> di Stefano Santasilia
Il dibattito relativo al realismo, con lo specifico riferimento al nuovo realismo, imperversa oramai in maniera evidente in tutto il panorama mediatico. Il problema di fondo, che anima la discussione, è il tentativo di comprendere se il “ritorno” alle cose sia qualcosa che necessariamente va riproposto a discapito delle altre correnti filosofiche o se, in realtà, queste ultime, o qualcuna di esse, già da sempre ha coltivato quell’attenzione al reale che il nuovo realismo pretende riportare alla ribaltà come estrema necessità. Il testo della professoressa Ales Bello si colloca in questo secondo filone di ricerche assumendosi la responsabilità di mostrare come, nella sua stessa fondazione, la fenomenologia si strutturi come un realismo.
Certo si tratterà di una forma di realismo critico (d’altronde nemmeno il nuovo realismo impone il ritorno ad un’ingenuità che smentirebbe immediatamente il suo carattere filosofico). Così, l’autrice, sviluppando un’analisi attenta al dibattito contemporaneo, mira a mostrare come spesso la contrapposizione tra realismo e idealismo – ipotizzata teoreticamente e documentata in sede di storia della filosofia, nello specifico in riferimento alla “svolta trascendentale” della fenomenologia husserliana) – abbia un’origine più semantica che autenticamente teoretica. In tal modo, viene strutturata una proposta che vede la Ales Bello “opporsi” alla stessa definizione che Husserl diede del suo passaggio ad una nuova tappa della fenomenologia, ossia quella di “idealismo trascendentale”, al fine di recuperare la riflessione del pensatore tedesco alla causa, stavolta, di un autentico “realismo trascendentale”. Nell’elaborazione di tale interpretazione, Ales Bello sottolinea il valore della correlazione tra soggetto e oggetto a discapito di una supposta subordinazione, del secondo al primo, mai confermata dai testi husserliani. Questa la ragione, per l’autrice, di un necessario oltrepassamento della problematica meramente gnoseologica per giungere a quelle domande fondamentali relative alla stessa esistenza. Ciò al fine di ricercare, proprio in tale correlazione e mi si perdoni il gioco di parole, appunto il senso della domanda di senso.
A. Ales Bello, Il senso delle cose. Per un realismo fenomenologico, ed. Castelvecchi, pp. 188, euro 22.
4 gennaio 2015 alle 15:25
Ho un vocabolario che si chiama “Il Novissimo Melzi”. Si tratta di un vocabolario sciupato e sfasciato che riposa in qualche angolo della biblioteca. Rimane solo quel “Novissimo” per esibire una giovinezza che svanì da molto tempo eppure lo stesso aggettivo, per ironia, contiene la prova dell’imbroglio. Mi pare che questo sia il caso del Novissimo Realismo al quale si rifà questa recensione. Mi permetto, per amore della dialettica, di fare due considerazioni. La prima riguarda il libro recensito e la seconda, più generale, riguarda lo stato del Novissimo Realismo.
1) Il pezzo che ho appena letto ci presenta un libro. Quel libro avrebbe l’intento di chiarire come la fenomenologia abbia la forma di un realismo. Ma è importante? Stupisce che la fenomenologia, sebbene non sia realista per definizione, risenta del realismo di Cartesio al quale si ispira? Anche Kant conserva la matrice realista ma, nei pressi della frontiera, si frena con l’accortezza di non poterla valicare e di aver messo in conto la crisi del realismo sin dalla partenza. Il passo che porta al realismo, nonostante l’urgenza della causalità e della cosa in sé, gli era reso impraticabile dalla storia della filosofia. Quindi il realismo di oggi evoca un’ombra e conviene un po’ di trucco per sfuggire all’imbarazzo: non è più “ingenuo”, come fu, ma è squisitamente “critico”. Il vocabolario aiuta anche quando si contrappone il realismo all’idealismo, piuttosto che al fenomenismo, perché l’ambiguo titolo di idealismo ha davvero consumato la pazienza.
2) Il pezzo che ho appena letto insiste sulla necessità del realismo e si richiama al suo Nuovo Realismo delle cronache di filosofia. Sappiamo che l’innesco è stato il Manifesto del nuovo realismo di Ferraris (2012) e ricordiamo il saluto che gli rivolse Umberto Eco: bentornata Realtà! Si direbbe che la voglia popolaresca, a lungo repressa, di una realtà esterna e ignota sia finalmente esplosa con la legittimazione di qualche professore in cerca della ribalta.
Un passo di Hawking (1988) è lo spunto per discutere del realismo: « Le ultime ricerche ci portano alla teoria completa che da tempo stavamo cercando. Tutto comincia dalla meccanica dei quanti e dalla sua interpretazione più intuitiva la quale conduce verso due idee che sono in conflitto con il senso comune. La prima idea è che il mondo non abbia un’esistenza indipendente e sia, dunque, una trama virtuale che diventa realtà all’interno dell’osservazione. Questa idea sembra inevitabile eppure io la metto in dubbio per una questione di semplicità:un tavolo scompare dalla stanza quando usciamo e si forma quando rientriamo? ». Dunque Hawking riconosce che la realtà esterna è compromessa dalla meccanica dei quanti eppure cede all’incredulità: un tavolo scompare dalla stanza quando esco e si forma quando rientro?
Einstein, a dispetto delle implicazioni della relatività, scommette sul realismo alla pari di Hawking. È nota la frase che pronunciò nel corso della polemica con Bohr: «la luna esiste anche quando non la vediamo». Bohr, al contrario, difendeva la completezza formale della teoria quantistica e la conseguente connessione all’osservatore invitando a ricusare gli ideali della causalità e della sostanza fisica. Così conclude Amich (2005 Einstein e Bohr: il dissidio): « Oggi tutti siamo convinti che Einstein avesse torto e Bohr avesse ragione. Il realismo di Einstein portò a introdurre delle variabili nascoste nella teoria dei quanti ma dagli esperimenti risultò che avesse torto nel suggerire questa idea. »
Berkeley (1710 Trattato sui principi della conoscenza umana) già rassicurò Einstein riguardo alla luna e Hawking per il suo tavolo: « I corpi che compongono il mondo non hanno alcuna esistenza al di fuori di una mente. Dico che esiste questa tavola, la tavola su cui scrivo, nel senso che la vedo e la tocco e direi che esiste se pur fossi fuori dal mio studio intendendo con ciò che potrei percepirla se fossi nello studio o che un altro la percepisce. Quel che si dice dell’esistenza assoluta delle cose, senza relazione all’esser percepite, è per me incomprensibile. […] Qualcuno chiederà: cosa avviene del sole, della luna e delle stelle? Cosa dobbiamo pensare di fiumi e montagne e dei nostri corpi? Sono chimere? Rispondo che non siamo privati di nulla. Qualsiasi cosa vediamo, tocchiamo, o comunque comprendiamo, rimane sicura e reale come sempre. »
Giuseppe Roncoroni