> di Alberto Rossignoli*
I grandi uomini d’affari e i giornalisti insistono molto sulla globalizzazione e sull’impiego delle nuove tecnologie come tratti caratteristici del capitalismo (post-capitalismo?) contemporaneo. Ciò è abbastanza corretto, ma tralascia le nuove modalità di organizzazione del tempo, in particolare del tempo di lavoro.
Il “lungo termine” sembra essere scomparso: nel mondo del lavoro odierno sta sparendo la tradizionale carriera condotta nei corridoi di una o due aziende e la medesima cosa accade allo sviluppo di un insieme di competenze durante il corso di una vita lavorativa.
L’economista Bennett Harrison crede che la causa di questa tendenza al cambiamento sia il desiderio di profitti rapidi.
È chiaro che, in un contesto di rapidi cambiamenti, vacilla lo sviluppo della fiducia informale.
Secondo il sociologo Mark Granovetter, le moderne reti organizzative sono caratterizzate dalla “forza dei legami deboli”: per la gente, i rapporti occasionali di associazione sono più utili dei vincoli a lungo termine.
È la dimensione temporale del neo-capitalismo ad influire in modo più diretto sulle vite emotive delle persone, anche fuori dal luogo di lavoro.
Trasposto nell’ambito familiare, il “basta col lungo termine” significa essere sempre in movimento e non dedicarsi mai ad approfondire un qualcosa. Ciò erode il carattere delle persone, così come erode i rapporti interpersonali.
Tutto questo è esemplificato dal caso di Rico e Jeannette, giovane coppia americana che fatica a mantenere il controllo sulle proprie vite, proprio a causa dei ritmi serrati di lavoro e della sempre più cronica incertezza che affligge il loro percorso esistenziale: essi vivono infatti in un mondo caratterizzato dalla flessibilità a breve termine.
“Le condizioni del tempo nel nuovo capitalismo hanno creato un conflitto tra la personalità e l’esperienza: sperimentare il tempo “scollegato” mette a rischio la capacità delle persone di trasformare le proprie personalità in narrazioni continuate”[1].
Se Rico sta lottando per ricavare un senso dall’epoca in cui vive. Ha delle buone ragioni per farlo. La società moderna (e odierna) è in rivolta contro la routine, contro il tempo burocratico che può paralizzare il lavoro o qualunque istituzione.
All’alba del capitalismo industriale, tuttavia, non era così evidente che la routine fosse un male. A metà del Settecento, ricorda Sennett, sembrava che il lavoro ripetitivo potesse condurre in due direzioni diverse, una positiva e fruttuosa, l’altra distruttiva. Il lato positivo della routine era descritto nell’Enciclopedia, curata da Diderot e D’Alembert e pubblicata tra il 1751 e il 1772; il lato negativo del tempo regolare di lavoro era presentato drammaticamente nel saggio di Adam Smith La ricchezza delle nazioni, pubblicato nel 1776. Diderot credeva che la routine nel lavoro potesse essere, come ogni altro tipo di studio approfondito, un insostituibile mezzo di apprendimento; Smith, dal canto suo, riteneva che la routine uccidesse lo spirito.
Oggi, commenta Sennett, la società dà ragione a Smith; Diderot mostra invece cosa potremmo perdere mettendoci dalla parte del suo avversario.
I timori nutriti da Adam Smith e Karl Marx (che studiò a fondo Smith) nei confronti del tempo odierno della routine si sono concretizzati nel “fordismo”: Henry Ford riteneva che le preoccupazioni sulla qualità della vita lavorativa fossero solo “semplici chiacchiere”.
Diderot non credeva che il lavoro di routine fosse degradante; al contrario, pensava che la routine creasse narrazioni esistenziali, man mano che le regole e i ritmi di lavoro cambiavano e si evolvevano.
Marx, dal canto suo, considerava le micronarrazioni presenti nelle vite dei lavoratori trascurabili nel più ampio contesto della Storia.
Il più importante erede moderno di Diderot, il sociologo Anthony Giddens, ha puntato sul valore fondamentale dell’abitudine sia nelle pratiche sociali sia nella comprensione di sé: noi testiamo le nostre alternative solo in relazione ad abitudini già padroneggiate.
La parola flexibility (“flessibilità”) è entrata nella lingua inglese nel Quattrocento a indicare, inizialmente, la semplice constatazione che i rami di un albero, anche se possono essere piegati dal vento, dopo un po’ tornano nella posizione di partenza. “Flessibilità”, prosegue Sennett, indica appunto sia la capacità dell’albero di resistere, sia quella di tornare alla situazione precedente.
