Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Jean Améry e la fenomenologia del male

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> di Massimo Carloni*

«Ho vissuto l’inesprimibile»

Cos’è il male? E soprattutto, come si manifesta nella realtà umana? Azzardiamo una definizione, per così dire, esistenziale. Il male è quella particolare condizione umana caratterizzata da una progressiva negazione della libertà individuale, che blocca o limita la possibilità di progettarsi nel mondo, di sottrarsi all’inerzia pietrificata di ciò che si è, culminante nella definitiva soppressione della persona ad opera della morte. Una tale condizione può essere determinata da un dolore fisico o da una sofferenza morale; può provenire dall’esterno o consumarci dall’interno; può emanare da una volontà individuale o collettiva, ovvero da un meccanismo sociale impersonale. Il risultato, tuttavia, non cambia. La sfera della libertà personale risulta compromessa, subisce una contrazione, fino a collassare su se stessa.

Prima ancora d’interessare l’ambito morale, metafisico o religioso, il problema del male è prima di tutto una questione essenzialmente fisica. Il corpo, in quanto veicolo della libertà umana, diventa lo scenario in cui il male dispiega la propria azione distruttiva. Dotato di un apparato sensoriale vulnerabile alle sollecitazioni sia esterne che interne, il corpo, da una parte, è il bersaglio privilegiato della violenza, dall’altra, con il decadimento fisiologico, diventa produttore del proprio dolore, come una sorta di torturatore di se stesso.

Jean Améry[1] è stato un testimone diretto, quanto mai lucido e prezioso, delle manifestazioni del male: dalle più atroci, perpetrate dall’uomo sui propri simili, a quelle cosiddette naturali, quali la malattia, la vecchiaia e la morte, sino alla paradossale soluzione che induce l’individuo a «levare la mano su di sé». Intrecciando mirabilmente esperienza personale e analisi fenomenologica, Améry conferisce ai suoi scritti letterari e saggistici, il tono inconfondibile dell’autenticità, della verità vissuta, così da farli apparire come altrettanti capitoli d’una lunga, amara autobiografia.

1. La tortura o la sovranità assoluta dell’altro

Il male non è mai banale, o, quantomeno, è tale solo se lo si osserva dall’esterno, in vitro per così dire. Ma una tale rappresentazione non ha nulla a che vedere con la realtà psicofisica della sofferenza. Solo chi ne ha sperimentato la crudeltà in prima persona, chi, in altre parole, è stato degradato al ruolo di vittima, può legittimamente renderne conto. Da un lato c’è il lavoro intellettuale, il tentativo di sussumere in categorie filosofiche astratte un fenomeno di per sé aberrante; dall’altro, c’è la testimonianza d’una memoria offesa, d’un uomo spogliato della propria dignità, ridotto a pura essenza corporale, che porterà per sempre, impressi sul volto ed incisi nella carne, i segni indelebili del dolore.

Sarebbe oltremodo ridicolo rivendicare orgogliosamente qualcosa che non si è fatto, ma solo subìto. E’ piuttosto con un senso di vergogna che faccio valere e comprendere il mio triste privilegio: è vero che la catastrofe come punto di riferimento esistenziale vale per tutti gli ebrei, tuttavia solo noi, le vittime, siamo in grado di spiritualmente rivivere e anticipare quell’avvenimento catastrofico. Non sia impedito agli altri di immedesimarsi. Riflettano su un destino che ieri avrebbe potuto e domani potrà essere il loro. I loro sforzi spirituali godranno del nostro rispetto, ma sarà un rispetto minato da scetticismo, e nel corso del dialogo ben presto ammutoliremo e tra noi e noi diremo: coraggio, brava gente, datevi da fare quanto volete, ma discorrerete sempre come un cieco può discorrere del colore[2].

Prima di poter rivendicare il «triste privilegio» della vittima, Jean Améry si trovava tuttavia dall’altra parte, era un intellettuale come tanti, vale a dire, secondo la sua «riduttiva» ed autobiografica definizione:

“un essere umano che vive all’interno di un sistema di riferimento che è spirituale nel senso più vasto. L’ambito delle sue associazioni è essenzialmente umanistico o filosofico. Ha una coscienza estetica bene sviluppata. Per tendenza e attitudine è portato al ragionamento astratto. Ad ogni occasione gli si propongono catene associative dalla sfera della storia del pensiero [] Il termine “società” non lo intende in senso mondano, ma sociologico. Il fenomeno fisico che porta al corto circuito non lo interessa… [3]

Essendo cresciuto a Vienna in una famiglia ebraica integrata, le radici semitiche per Améry non erano una condizione innata, salvo diventare, malgré lui, forzatamente acquisite attraverso quel cataclisma giuridico rappresentato dalle leggi di Norimberga, promulgate nel 1935. Imbevuto di cultura tedesca, lui, che era «senza dio, senza storia, senza speranza di ordine messianico-nazionale»[4], si sentì improvvisamente trasformato ex lege in ebreo a tutti gli effetti, e, come tale, privato della dignità umana. In quelle leggi riecheggiava l’urlo militaresco di condanna che circolava già nelle strade del Reich: Juda verrecke! [crepa giudeo!]. Da quel momento visse come braccato, «in balia della morte»[5], o meglio, in pratica «un morto in licenza»[6]. La messa al bando giuridica sarà il primo gradino della sua personale discesa agli inferi, l’iniziale colpo inferto alla sua fiducia nel mondo, che non tarderà a sortire i suoi macabri effetti.

Améry accetta la verità fattuale ed impossibile ad un tempo, di essere giuridicamente un ebreo. Fattuale, perché imposta da una necessità esterna, da una volontà sociale – espressa in questo caso dal Volkgeist tedesco, incarnatosi storicamente nel nazismo. Impossibile, perché interiormente non può aderire alla comunità storico-religiosa ebraica che non sente sua: «Con gli ebrei in quanto ebrei non condivido quasi nulla: non la lingua, non la tradizione culturale, non i ricordi dell’infanzia»[7]. Per descrivere la propria condizione di «non non-ebreo», è costretto quindi a ricorrere a perifrasi paradossali: «Così anch’io sono proprio ciò che non sono prima di ogni altra cosa, perché non lo ero, prima di diventarlo: un ebreo»[8].

Incassato il verdetto di condanna che pende sul suo capo, Améry non si scoraggia, anzi, pur non essendo per indole un eroe, sceglierà la libertà, il che, in termini sartriani, equivale a trascendere la fatticità della sua condizione, percorrendo la via della ribellione. La chiamerà: «la capacità di ribattere il colpo» (Zurückschlagen)[9]. Tale imperativo morale, non meno che fisico, si sostanzia, da una parte, nell’accettazione lucida e senza sconti della realtà del male, quale annientamento che incombe sulla vita, dall’altro, nella rivolta indomita che lo spinge ad affrontare di petto l’irreparabile, pur nella certezza della sconfitta finale.

Essere ebreo significava da un lato accettare come universale la condanna a morte pronunciata dal mondo, condanna di fronte alla quale la fuga nell’interiorità sarebbe stata solo vergogna, e dall’altro ribellarsi fisicamente alla stessa. Divenni essere umano non facendo interiormente appello alla mia essenza umana astratta, ma ritrovandomi e realizzandomi completamente nella dimensione dell’ebre o che si ribellava nella concreta realtà sociale[10].

In seguito all’Anschluss dell’Austria, Améry si rifugia in Belgio dove si unisce ad un’organizzazione di lingua tedesca che fiancheggia il movimento della Resistenza. Trovato in possesso di materiale propagandistico antinazista, viene arrestato dalla Gestapo e sottoposto ad interrogatorio per estorcergli una confessione. Qui, si verifica un avvenimento capitale: ad Améry viene inflitta la prima percossa. Benché non sia paragonabile alla tortura vera e propria, la percossa – senza possibilità di difesa e di soccorso – ne è a tutti gli effetti un preliminare, rivelandosi, per chi la subisce, un’esperienza decisiva. Costui infatti varca la soglia di un mondo a parte, che presenta i contorni d’un incubo in cui tutto può accadere…

Con la prima percossa il detenuto si rende conto di essere abbandonato a sé stesso: essa contiene in nuce tutto ciò che accadrà in seguito. Dopo il primo colpo, la tortura e la morte in cella – eventi dei quali magari sapeva senza tuttavia che questo sapere possedesse vita autentica – sono presentite come possibilità reali, anzi come certezze. Sono autorizzati a darmi un pugno in faccia, avverte la vittima con confusa sorpresa, e con certezza altrettanto indistinta ne deduce: faranno di me ciò che vogliono[11].

