunto nella rassegnazione la cifra del pensiero debole – stigmatizza tra i vari aspetti di quella moda di pensiero, il livellamento della distinzione gerarchica tra una cultura “alta” e una cultura “bassa”, e la celebrazione dell’assenza di punti solidi di riferimento – nella cultura e nella vita – come una grande chance di liberazione per l’uomo. In questo modo, secondo Ricciardi, il pensiero italiano avrebbe cessato di essere critico, finendo per adagiarsi nell’acquiescenza nei confronti di ciò che già esiste: «Eco’s message, which Vattimo helps to reinforce, is that the society of technologically advanced communication ought be neither feared nor criticized, but rather merely studied with regard to its evolving epistemological modes» (A. Ricciardi, After La Dolce Vita. A Cultural Prehistory of Berlusconi’s Italy, Stanford: Stanford University Press, 2013, 126). Il marinismo individuato da Perniola all’epoca della (breve) vita della rivista di Elvio Fachinelli, e considerato distintivo dell’incipiente società dello spettacolo, avrebbe così trovato, secondo Ricciardi, in Vattimo ed Eco i suoi teorici più convinti e acritici.
L’Italia, tuttavia, ha conosciuto nel ‘900 altri modi di affrontare il differire del suo pensiero, vale a dire la conflittualità politica, la violenza della storia, le ragioni oscure e confuse del vivere, che Machiavelli, Bruno e Vico avevano molto tempo fa affrontato, dando un’impronta decisiva, non del tutto smarrita, alla filosofia che giunge a noi.
Aldo Capitini (1899-1968), il Gandhi italiano, ha esercitato prima e dopo la seconda guerra mondiale un importante magistero incentrato sull’educazione alla non violenza. Un magistero che non è andato perduto neppure durante la guerra civile scaturita dall’armistizio dell’8 settembre 1943, una data alla quale spesso gli italiani ritornano quando vanno in cerca dei propri “fondamentali”. Antonio Giuriolo (1912-1944), capitan Toni degli Alpini, non solo è stato ricordato da Norberto Bobbio (1909-2004) per le sue scelte in favore della non violenza (N. Bobbio, Maestri e compagni, Firenze: Passigli, 1984), ma è stato inserito fra I piccoli maestri (1964) ai quali Luigi Meneghello (1922-2007) ha riconosciuto il proprio debito di formazione civile, ed è stato adombrato nel protagonista di un tardo romanzo resistenziale, oggi perlopiù dimenticato, scritto dal vicentino Antonio Barolini (1910-1971, Le notti della paura, Milano: Feltrinelli, 1967). Tra queste ultime pagine, la vicenda di Giuriolo – esemplare di un modo non violento di vivere la lotta partigiana, di una potenza che sovranamente opta per una passività radicale – viene seguita fino alla decisione fatale, e sacrificale, di resistere senza armi. Ciò va menzionato, se non altro, perché vi sono modi diversi di agire la potenza e l’impotenza, il conflitto e la resistenza, ripudiando sia la violenza sia la resa di qualunque atteggiamento (o pensiero) critico. Antonio Giuriolo, nel 1998, ha assunto il volto di Marco Paolini nel film che Daniele Lucchetti ha tratto da I piccoli maestri di Meneghello.
Riferimenti (parziali):
– Agamben, Giorgio, “The Power of Thought”, Critical Inquiry, Vol. 40, n. 2, Winter 2014, pp. 480-491.
– Barolini, Antonio, Le notti della paura (Milano: Feltrinelli, 1967).
– Bobbio, Norberto, Maestri e compagni (Firenze: Passigli, 1984).
– Bodei, Remo, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana (Torino: Einaudi, 1998).
– Esposito, Roberto, Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Torino: Einaudi, 2010), transl. Living Thought. The Origins and Actuality of Italian Philosophy (Stanford: Stanford University Press, 2012).
– Gentili, Dario, Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (Bologna: il Mulino, 2012).
– Inglese, Giorgio, “Il Principe – De principatibus – di Niccolò Machiavelli”, in Alberto Asor Rosa, edited by, Letteratura Italiana: Le Opere, Vol. I, Dalle Origini al Cinquecento (Torino: Einaudi, 1992).
– Ricciardi, Alessia, After La Dolce Vita. A Cultural Prehistory of Berlusconi’s Italy (Stanford: Stanford University Press, 2013).
– Vattimo, Gianni, “Metaphysics, Violence, Secularization”, in G. Borradori, edited by, Recoding Metaphysics (Evanston, IL: Northwestern University Press, 1988), pp. 45-61.
– Vattimo, Gianni, “Ontology of Actuality”, in S. Benso e Brian Schroeder, edited by, Contemporary Italian Philosophy. Crossing the Borders of Ethics, Politics and Religion (New York: State University of New York Press, 2007), pp. 89-107.
* Andrea Sartori (1972), laureato in filosofia a Venezia, un master in comunicazione digitale a Milano, ha studiato anche a Regensburg e Freiburg im Breisgau. Giornalista freelance, ha pubblicato articoli su Hegel, la teoria critica francofortese e l’antropologia filosofica per riviste come “La società degli individui”, “Teoria”, “Fenomenologia e società”, “Quaderni di teoria sociale”, “Il Ponte”, “Alfabeta2″, “La poesia e lo spirito”. Nel 2012 il suo romanzo filosofico Scompenso, Exòrma (Roma), ha ottenuto una menzione speciale al premio Perelà.
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