La violenza fisica perpetrata sul corpo del prigioniero inerme, segna la violazione di quel confine invalicabile, al tempo stesso fisico e metafisico, delimitato dalla pelle. Da acuto fenomenologo Améry sa che «I confini del mio corpo sono i confini del mio Io. La superficie cutanea mi protegge dal mondo esterno»[12] Una volta infranto quel limite, la fiducia nel mondo e nell’altro, viene improvvisamente meno. Il contratto sociale non scritto garantisce che il prossimo rispetterà la mia integrità fisica, che, mentre cammino per strada, da lui non dovrò attendermi colpi bassi o attacchi alle spalle, altrimenti la vita quotidiana, simile all’hobbesiana bellum omnium contra omnes, sarebbe praticamente impossibile. La dignità individuale e la vita sociale si reggono sull’ingiunzione noli me tangere, poiché, in definitiva «se devo aver fiducia, sulla pelle devo sentire solo ciò che io voglio sentire»[13].

Condotto a Fort Breendonk – un Auffanglager governato dalle SS – Améry sente di essere giunto in capo al mondo… Qui, nella famigerata Geschäftszimmer, è sottoposto a tortura. Appeso ad un gancio, le braccia ammanettate e sollevate dietro, viene ripetutamente colpito a nerbate. Rimane penzoloni, con gli arti slogati. Simile ad una bestia da macello, ridotto ad una pura res extensa che patisce e geme, il torturato esperisce come non mai la sua essenza corporale:«nella tortura il farsi carne dell’uomo diventa completo»[14]. Scopre che il male è innanzitutto un affare del corpo, una questione fisica che monopolizza tutto il nostro essere. In condizioni di salute, il corpo non viene percepito dalla coscienza, essendo il veicolo attraverso cui questa trascende la propria fatticità progettandosi nel mondo. Nel dolore acuto tuttavia, il rapporto si ribalta, è la coscienza, totalmente assorbita dal patire, ad inabissarsi nel corpo, il quale da veicolo, si trasforma in ostacolo insuperabile. In altre parole, l’uomo scopre la carnalità come limite estremo del proprio essere.

Alla riduzione carnale della vittima fa da contraltare la sovranità assoluta del torturatore. Chi è costui? si chiede Améry. Che cosa lo lega al suppliziato? Ai tempi dell’Inquisizione, perlomeno, una certa dottrina teologica del mondo giustificava la tortura quale strumento di purificazione dell’anima del peccatore. L’aguzzino e il condannato erano confermati, nei loro rispettivi ruoli, da una comune Weltanschauung. Ma oggi, essi risultano più che mai estranei l’uno all’altro. I torturatori nazisti erano solo dei «piccoli borghesi imbarbariti», dei banali burocrati del terrore, come vorrebbe Hannah Arendt? No, alla spiegazione della macchina totalitaria Améry preferisce la categoria del sadismo, mutuata da Bataille, ed intesa quale filosofia del male, che si manifesta nel radicale annientamento dell’altro. Basato sull’autolimitazione della propria libertà individuale e sul rispetto dell’altrui, il principio di realtà è completamente sovvertito dal sadico. L’universo del torturatore è un inferno senza domani, perché non può sussistere un mondo mosso unicamente dall’adagio nichilista: anniento, dunque sono. In questo senso, e non come patologia sessuale, il sadismo si pone quale elemento caratterizzante del nazionalsocialismo, «parto di cervelli malati e di sistemi emozionali pervertiti»[15]. L’autentico seguace del Fürer doveva saper torturare ed uccidere a sangue freddo, secondo le parole terrificanti di Rudolf G. Binding:  «Noi tedeschi siamo eroici nel sopportare l’altrui sofferenza»[16].

La categoria del totalitarismo non spiega perché a livello psicologico-esistenziale un semplice funzionario subalterno assurga ad arbitro della vita e della morte. Agisce qui un senso d’onnipotenza, una furia demolitrice che spoglia la vittima della sua individualità, spingendolo fuori dal mondo, verso il grado zero dell’organico. Attraverso la tortura, il sadico prova piacere nel soffocare la libertà del suppliziato, ridotto ad un puro oggetto totalmente asservito alla propria crudele sovranità. Così, per motivi opposti, sia il torturatore che la vittima, scivolano fuori dell’umano…

Quando furono stanchi di torturare, quei tali di Breendonk si accontentarono della sigaretta e sicuramente lasciarono in pace il vecchio Schopenhauer. Non per questo il male che mi avevano inflitto era banale. Erano, se si vuole, degli ottusi burocrati della tortura. E tuttavia erano anche molto di più, lo capivo dai loro volti seri, tesi, non certo enfiati dal piacere sessuale sadico, bensì concentrati nell’autorealizzazione omicida. Con tutta l’anima svolgevano il loro incarico che implicava potere, dominio sullo spirito e sulla carne, trasgressione nell’illimitata autoespansione. Non ho dimenticato anche che vi furono momenti in cui provai una vergognosa ammirazione per la torturante sovranità che esercitavano sulla mia persona. Chi è in grado di ridurre un uomo così completamente a corpo e a piagnucolante preda della morte, non è forse un dio o almeno un semidio?[17]

Lo stupore in negativo di Améry si articola, in primo luogo, nella meraviglia per il fatto che l’altro possa elevarsi ad un potere così illimitato, addirittura mostruoso. In secondo luogo, nell’acuta consapevolezza circa la vulnerabilità della nostra vita spirituale, destinata ad evaporare non appena il sostrato fisico che la sostiene va in frantumi. La tortura non fa che affrettare, in maniera brutale e parossistica, quella riduzione dell’individuo a mero fascio di funzioni biologiche, incapace di trascendersi nel mondo e votato alla morte, che ognuno sperimenterà per proprio conto nel graduale processo d’invecchiamento.

Una leggera pressione della mano avvezza all’uso dello strumento di tortura è sufficiente per trasformare l’altro, compresa la sua testa, nella quale magari sono conservati Kant e Hegel e tutte le Nove sinfonie e «Il mondo come volontà e rappresentazione», in un maialetto che urla terrorizzato mentre viene portato al macello[18].

Ma, si dirà, se non sopravviene la morte, la tortura e il dolore prima o poi cessano. Già, e così accadde anche ad Améry. Nondimeno il torturato che sopravvive rimane tale: «Penzolo ancora, ventidue anni dopo, con le braccia slogate, ansimo e mi autoaccuso. Nessuna ‘rimozione’ è possibile… Della tortura non ci si libera»[19]. Per il martoriato la fiducia nel prossimo è definitivamente compromessa, dietro ogni sguardo che incontra per strada si cela quello d’un potenziale aguzzino o d’un futuro collaborazionista. Sopravvissuto ad una catastrofe, Améry è sensibilissimo ai segni dei tempi che annunciano la prossima. In altre parole: il mondo non sarà mai più suo. Al «Principio Speranza» di blochiana memoria, che un tempo guidava la sua vita, subentra ora quello dell’Angoscia.

2. Auschwitz e l’impotenza del pensiero

Una volta torturato a dovere – «Tortura, dal latino torquere», ci ricorda Améry, e nel suo caso l’etimologia è la cosa designata – e assicuratasi che non avesse informazioni utili, la Gestapo degradò Améry da prigioniero politico ad ebreo, e come tale fu spedito ad Auschwitz. Il cambiamento era più formale che sostanziale. Il sistema dei campi di sterminio, infatti, non è che l’applicazione della logica della tortura su scala industriale, con l’aggiunta dello sfruttamento produttivo delle vittime. Privo d’abilità professionali, Améry venne utilizzato in pesanti attività di manovalanza forzata, nel campo di lavoro secondario (Nebenlager) Auschwitz-Monowitz[20].

Nel capitolo Ai confini dello spirito, Améry si propone di analizzare l’esperienza di un intellettuale posto in una situazione esistenziale estrema, come quella d’internamento in un campo di concentramento, al fine di «avvalorare la realtà e l’efficacia del suo spirito, ovvero di dichiararle nulle»[21].

Il primo svantaggio selettivo, riguarda le condizioni esteriori in cui l’intellettuale si trova a vivere, vale a dire la questione del lavoro. Chi era in possesso di capacità manuali o tecniche, era di norma favorito, perché veniva inquadrato ed utilizzato in base al proprio mestiere, consentendogli di lavorare in condizioni ambientali quantomeno sopportabili. Ingrata era invece la sorte riservata all’uomo d’ingegno, portatore d’un sapere per definizione inutilizzabile in un campo di lavoro. Classificato nel Lumpenproletariat come operaio non qualificato, l’intellettuale era condannato a spostare sacchi di cemento, scavare buche, trasportare pesi, sempre all’aperto, in preda alle intemperie e alle angherie dei Kapo. La scarsa propensione allo sforzo fisico, unita alla poca destrezza nell’armeggiare attrezzi, lo rendevano inoltre particolarmente inabile al lavoro pesante, col rischio che venisse eliminato dal processo produttivo e destinato direttamente alle camere a gas[22].

Al di là del lavoro, la vita del campo richiedeva una vigoria fisica e un ardimento notevoli, vuoi per difendersi dagli attacchi degli altri prigionieri, vuoi per procacciarsi il cibo. In un ambiente in cui la morale è bandita e l’istinto di conservazione regna incontrastato, l’abitudine allo scontro fisico, o comunque, la capacità di assestare un pugno, si rivelavano risorse ben più decisive rispetto alla capacità dialettica o al coraggio spirituale nel sostenere un’opinione. Chi nella propria professione civile era solito lavorare di concetto, doveva violentarsi interiormente per adattarsi al gergo del campo, brutalmente mutilato secondo lo stile da caserma. L’abitudine a linguaggi più sofisticati, generava un’incomunicabilità che isolava ulteriormente l’intellettuale dagli altri prigionieri comuni. Nel caso di Améry lo smacco era doppio, poiché vedeva la sua lingua – quella onorata da Hölderlin, Goethe, Thomas Mann – oltraggiata ed espropriata dai nazisti.

Ma se la cultura non aiutava l’uomo d’ingegno nella vita pratica del campo, era in grado perlomeno di sostenerlo moralmente nei momenti di difficoltà? Le reminescenze poetiche o estetiche, che ogni tanto riaffioravano alla sua memoria, erano soffocate dalle grida dei Kapo, o finivano per raggelarsi a contatto con l’aria nauseabonda del campo, impregnata di morte. Ora, lo spirito, che per sua natura tende a superare la mera immediatezza bruta del dato verso una comprensione più alta, era completamente disarmato di fronte alla realtà del lager, che s’imponeva con una cogenza praticamente insormontabile. La cruda vita del campo era una prova essenzialmente fisica, ed esigeva delle risposte corporali e non intellettuali. L’amara constatazione dell’uomo di spirito era quindi che «La poesia non trascendeva più la realtà»[23].

Ogni tentativo d’instaurare una qualche forma di complicità spirituale, foss’anche con un filosofo – come capitò ad Améry con un professore della Sorbona – era destinato a fallire miseramente. In un orrore simile, qualsiasi dialogo intellettuale finisce per apparire «irreale»[24]. La morale, la logica, le questioni metafisiche sull’Ente e l’Essere, erano affare dell’altro mondo; ad Auschwitz, tuttavia, non avevano corso, apparivano totalmente fuori luogo, addirittura «un lusso vietato». Qui, il problema non era tanto l’Ente nella sua differenza con l’Essere, quanto piuttosto «essere affamati, essere stanchi, essere ammalati»[25]. Di fronte all’eccesso del male, anche la filosofia voltava le spalle, dichiarando la propria bancarotta…

Al pari dei muri muti e delle banderuole che stridono al vento della poesia, anche le asserzioni filosofiche smarrivano la loro trascendenza e di fronte a noi si trasformavano in parte in constatazioni oggettive, in parte in vacuo cicaleccio: dove ancora significavano qualcosa, apparivano banali, e dove non erano banali, non significavano più nulla. Per riconoscere questo stato di cose non necessitavamo di alcuna analisi semantica né di una sintassi logica: era sufficiente vedere le torrette di guardia, sentire l’odore di grasso bruciato proveniente dai crematori[26].

All’intellettuale agnostico e scettico, qual’era Améry, viene meno anche quel conforto ideologico che si fonda sull’avvento d’un millenarismo religioso o politico. La fede, sia essa rivolta a Dio o a Stalin, rimane comunque una riserva di forza psicologica, aumenta la capacità di sopportare le tragedie presenti tramite la promessa del riscatto futuro. Lo spirito critico, viceversa, smonta analiticamente la realtà, riducendola alle sue componenti essenziali e rivelandone il meccanismo interno. In altre parole, rende i fenomeni trasparenti svelando le condizioni e le leggi del loro apparire. Il primo impatto d’una tale forma mentis con la realtà del lager era solitamente devastante. Se nel mondo civile il pensiero era impiegato per la conservazione della vita, nella realtà perversa di Auschwitz la razionalità era al servizio dell’annientamento e della morte. Per forza di cose, alla fine, l’intellettuale doveva accondiscendere alla logica delle SS, accettando che «poteva esistere ciò che non deve esistere»[27]. Del resto, nell’universo concetrazionario di Auschwitz, non si poneva neppure la questione etica del dover essere. Lo scettico, disarmato, si piegava all’adagio hegeliano secondo cui: «Il reale è razionale», accettando che persino lo stato nazista potesse avere una propria ragion d’essere. In passato non si erano forse verificate persecuzioni e genocidi perpetrati da popoli dominanti ai danni di altri reputati inferiori? Il diritto naturale, la giustizia, la logica umana universale, erano senz’altro auspicabili, eppure erano smentite dalla Storia, che riconosce unicamente il diritto del più forte. «Così è sempre andata, così va la storia»[28], è l’amaro commento di Améry.

Per chi trova sostegno in una fede religiosa o politica, ad ogni modo, la storia non finisce ad Auschwitz. L’avvento del nazismo, lo sterminio di massa, sono una conferma delle loro visioni del mondo: l’estremo peccato dell’uomo allontanatosi da Dio, da un lato, e l’ultimo stadio del capitalismo, dall’altro. Gli idealisti non si stupivano «che l’inimmaginabile divenisse realtà»[29].

Il loro regno non era nel presente bensì nel domani e in un luogo imprecisato : il domani millenaristico e assai lontano dei cristiani, e quello utopistico, terreno, dei marxisti. La morsa della realtà dell’orrore era meno forte laddove la realtà da sempre era inserita in uno schema spirituale fisso. La fame non era semplicemente fame, bensì conseguenza necessaria della negazione di Dio o del marciume capitalistico. Le percosse o la camera a gas erano la rinnovata passione del Signore o il naturale martirio politico: così avevano sofferto i primi cristiani, così i contadini dissanguati durante la guerra dei contadini in Germania. Ogni cristiano era un san Sebastiano, ogni marxista un Thomas Münzer[30].

Non essendo partecipe di alcuna collettività ideale, l’agnostico veniva disprezzato, sbeffeggiato e isolato dai suoi stessi compagni di baracca, prigioniero della sua disperata, fiera, individualità.

Preclusa la scappatoia del martirio, Améry si trova solo e disarmato di fronte alla morte. Anzi, la morte non era affatto un evento futuro, era già lì, accanto al letto o durante il lavoro forzato. Ella era ovunque, una cappa opprimente che godeva di una spaventosa ubiquità, a cui nessuno sembrava sfuggire. Quanto più la morte era onnipresente nella realtà, tanto più svaniva come figura spirituale. La concezione estetica della morte, con la quale Améry era solito civettare a distanza, magari in compagnia di Novalis, Schopenhauer, Wagner, Thomas Mann, non aveva diritto di cittadinanza ad Auschwitz: «Nel campo, alla morte non s’accompagnava la musica del Tristano, ma solo le urla delle S.S. e dei Kapo»[31]. L’estrema facilità con cui la vita era soppressa, lo sterminio come pratica burocratica quotidiana, privavano la morte del fascino sinistro che accompagna ogni mistero, degradandola, di fatto, ad accadimento ordinario. Il problema non era che si dovesse morire, ma come ciò sarebbe avvenuto. Le questioni ultime, metafisiche, non avevano senso nel lager. Gli interrogativi pratici, corporali, per così dire, avevano giocoforza la meglio. Che tipo di morte mi attende? accompagnata da quali atroci sofferenze? a prezzo di quali ulteriori umiliazioni? Allora lo spirito, completamente inerme, tocca ancora i propri limiti, dichiarandosi «incompetente»[32].

Dopo aver liquidata l’illusione estetica, e preso atto del ludus concettuale della filosofia, allo spirito non rimane che una strada: quella che conduce «al superamento di sé»[33]. Lo scetticismo nei confronti del verbo esce rinforzato dall’esperienza del lager, da cui peraltro, assicura Améry, si ritorna senza avere in tasca alcuna particolare saggezza o profondità di vedute. Si è solamente più accorti, più disincantati verso tutto ciò che riguarda l’umano. Quanto al divino… per decenza, non è neppure il caso di parlarne.

Nemmeno ad Auschwitz, tuttavia, Améry verrà meno all’imperativo dello Zurückschlagen, all’impeto ribelle che in ogni situazione lo spinge a «ribattere il colpo». Privo com’era del sostegno morale dallo spirito, in un mondo bestiale dove contavano solo i rapporti di forza, Améry fece appello al proprio corpo. Colpito al volto senza motivo dal Kapo Juszek – un criminale polacco di spaventosa prestanza fisica, che era solito trattare brutalmente gli ebrei – Améry reagì sferrandogli un pugno alla mascella. Poco importa che, fisicamente più debole, alla fine dovrà soccombere. Ciò che conta è l’aver dimostrato a se stesso, e alla società perversa in cui viveva, di essere ancora, nonostante tutto, un uomo libero. Se attraverso la violenza sistematica il lager l’aveva privato della sua dignità, solo attraverso il corpo, e non tramite lo spirito, poteva sperare di riconquistarla.

Percosso e dolorante, ero però soddisfatto di me stesso. Non tuttavia per il coraggio e l’onore, ma solo perché avevo ben compreso che nella vita vi sono situazioni in cui il nostro corpo è tutto il nostro Io e tutto il nostro destino. Ero il m io corpo e null’altro: nella fame, nel colpo che subii, nel colpo che diedi. Il mio corpo, sfinito e incrostato di sporcizia rappresentava la mia miseria. Il mio corpo, nel momento in cui si tendeva per sferrare il colpo, era la mia dignità fisica e metafisica. La violenza fisica, in situazioni simili alla mia, è l’unico mezzo che consenta di ristabilire un equilibrio in una personalità che ha perso il suo centro. Nel colpo io ero me stesso: lo ero per me e per l’avversario[34].

Lo scontro con il Kapo Juszek, compendia la rivolta disperata che ha pervaso tutta la vita di Améry, la sua personale lotta contro il male in tutte le sue forme, non ultima quella inflitta all’uomo dalla natura.

3. La vecchiaia e la perdita del mondo

Nel saggio Über das Altern, Améry propone una meditazione sull’ «individuo che invecchia, nel suo rapporto con il tempo, con il proprio corpo, la società, la cultura, e infine con la morte»[35]. Il tutto, attenendosi rigorosamente al metodo introspettivo, che privilegia la dimensione del vécu, rispetto all’astrazione statistica delle scienze positive.

Se nella tortura concetrazionaria il male che viola l’integrità fisica del corpo proviene dall’esterno, dall’esorbitante sovranità dell’Altro, nella vecchiaia, in virtù del disfacimento fisiologico, esso l’erode dall’interno. Mutatis mutandis il risultato alla fine non cambia. Il corpo perde progressivamente la capacità di trascendersi nel mondo, assorbendo, attraverso il dolore, tutta l’attenzione della coscienza.

Se sotto tortura l’Io comprende come non mai il suo essere carne, nell’invecchiamento diventa consapevole della propria essenza temporale. Quando si è giovani si vive in una sorta d’eternità. Il futuro appare come una serie di possibilità pressoché infinite e nulla è deciso per sempre. Il passato diventa allora una dimensione trascurabile, al pari del presente, bruciato com’è dalla brama d’avvenire. Sullo slancio della vigoria fisica il giovane aggredisce lo spazio, ed il mondo si apre magicamente di fronte a lui. All’anziano, viceversa, il futuro – inteso nella sua dimensione di significatività spazio-temporale – è precluso dalla precaria efficienza corporea. Quanto al presente, non è che una finestra sull’unica dimensione temporale rilevante per lui: il passato. Nella vecchiaia la freccia del tempo s’incurva all’indietro, mentre lo spazio vitale si restringe sempre più. In altre parole: il mondo sfugge alla presa.

Essere vecchi o anche solo percepire che s’invecchia, significa avere il tempo nel corpo e in ciò che concisamente potremmo chiamare anima. Essere giovani equivale a gettare il corpo nel tempo, che non è tempo bensì vita, mondo, spazio[36].

Con l’età il corpo cede sotto il peso biologico e psicologico del vissuto, perdendo la capacità di veicolare l’intenzionalità dell’individuo. Da portante si trasforma in gravante, come sostiene efficacemente Améry. La «massa stratificata di tempo», che l’anziano porta con sé, si fa via via sempre più inerte, sino a diventare immodificabile, perché l’avvenire è sbarrato dall’imminenza della morte. Posto in tale situazione, l’individuo che invecchia viene dunque a godere d’una prospettiva unica per afferrare l’essenza irreversibile del tempo, che sfugge fatalmente al giovane, votato com’è alla conquista dello spazio vitale. In altri termini, arriva a comprendere che l’ultima ferita, quella che già sanguina in lui, non sarà più rimarginabile. Per Améry la sentenza è senza appello: «L’invecchiamento è un male incurabile»[37].

Chi ritiene di avere davanti a sé ciò che comunemente chiamiamo “tempo” [il giovane n.d.a], sa di essere in realtà destinato a uscire nello spazio, a uscire da sé. Chi ha in sé vita, tempo autentico dunque, deve smetterla con la fallace magia del ricordare. Ciò a cui va incontro è la morte, e la morte lo toglierà del tutto dallo spazio, despazializzerà lui stesso e quanto resta del suo corpo, gli sottrarrà il mondo e la vita, e sottrarrà lui e il suo spazio al mondo. Perciò egli in quanto individuo che invecchia, è solo tempo: e questo in maniera totale, nell’esserlo, nel possederlo, nel riconoscerlo[38].

La vecchiaia porta inoltre con sé un processo di dissociazione tra l’Io interiore, frutto del vissuto accumulato, e quello esteriore, la cui immagine viene riflessa impietosamente dallo specchio. Il corpo manifesta i segni del tempo: le cellule si degradano, le gambe sono malferme, la pelle avvizzisce. L’Io non si riconosce più nel proprio corpo, che ora gli appare una massa flaccida, estranea, quasi nemica, che non risponde più né all’intenzionalità della coscienza né alle ingiunzioni sociali. In gioventù la presenza del corpo era addirittura inavvertita – il negligé sartiano a cui Améry espressamente si richiama – tanto era elastica, armoniosa la sua simbiosi con la coscienza. Con la vecchiaia, la macchina corporale s’inceppa, gli organi scioperano, rifiutandosi di adempiere alle loro funzioni. Negandosi, il corpo fa avvertire la sua presenza come pura res extensa, costringendo l’Io ad occuparsi di lui. «Nell’invecchiare io sono io attraverso il mio corpo e contro di lui; in gioventù io ero io, senza il mio corpo e con lui»[39]. L’invecchiamento si rivela allora come un processo inarrestabile di negazione dell’individuo. La natura o, se preferite, la vita si contraddice: da madre benevola qual’era diventa matrigna, per dirla con Leopardi. L’Io si scinde: vuole esistere, ma non invecchiare, quindi è costretto a barare se vuole continuare a vivere.

Accanto all’età biologica, all’individuo è riconosciuta anche un’età sociale, implacabilmente attribuita dallo sguardo altrui e scandita brutalmente dalle leggi statistiche e previdenziali. Per quanto sano possa essere ancora un uomo, ad un certo punto la società non si aspetta più nulla da lui. Si limita a certificare ciò che ha fatto, considerandolo, oramai, un inabile al lavoro. L’agognato pensionamento suona come una condanna all’esilio forzato. Che si tratti di Sartre o d’un oscuro impiegato di paese, la loro immagine è socialmente pietrificata in ciò che hanno compiuto. Esclusi entrambi dal futuro, sono uomini «senza potenzialità»[40].

Con il passare degli anni l’intellettuale va incontro ad un altro tipo d’invecchiamento, prettamente culturale. L’adattamento ad un universo di semantico in continua evoluzione risulta sempre più difficoltoso. Lo spirito è un ricettacolo di sapere accumulato nel tempo, ingombrante, pachidermico, sempre meno elastico nel decifrare i nuovi saperi che si affermano. L’intellettuale è fatalmente paralizzato dalla propria fedeltà al suo vecchio sistema, agli autori sui quali s’è formato, a cui è legato il suo vissuto. Non può rinunciarvi senza subire una perdita dell’Io, così come del resto non può rassegnarsi alla perdita del mondo, reso indecifrabile dall’affermarsi delle nuove mode culturali. Al pari del corpo e della società, che un tempo avevano consentito alla sua libertà di espandersi, anche l’avanguardia culturale condanna l’anziano, per manifesta inattualità, alla morte esistenziale, a vegetare tra «i rifiuti dell’epoca»[41].

Con la vecchiaia l’esistenza entra in una fase crepuscolare: c’è ancora luce, ma non abbastanza, mentre l’oscurità della grande notte avanza minacciosa. L’individuo è costretto a pensare l’impensabile, ad accettare la prossimità della propria fine. Da giovane la morte non lo riguardava, se non come un’eventualità vaga che terrorizza giungendo dall’esterno. Ora gli si manifesta in tutta la sua realtà di disastro fisiologico, come progressivo abbandono della vita, è colto da una sensazione di soffocamento, d’oppressione. Améry insiste sulla differenza tra terror – lo spavento per la morte che sopraggiunge subitanea dall’esterno – e l’horror, l’angor suscitati dalla morte che ci erode dal di dentro. Alla fine, tuttavia, sembra convenire che

Ogni angoscia è angoscia della morte, ogni cura si propone di preservarci dalla morte, tutto ciò che facciamo “per la nostra salute” è una misura difensiva contro la morte. Tutta la nostra vita è finalizzata all’assurdo sforzo di evitare l’inevitabile: quanto più “moriamo”, quanto più ci avviciniamo all’ultimo respiro, tanto maggiore la disperazione con cui lottiamo contro una cosa alla quale dovremmo invece ragionevolmente rassegnarci[42].

In quanto pura negatività, la morte è vera e falsa ad un tempo. Vera, perché certa nel suo accadimento; falsa poiché per l’interessato è un evento impensabile, impraticabile, non-esperibile, ovvero un non-evento, infatti: «nessuno muore al presente»[43]. Tale ambiguità di fondo falsa giocoforza la vita, nel senso di entrare in contraddizione con la logica stessa dell’esistenza, che è un continuo progetto, un superamento dello stato presente verso un sé stesso futuro. L’anziano scopre l’inganno del conatus che lo spinge a perseverare ciecamente nell’esistenza, nonostante questa gli riservi ormai solo dolore fisico ed angoscia per la fine. In breve, è spinto a «vivere con il morire»[44]. Questa condizione paradossale di «malsano compromesso», come la chiama Améry[45], induce l’individuo a rivestire diversi ruoli, altrettanti escamotages psicologici dettati dalla mauvaise foi, ben sapendo che in fondo non c’è alternativa possibile. La cosa peggiore, tuttavia, è barare con la morte, scivolando nell’autoinganno del recupero d’una gioventù impossibile, o, viceversa, trincerandosi nell’idillio della vecchiaia, o, addirittura, cercando la fuga nella mistificazione religiosa.

A questo punto, come vivere autenticamente con il morire? Améry ripropone anche in questo contesto la sua morale paradossale di «rendere il colpo», che lo spinge ad abbracciare la realtà, e quindi la vita, in tutta la sua verità/falsità di fenomeno contraddittorio che si autonega, oscillando tra accettazione e rivolta, tenerezza e disgusto, vittoria e fallimento.

Chi tenta invece di vivere la verità della sua condizione di individuo che invecchia, se da un lato rinuncia alla menzogna, dall’altro non sfugge però all’ambiguità che alla fine deve rivelarsi necessariamente come aperta contraddizione. Accetta l’annientamento, ben sapendo che accettandolo potrà salvarsi solo se, nella rivolta, si ribellerà ad esso, ma che – e in ciò si esprime appunto l’accettazione intesa come riconoscimento di una realtà irrefutabile – la sua rivolta è destinata a fallire. All’annientamento dice al contempo no e sì, perché solo nella negazione senza prospettive egli può affrontare l’inevitabile in quanto sé stesso[46].

4. Freitod, l’ultima libertà

Nel saggio Sull’invecchiare del 1968, Améry aveva rigettato la possibilità di sottrarsi alla morte naturale rifugiandosi in quella volontaria. Amare la vita al punto di scegliere una morte libera, consapevole, dignitosa, come suggerito da Nietzsche, era liquidata sbrigativamente allora come «una storia delirante sul suicidio»[47]. Come può esser libero – si chiedeva allora – un atto che segna per sempre la non-libertà di chi lo compie? Non solo Améry ritornerà sui suoi passi, facendo pubblica ammenda per aver impiegato quella locuzione infelice[48], ma le vicissitudini della vita lo condurranno a comprendere sotto un’altra luce la sensatezza di quella risoluzione estrema tutt’altro che delirante, al punto da scrivere, nel 1976, uno delle sue meditazioni più profonde: Hand an sich legen. Diskurs über den Freitod[49].

Sin dal titolo prescelto, che rimanda alla fisicità autodistruttiva del gesto, Améry prende apertamente le distanze dalle disquisizioni cosiddette oggettive, tipiche della psicologia e della sociologia, dichiarando di richiamarsi all’autolegittimazione derivante dal vécu. Del resto, l’unicità della situazione che determina il suicidio, mal si presta ad un’analisi che pretenda di spiegare il movente interiore attraverso categorie nosologiche o, peggio ancora, leggi statistiche.

Nel 1974 Améry sopravvisse al suo secondo tentativo di suicidio. In una toccante pagina del saggio, l’autore racconta l’amarezza, l’umiliazione, il senso di fallimento, provati al momento del risveglio, dopo trenta ore di coma, nel vedere  medici ed infermiere adoperarsi intorno al suo corpo:

Ero legato, attraversato da tubicini, con dolorose apparecchiature, impostemi per nutrirmi artificialmente, a entrambi i polsi. Affidato, lasciato in balia di alcune infermiere che andavano e venivano, che mi rifacevano il letto, mi mettevano in bocca il termometro, e tutto ciò in maniera impersonale, come se già fossi una cosa, une chose[50].

Nella sua rievocazione drammatica, la scena richiama la descrizione della tortura subita dall’autore a Fort Breendonck. Stessa reificazione del corpo, ridotto a puro organismo; stessa umiliazione dello spirito, espropriato della volontà dalla sovranità dell’altro. Con una differenza, tuttavia. Se in balia degli aguzzini ad essere negata ad Améry era la libertà di vivere, lì, nel letto d’ospedale, riportato a forza in quel mondo che aveva rigettato, ad essere sottratta era la libertà di morire.

Améry, da buon fenomenologo, individua le forme costanti del suicidio che, partendo dal vissuto dell’individuo, aiutano a comprendere meglio le varianti relative al singolo caso. Ad esempio, la situazione che precede il salto è per tutti identica, a prescindere dalle motivazioni psicologiche e dai nessi causali che la determinano. L’atto suicidario annulla le differenze di rango tra l’anonima cameriera, Cesare Pavese, Paul Celan, Peter Szondi, il sottotenente Gustl di Schnitzler, ecc. Tutti hanno subito un’umiliazione, un échec esistenziale, che provoca in loro la nausea di vivere. Oggettivamente, un tale evento può apparire insignificante, ma per l’interessato riveste un significato decisivo, al punto da darsi la morte. Chi ha ragione in questo caso? Il suicida o la scienza che lo annovera tra i casi patologici? «Fin dove è ammalato il melanconico? Fin dove è ammalato il depresso?»[51], si chiede Améry.

Chi soffre di stati depressivi, o il melanconico, per il quale “il passato è indegno, il presente è tormentoso, il futuro è inesistente”, come dice l’esperto per descrivere il suo stato, è tanto poco malato quanto l’omosessuale. È solo diverso[52].

Questa incomprensione deriva dal fatto che la scienza e il suicida poggiano su due piani antitetici: la logica della vita e la «logica antilogica della morte»[53]. La prima, impostaci biologicamente, programma le azioni umane a fuggire il male per il bene, in vista della conservazione dell’individuo e della specie. Ogni atto è sensato se rimanda ad un progetto di vita. Sul piano teorico tale logica non può che porsi come logica dell’essere, dove un fenomeno è giudicato “vero” se è deducibile o relazionabile con un un’altra entità esistente nel tempo. Tuttavia, sostiene Améry, la logica della vita, come ogni logica d’altronde, è vuota tautologia, non esce dal recinto dell’esistente, non aiuta a comprendere la realtà, che è erosa dal negativo, né tanto meno la morte, che per definizione è fuori delle categorie dell’essere. Da un lato, ponendosi come limite insuperabile, come la fine di ogni possibile progetto di vita, la morte è inesperibile sul piano pratico. Dall’altro, in quanto pura negatività, teoricamente la morte è «le faux»[54], e come tale indefinibile, incomprensibile, «maledetta impensabilità»[55].

L’atto suicida è la confutazione, tanto logica quanto esistenziale, dell’assioma che «la vita è il sommo bene». Stando con un piede nella logica della vita e con l’altro nell’antilogica della morte, chi si appresta a spiccare il salto le comprende entrambe, nella loro irriducibile antinomia. Opponendo al SÌ incondizionato alla vita il NO della morte volontaria, il suicida solleva le proprie riserve sulla legittimità dell’esistenza, mettendone in discussione il fondamento bioetico, e scardinando la logica che la sostiene.

«Bisogna pur vivere», dice la gente, giustificando così tutte le nefandezze che compie. Ma, viene da chiedersi, bisogna vivere? Bisogna esserci, dato che ormai ci siamo? Nell’istante che precede il salto, il suicida straccia una norma della natura e la getta ai piedi dell’entità invisibile che l’ha fissata […] Prima ancora che sia stata posta la domanda, colui che cerca la morte libera grida: No! Oppure dice cupo: Forse si deve, ma io non voglio, e non mi piego a un obbligo che si fa sentire tormentosamente, dall’esterno nei termini di una legge sociale e dall’interno in quelli di una lex naturae che io tuttavia non intendo più accettare[56].

La logica della vita tenta di edulcorare la morte, distinguendo tra morte “naturale” o involontaria, e morte contro-natura o volontaria. Comprendere la cosiddetta “morte naturale” nell’alveo della “normalità”, ha come conseguenza logica quella di confinare la morte volontaria nella devianza patologica, nell’errore, insomma in ciò che non dovrebbe essere. Il suicida, mancato o no, è hors la loi, perché ha osato infrangere le leggi dell’essere. Ma, dopotutto, è poi così naturale morire, come sostiene in maniera surrettizia la logica della vita, cercando di esorcizzarne l’angoscia? Lo è, solo se si guarda il fenomeno dall’esterno, analizzandolo oggettivamente secondo le leggi causali della fisiologia; mentre non lo è mai per l’interessato, che vive in prima persona il proprio morire.

Per l’individuo che si avvicina alla morte, tuttavia, le cose stanno diversamente. Le circostanze oggettive non lo riguardano. Non avverte ad esempio la sedimentazione di materia nei vasi coronarici, ma si sente “oppresso da un peso”, che lui solo conosce e del quale gli altri, compresi i suoi medici, non sanno nulla […]Non appena appare all’orizzonte, la morte per l’uomo diviene una contrarietà insopportabile, che può “rimuovere”, oppure deviare verso altre regioni, emotivamente vuote, del pensiero astratto, ma che non può mai accettare veramente: assimilare nell’io la morte in tutta la massa del suo enorme peso specifico significherebbe rifiutare la vita[57].

Al di là delle rassicurazioni ideologiche, in realtà è la morte cosiddetta “naturale” ad essere fondamentalmente “contro-natura”, proprio perché avviene a dispetto della volontà individuale, mentre quella volontaria appare sicuramente più umana, in quanto procede da una decisione “conseguente” del soggetto. Conseguente a cosa? Qual’è il movente che determina il suicida ad anticipare la morte invece di attendere il suo abbraccio?

Pur apprezzandone il coraggio spirituale, Améry critica l’ipotesi generale formulata da Freud, secondo cui a spingere l’uomo verso la distruzione di sé, così come dell’altro, sia una «pulsione di morte», che si contrapporrebbe alla «pulsione di vita». Innanzitutto rispetto al contesto, il termine pulsione (trieb) è ritenuto da Améry inappropriato, in quanto, solitamente, viene a denotare una spinta d’espansione della volontà, piuttosto che una sua negazione; in altre parole tende alla pienezza d’essere più che al suo svuotamento. Inoltre la distruzione dell’altro, essendo «la forma estrema di conferma della propria vita»[58], non può essere ricondotta alla stessa pulsione che la nega radicalmente.

Alla ricerca di un principio descrittivo unificante, al termine pulsione Améry preferisce il più delicato «inclinazione alla morte»[59]. Forte della propria esperienza personale, l’autore ci assicura che

La morte libera è molto più del puro atto dell’eliminazione di se stessi. È un lungo processo d’inclinazione, di avvicinamento alla terra, è un sommare tutte le umiliazioni che la dignità e l’umanità dell’aspirante suicida rifiutano, è – e una volta di più impiego una parola francese purtroppo intraducibile – un cheminement, una sorta di progredire lungo un cammino che è spianato, chissà, sin dal principio […] È presente in ogni tipo di rassegnazione, in ogni pigrizia, in ogni lasciarsi-andare, perché chi si lascia andare già s’inclina volontariamente verso il luogo che in fin dei conti gli compete[60].

Non essendo radicata, come l’istinto di sopravvivenza, all’origine stessa della vita, ma unicamente nel vissuto umano, l’inclinazione alla morte è un’invenzione evolutiva relativamente recente. Il fatto di essere un portato culturale e non naturale, la rende da un lato più debole rispetto alla pulsione di vita, dall’altro più esclusiva, in quanto diventa un privilegio unicamente umano[61]. Tale inclinazione privilegiata è resa possibile dall’emergere biologico della coscienza, che crea nell’individuo non solo uno scarto tra l’Io e il proprio corpo, ma anche una distanza temporale interna all’Io stesso, che gli consente di superare la condizione presente verso un poter-essere (o non-essere) futuro. Questo è il respiro dell’esistenza, il movimento della libertà umana, in cui «ogni libertà da qualcosa implica una libertà per qualcosa»[62]. In questo spazio s’inserisce, tra gli altri, l’atto che anticipa la morte.

Proprio perché l’esistenza umana è costituita come possibilità (d’essere) e non come necessità, che su di essa incombe lo scacco, inteso come fallimento del progetto di vita, come ricaduta nel mero essere. In seguito all’échec la libertà perde il suo slancio, viene rigettata dal mondo e riassorbita dalla fatticità banale di esserci, il cui peso appare tanto più insopportabile quanto più si presenta insuperabile. I singoli fallimenti nella vita rimandano in ultima analisi all’échec fondamentale della vita stessa, vale a dire alla morte, che annulla lo slancio dell’ex-sistere in un destino immodificabile. Senza la morte, infatti, il fallimento nell’esistenza non avrebbe alcunché di drammatico, perché le possibilità di riscatto sarebbero infinite. Eppure così non è, la chiusura del mondo e la solitudine di un Io privato del futuro e relegato nel proprio passato, rendono la vita una prigione irrespirabile. La dignità impone d’evadere…

L’échec, questo termine fatale, con il suo tono secco (son ton sec) e il suo suono tronco rende meglio l’irreversibile del fallimento totale: il commerciante che si è sparato ha subito l’échec; detto altrimenti: il mondo lo aveva respinto prima ancora che la morte lo togliesse e respingesse dal mondo […] Il fatto è che l’échec nella sua dimensione di minaccia si colloca, in maniera più evidente di quanto non avvenga per la morte, sullo sfondo di ogni esistenza umana[63].

Se l’individuo non può più essere libero nella vita, lo sarà perlomeno di fronte alla morte. In un estremo sussulto di libertà, l’Io recupera se stesso, supera la fatticità dell’échec progettando la propria dipartita dal mondo, vale a dire facendosi Freitod, morte libera. A differenza della libertà d’esistere, che si rilancia continuamente nell’essere, la Freitod non rimanda ad altro, è una libertà limite, che si annulla nel suo stesso affermarsi, una libertà per… niente. Ma è lecito parlare di un simile progetto di morte, si chiede in maniera retorica l’autore? Dal punto di vista della logica della vita, ovviamente no. «E invece sì:» ribatte con forza Améry, «perché la morte libera esiste […] ci preleva, ci riscatta dall’essere, divenuto fardello, e dall’ex-sistere, che è solo angoscia»[64]. Se la Freitod è insensata, allora lo è anche la vita naturale, considerato che a un certo punto si distrugge da sé, oltretutto a dispetto della volontà individuale. L’assurdità del suicidio, dunque, non può dirsi folle, dato che «non incrementa bensì riduce quella della vita»[65].

La Freitod è, in definitiva, una liberazione senza libertà. A questo proposito Améry parla d’un «cammino verso la libertà»[66], ma non di libertà. Una volta spiccato il grande salto, infatti, «non sarò né libero né non-libero, poiché non sono»[67]. Eppure, nel momento della decisione irrevocabile, l’aspirante suicida, con i piedi ancora nella vita, sperimenta una «reale libertà», addirittura mostruosa, poiché per la prima volta il mondo gli è del tutto indifferente. L’ebbrezza, l’euforia di compiere l’atto supremo, che nega tutti gli altri a venire, innalzano per qualche istante il suicida al rango degli dei, non senza l’amarezza, la tenerezza, il dolore per l’addio. Il mondo, gli altri, appaiono finalmente nella loro stupefacente, struggente bellezza. No, sicuramente non è un eroe, e nemmeno un superuomo. Per quanto la scienza si ostini a farne un pazzo, il suicida è, e rimane sino all’ultimo, un essere umano. Le parole di Améry riaffermano, nel loro umanesimo radicale, il diritto inalienabile dell’individuo a decidere in piena autonomia il proprio destino, contro gli interdetti della società e la cieca indifferenza della natura. Non si deve fraintendere: Améry non è stato un decadente «poeta del suicidio», né un persuasor di morte, come Egesia il cirenaico. «Intendo rendere testimonianza più che convincere»[68], aveva scritto. Il suo proposito era di portare lo spirito ai suoi limiti, «sin dove può giungere la parola»[69].

Anche nella morsa di questa costrizione, la morte volontaria è ancora libera in relazione alle altre morti; non è un carcinoma a divorarmi, un infarto ad abbattermi o una crisi di uremia a spezzarmi il respiro. Sono Io che levo la mano su di me, che sto per morire dopo aver ingerito dei barbiturici[70].

E qui la narrazione sfocia inevitabilmente nell’autobiografia, anzi, nel caso di Améry, l’anticipa, la determina.

5. Il riflusso della vita

Gli ultimi anni di Améry sono la conferma esistenziale che il suo clinamen verso l’«abisso liberatore»[71] non era un gioco filosofico, ma una sorta di destino cupo che, a dire della seconda moglie Maria Leitner, l’ha accompagnato come un ombra per tutta la vita[72].

Dal 1968 l’«entropia strettamente privata»[73] della sua esistenza subisce un’accelerazione vertiginosa. In quello stesso anno vi contribuisce anche l’amore-passione per la germanista americana Mary Cox-Kitaj, vissuto parallelamente al matrimonio e, a quanto pare, tollerato almeno inizialmente anche dalla moglie Maria Leitner.

Per un’ironia del destino nell’aprile 1968, appena compiuto il saggio sull’invecchiamento, Améry è colto da infarto[74]. Il contraccolpo lo fa piombare in una profonda depressione, tanto da culminare in un primo tentativo di suicidio, perpetrato durante le vacanze estive. Intanto, com’era prevedibile, il ménage à trois diventa insostenibile.

Dietro insistenza degli amici cerca di troncare la relazione con Mary Cox-Kitaj, gettandosi anima e corpo nella stesura del romanzo Lefeu oder Der Abbruch (Lefeu ou la Démolition)[75]. Dopo gli essais che lo hanno fatto conoscere al grande pubblico, Améry tenta di superare se stesso, la propria “fatticità”, ovvero il ruolo impostogli dalla società, di «vittima da parata» , di «ebreo sofferente della sofferenza ebraica», di «pagliaccio di Auschwitz»[76]. Investe sul nuovo lavoro, lo considera una prova decisiva, una sorta di riscatto personale. Vede nel roman-essai la via per realizzare il suo sogno d’essere ammirato in Germania, come scrittore di lingua tedesca. Estenuato dallo sforzo fisico e mentale profuso, nel febbraio 1974, quattro giorni dopo aver terminato la stesura dell’opera, Améry tenta per la seconda volta il suicidio, questa volta ingerendo barbiturici. È salvato miracolosamente dall’amico chimico Kurt Schindel, che lo ritrova in coma. A dispetto dell’ammirazione dei colleghi, Canetti e Grass in testa, il libro – «l’opera della mia vita in piccolo formato»[77]  – non incontra il successo sperato. Un «silenzio di morte» accompagna la sua uscita. È lo scacco. Per rabbia, Améry fa a pezzi l’unica copia del Lefeu in suo possesso.

Scriverà Hand an sich legen, «come conseguenza logica» del saggio sull’Invecchiare e di Lefeu»[78]. In Germania il successo gli arride; del resto, nel paese di Werther, non c’era da dubitarne, eppure non è quello a cui Améry aspira. Così tenterà ancora la strada del roman-essai, con Charles Bovary. Un medico di campagna, in risposta a Flaubert e Sartre. Attende con trepidazione le prime recensioni, purtroppo vanamente.

Non conosco e non riconosco che l’estetica della ricezione. Se questo testo ricevesse un’accoglienza favorevole, allora saprei, e solo allora, che è buono. Per due volte, con Lefeu prima e ora con il mio Charles B., ho tentato di impormi come “scrittore” agli occhi dei tedeschi; fino a poco tempo fa non dubitavo affatto d’esserlo. Il tentativo di Lefeu è fallito per tre quarti. Se Ch. B. non se la cava meglio, devo rassegnarmi all’idea che mi sono sbagliato sin dalla più giovane età. In caso di sventura abbandonerò la partita[79].  

La storia d’amore con Mary, mai troncata del tutto, è lacerante. Impossibile far convivere fianco a fianco tenerezza (per la moglie) e passione (per l’amante). Dal punto di vista morale, l’esito è avvilente: «le ho rese tutte infelici»[80]. Nell’ottobre 1978 inizia in Germania il «tour de chant» delle letture pubbliche per la promozione del libro, accompagnato dall’ «eco sordo» del milieu letterario tedesco. Fallimento su tutti i fronti. Qualcosa gli sussurra che la misura è colma. Interrotti improvvisamente «les voyages d’affaires de l’esprit», Améry attraversa la frontiera, ritorna alla sua terra natale, l’Austria.

«Non ci si uccide, come comunemente si pensa, in un accesso di demenza», scrive Cioran, «ma in un accesso di intollerabile lucidità»[81]. Con voce suadente, irresistibile, la Freitod lo chiama a sé all’Österreichischer Hof, un elegante hotel di Salisburgo. Améry adempie diligentemente il rituale previsto nel suo trattato sul suicidio. Dopotutto «la realtà è innegabile»; persino quando si è deciso di abbandonarla al suo destino, occorre rimanere «fedele ai patti». Il protocollo esige di rivolgere un’ultima parola a coloro che hanno reso meno gravoso il cammino sulla terra. Lucido, fermo, a tratti beffardo, Améry, nel tono conciso e rigoroso della sua prosa, scrive commoventi lettere d’addio ai suoi amici più cari. Non tralascia nessuno. Con straordinaria delicatezza si rivolge persino al direttore dell’albergo, scusandosi per le noie procurate dal suo gesto. Alla polizia dichiara che «Si dà la morte volontariamente, in pieno possesso delle mie facoltà mentali»[82] All’editore Klett chiede perdono per i grattacapi che gli procurerà, dopotutto, scrive sarcastico, «I was a bad investiment»[83]. All’amico-lettore Hubert Arbogast:

A voi in particolare, caro amico, grazie per tutto quello che avete fatto. Com’è triste che ciò finisca. Parto con un peso al cuore, ma so che non posso farci niente. Sono rimasto in piedi fintanto che le forze me lo permettevano. Adesso che mi abbandonano, devo partire[84].

Le ultime parole, in un misto di chiaroveggenza e tenerezza, sono per la moglie Maria Leitner.

Mio piccolo cuore, amatissima, davanti a te mi inginocchio, colpevole nell’ora della morte.

Prendo la via della libertà. Non è facile, ma è una liberazione. Se puoi, pensa a me senza rancore e senza soffrire troppo. Sai cosa ho da dirti; che ti amo infinitamente e che tu sei l’ultima immagine che conservo davanti agli occhi. Ma vedi, cuore mio, sono allo stremo delle forze e lo spettacolo della mia decadenza intellettuale, fisica, psichica, mi è divenuto insopportabile. Pensa al bel poema di Christian Wagner che un giorno ritagliasti per me[85].

A Maria, la moglie che, persino nel tradimento, l’ha sempre capito rimanendogli vicino, nell’ultima sera della sua vita chiede un ultimo sforzo di comprensione. Sente che finirà per perdonarlo: «un debole barlume, un leggero presentimento della pace dell’anima»[86].

In un’estasi di libertà, fedele sino all’ultimo alla sua visione dell’uomo, Jean Améry si dona la morte, poiché, come il suo Charles Bovary,

Ero più di quel che ero, così come ogni uomo il quale, giorno dopo giorno, ora dopo ora, opponendosi agli altri e al mondo, esce da se stesso, per negare ciò che era e divenire ciò che sarà[87].

Jean Améry è sepolto nel cimitero centrale di Vienna. Nella pietra tombale oltre al nome, l’anno di nascita e di morte, campeggia la scritta: Auschwitz nr. 172364. Quel marchio inesorabile tatuato sul suo avambraccio, era la sua carta d’identità d’ebreo: sintesi d’angoscia e di rabbia, di fierezza e rassegnazione, simbolo catastrofico del male che ha travolto la sua esistenza e quella di milioni di uomini.

Per un breve istante una piccola onda mi aveva portato sulla sua cresta. È rifluita[88].

NOTE:

[1] Pseudonimo quasi anagrammatico del suo vero nome Hans Mayer, Jean Améry nasce a Vienna nel 1912 da famiglia ebraica non praticante. Nella sua città compie studi da autodidatta in lettere e filosofia. In seguito all’annessione dell’Austria alla Germania, nel 1938 si trasferisce in Belgio, dove si unisce alla Resistenza. Arrestato dai nazisti nel 1943, è torturato dalla Gestapo. In qualità di ebreo, è deportato ad Auschwitz. Dopo la liberazione risiede a Bruxelles, dedicandosi alla scrittura critica e letteraria. Nell’ottobre del 1978 muore suicida in un albergo di Salisburgo.

[2] Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, trad. E. Cerri, Boringhieri, Torino 2008, pp. 140-141. Pubblicato in Germania nel 1966 con il titolo Jenseits von Schuld und Sühne: Bewältigungsversuche eines Überwältigten [lett. Al di là di colpa ed espiazione: tentativo di superamento di un sopraffatto] il libro porterà Améry alla ribalta del mondo letterario e intellettuale europeo, un po’ come accadde a Primo Levi con Se questo è un uomo.

[3] Ibid.,, p. 30.

[4] Ibid., p. 142.

[5] Ibid., p. 131.

[6] Ibid., p. 132.

[7] Ibid., p. 146.

[8] Ibid., pp. 143-144.

[9] Ibid.,p. 137.

[10] Ibid., p. 138.

[11] Ibid., p. 62-63.

[12] Ibid., p. 62.

[13] Ibid..

[14] Ibid., p. 69.

[15] Ibid., p. 46.

[16] Ibid., p. 65.

[17] Ibid., p. 72.

[18] Ibid., pp. 71-72.

[19] Ibid., p. 72.

[20] In seguito all’invasione sovietica, venne trasferito dapprima a Buchenwald e poi a Bergen-Belsen, dove fu liberato dall’esercito britannico nell’aprile 1945.

[21] Ibid., p. 30. Per la definizione d’intellettuale, si veda la nota n. 2. Dalla categoria in esame Améry esclude il cosiddetto Muselmann, ovvero, secondo il gergo del Lager, l’individuo derelitto, alle soglie della morte per sfinimento, privo quindi di quel «sostrato» fisico minimale, che consente allo spirito di funzionare ed elaborare una sia pur minima esperienza.  

[22] Preziosa a questo proposito la testimonianza di Primo Levi, compagno di Lager di Améry, quando ne I sommersi e i salvati, ricorda che «sterratori non ci si improvvisa» e racconta la prima volta che gli misero una pala in mano: «avrei dovuto impalare la terra smossa del fondo della trincea, ed alzarla al di sopra del bordo, che era ormai più alto di due metri. Sembra facile e non è: se non si lavora di slancio, e con lo slancio giusto, la terra non resta nella pala ma ricade, e spesso sulla testa dello sterratore inesperto», cit. in Primo Levi, I sommersi e i salvati, Torino 1986, p. 107.

[23] Ibid., p. 36. «Ricordo una serata d’inverno, quando dopo il lavoro ci trascinavamo verso il Lager dall’ area della I.G.-Farben, mantenendo faticosamente il passo all’odioso “Links zwei, drei, vier” [sinistra, due, tre, quattro] dei Kapo. Davanti a un edificio in costruzione notai una bandiera, esposta per chissà quale motivo. «Die Mauern stehn sprachlos und kalt, im Winde klirren die Fahnen» [Al freddo muti se ne stanno i muri, nel vento stridono le banderuole], mormorai seguendo meccanicamente un’associazione. Ripetei i versi ad alta voce, rimasi in ascolto del suono delle parole, cercai di tener dietro al ritmo, confidando che emergesse il riferimento emozionale e spirituale che da anni per me si ricollegava a questa lirica di Hölderlin. Non accadde nulla», Ibidem.

[24] Ibidem.

[25] Ibid., p. 51.

[26] Ibidem.

[27] Ibid., p. 51.

[28] Ibid., p. 42.

[29] Ibid., p. 44.

[30] Ibidem.

[31] Ibid., p. 44.

[32] Ibid., p. 51.

[33] Ibidem.

[34] Ibid., p. 138.

[35] Jean Améry, Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Prefazione alla prima edizione, Bollati Boringhieri, Torino 1988, p. 19.

[36] Ibid., p. 37.

[37] Ibid., p. 55.

[38] Ibid.

[39] Ibid., p. 62.

[40] Ibid., p. 77.

[41] Ibid., p. 149.

[42] Ibid., pp. 142-143.

[43] Ibid., p. 129.

[44] Ibid., p. 145.

[45] Ibid., p. 144.

[46] Ibid., p. 98.

[47] Ibid., p. 143.

[48] Segnatamente nella prefazione alla quinta edizione di Über das Altern, scritta nel 1977.

[49] Jean Améry,  Hand an sich legen. Diskurs über den Freitod, Ernst Klett, Stuggart, 1976 (trad. it Levar la mano su di sé, a cura di I. Cervelli, Bollati Boringhieri, Torino 1990).

[50] Ibid., p. 66.      

[51] Ibid., p. 48.      

[52] Ibid., p. 49.

[53] Ibid., p. 20.

[54] «Le faux, c’est la mort» è la frase di Sartre riportata nel testo da Améry, Ibidem.

[55] Ibidem.

[56] Ibid., pp. 14-15.

[57] Ibid., pp. 32-33.

[58] Ibid., p. 84.

[59] Ibid., p. 63.

[60] Ibid., p. 64.

[61] Ibid., p. 39. Su questo punto Améry riprende lo studio di Jean Baechler, Les Suicides, Calmann-Lévy, Paris 1975.

[62] Ibid., p. 104.

[63] Ibid., p. 37. «Laddove l’échec è una minaccia costante – sotto forma di fallimento all’esame di maturità, di bancarotta, di stroncatura da parte di un critico influente, di paralizzante assottigliarsi dell’energia creativa, di malattia, di amore che non trova tenera risposta, di paura prima dell’attacco, sprezzantemente biasimata dal comandante – la morte libera diviene una promessa». Come nota acutamente la biografa Heidelberger-Leonard, le situazioni elencate da Améry rimandano ad un’esperienza vissuta, vedi in proposito Irene Heidelberger-Leonard, Jean Améry. Revolte in der Resignation. Biographie, Klett-Cotta, Stuttgart 2004, da qui in avanti nella traduzione francese Id., Jean Améry. Une biographie, trad. de l’allemand par Sacha Zilberfarb, Actes Sud, Arles 2008, p. 279. La traduzione italiana dei passi citati dalla biografia è nostra..

[64] Ibid., p. 105.

[65] Ibid., p. 121.

[66] Ibid., p. 117.

[67] Ibid., p. 107.

[68] Ibid., p. 66.

[69] Ibid., p. 4, prefazione alla prima edizione.

[70] Cit. in Heidelberger-Leonard, Jean Améry,  p. 283.

[71] L’espressione è presa a prestito da Cioran, Il funesto demiurgo, trad. D.G. Fiori, Adelphi, Milano 1995, p. 84.

[72] Sposato in prime nozze con Regina Berger nel 1937, Améry al ritorno da Auschwitz non trovò più sua moglie ad attenderlo. Solo nel 1950, a cinque anni dalla sparizione, avrà la certezza della morte di Regina, sopraggiunta a causa di un’insufficienza cardiaca nell’aprile del 1944. Nel 1955 Améry sposò Maria Leitner, che sarà la sua compagna inseparabile nella seconda parte della sua vita. In una lettera immaginaria indirizzata al marito, la Leitner scriverà: «Matricola d’Auschwitz 172364 – questo è il numero che sigillò il tuo destino […]. Ma ci furono tante altre cose: tutto era in te sin dal principio. Non è un caso se, già da giovane, t’infiammavi solo per i poeti la cui opera richiamava la fugacità delle cose, la malinconia, la morte», in Heidelberger-Leonard, Jean Améry, cit., pp. 286-287.

[73] Ibid., p. 74.

[74] «Sotto l’effetto del dolore, il cardiopatico, colui che ‘possiede’ un cuore, vede il suo mondo trasformarsi, e qui si percepisce quanto la coscienza sia, nel senso di Merleau-Ponty, coscienza coinvolta, e quanto il mondo sia mondo attraverso il nostro corpo. Il cardiopatico trova che il mondo è conciato male. […] Le scale sono troppo alte e ripide, le gambe s’appesantiscono ad ogni minuto che passa, la strada diventa aspra ad ogni metro. Il nostro grande malato è qui: un certo lutto incombe sulla sua figura», Jean Améry, Die Welt des leidenden Menschen. Hinweis auf zwei Bücher von Herbert Plügge, Merkur, 1969/251, cit. in Heidelberger-Leonard, Jean Améry, cit., p. 292.

[75] Ispirato alla figura dell’amico Erich Schmid, pittore vissuto a Parigi, Lefeu, il protagonista del romanzo è un artista ebreo reduce dalla Resistenza e dall’Olocausto, che rifiuta ostinatamente di abbandonare la sua casa in demolizione. Figura della libertà e dell’opposizione radicale a tutte le manovre di seduzione messe in atto da una società ormai in «décadence clinquante», Lefeu rinuncerà persino alla possibilità di esporre le proprie opere.

[76] Heidelberger-Leonard, Jean Améry, pp. 249 e 299.

[77] Lettera a Ernst Mayer del 17 gennaio 1975, in Ibid., p. 288.

[78] Ibid., p. 255.

[79] Lettera a Hubert Arbogast, 29 agosto 1978 cit. in  Ibid., p. 271.

[80] Ibid., p. 298.

[81] Cioran, Il funesto demiurgo, cit., p. 79.

[82] Heidelberger-Leonard, Jean Améry, p. 301.

[83] Ibidem

[84] Ibidem.

[85] Si tratta del poema Freitod di Christian Wagner (1835-1918): «Che cos’è che più di tutto rende sacra la vita? La morte volontaria e liberamente scelta./ Decidere fieramente d’abbandonare il gregge transumante verso le stoppie, e partire presto. / Nudo con le proprie gambe e senza difesa forzare la siepe, prendere la chiave dei campi, conquistare la libertà./ Strappare violentemente dal suo cuore languido, assonnato, ogni desiderio d’esistere. / Suicidio! Chi ti inventò? Chi fu il primo saggio? Un figlio degli dei sottomesso al giogo della schiavitù, il quale, condotto davanti al tiranno dai suoi furiosi zeloti, gettò le sue catene in faccia al despota», cit. in Ibid., p. 342.

[86] Ibid., p. 303.

[87] Jean Améry, Charles Bovary, medico di campagna. Ritratto di un uomo semplice, trad. E. Ganni, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 137.

[88] Lettera del gennaio 1975 a Ernst Mayer, in Heidelberger-Leonard, Jean Améry, p. 289.

Massimo Carloni, studi in scienze politiche e filosofia all’Università di Urbino. Ha dedicato diversi studi a Cioran, pubblicati in volumi collettanei e in riviste internazionali. Ha realizzato il progetto editoriale per la traduzione italiana del libro di Friedgard Thoma, Per nulla al mondo. Un amore di Cioran (éd. l’Orecchio di Van Gogh, 2009). Libri di prossima pubblicazione: edizione italiana delle lettere di Cioran al fratello (con H.- C. Cicortaş, Archinto, Milano, 2014), a Wolfgang Kraus (con Pierpaolo Trillini, Bietti, Milano, 2014), e la corrispondenza Eliade-Cioran (con H.- C. Cicortaş, 2015).

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