Da un punto di vista ideale, il comportamento umano dovrebbe avere le stesse caratteristiche: sapersi adattare al cambiamento delle circostanze senza farsi spezzare.
“Oggi la società sta cercando dei modi per distruggere i mali della routine creando istituzioni più flessibili. La pratica della flessibilità, tuttavia, si concentra soprattutto sulle forze che piegano le persone”[2].
Mentre Adam Smith era un moralista interessato alla simpatia, o empatia, gli studiosi di economia politica che ne seguirono si concentrarono su un altro valore etico.
Per John Stuart Mill, il comportamento flessibile porta alla libertà personale, e noi siamo ancora disposti a pensare che le cose stiano così: ci immaginiamo che essere aperti al cambiamento, essere flessibili, sia una qualità indispensabile per agire liberamente, perché gli esseri umani sono liberi proprio perché sono capaci di cambiare.
“Nel nostro tempo, tuttavia, la nuova economia politica tradisce questo desiderio di libertà individuale. La rivolta contro la routine burocratica e la ricerca di flessibilità ha prodotto nuove strutture di potere e di controllo, piuttosto che creare le condizioni per la nostra libertà”[3].
Il sistema di potere implicito nelle odierne forme di flessibilità, prosegue Sennett, consta di tre elementi:
1) reinvenzione discontinua delle istituzioni;
2) specializzazione flessibile della produzione;
3) concentrazione di potere senza centralizzazione.
Il cambiamento flessibile attualmente in voga tenta di reinventare le istituzioni irrevocabilmente, in modo che il presente diventi discontinuo e irregolare rispetto al passato.
“La chiave di volta della moderna pratica di gestione è l’idea che le reti aperte siano più disponibili a reinvenzioni radicali che dominavano l’era fordista. Nella rete, la giunzione tra i nodi è meno rigida, ed è possibile – perlomeno in teoria – eliminare una parte del sistema senza distruggerne altre. Il sistema è frammentato e questo offre la possibilità di intervenire. È la sua stessa incoerenza a suggerire le ristrutturazioni”[4].
La specializzazione flessibile (secondo punto) è l’antitesi del sistema di produzione fordista.
La specializzazione flessibile si associa bene con l’alta tecnologia e, dal canto suo, anche l’odierna velocità delle comunicazioni ha favorito la specializzazione flessibile, rendendo prontamente disponibili per un’azienda i dati del mercato globale. Inoltre, questa forma di produzione richiede che vengano prese decisioni in tempi rapidi, e quindi ben si adatta ai piccoli gruppi di lavoro.
La componente più caratteristica di questo nuovo processo produttivo è la disponibilità a lasciare che le mutevoli richieste del mondo esterno determinino la struttura aziendale interna.
La concentrazione senza centralizzazione (terzo punto) è un modo per trasmettere gli ordini in una struttura divenuta complessa, che non ha più, quindi, la semplicità di una piramide. Nelle moderne organizzazioni che praticano la concentrazione senza centralizzazione, il controllo dall’alto è saldo, ma senza volto.
In tutte le forme di lavoro, dallo scultore al cameriere, le persone si identificano con le mansioni impegnative e difficili. Ma in questo sistema flessibile di lavoro, con i lavoratori poliglotti che vanno e vengono a intervalli irregolari, e gli ordini che variano da un giorno all’altro, le macchine finiscono per essere l’unico vero punto di riferimento, e così devono essere facilmente utilizzabili da chiunque. Generalmente, in un regime flessibile, le difficoltà e gli intoppi sono controproducenti.
Però, puntualizza Sennett, quando le cose si semplificano nel loro utilizzo, il nostro impegno nel lavoro diviene più superficiale, mancando sempre più la consapevolezza di ciò che stiamo facendo.
In un mondo flessibile è facilissimo perdere l’orientamento, anche in situazioni molto comuni.
Assumersi dei rischi può essere, in molte circostanze, una prova di carattere.
Tuttavia, la disponibilità a correre rischi non viene più considerata, oggi, territorio esclusivo dei capitalisti d’assalto o degli individui particolarmente avventurosi: il rischio sta diventando una quotidiana necessità di massa.
L’assunzione dei rischi, prosegue Sennett, manca del carattere della narrazione e non si trova in uno stato in cui ogni evento conduce ad un altro e lo condizioni.
In particolare, la moderna cultura del rischio si distingue dalle altre perché i mancati spostamenti sono presi come segno di fallimento, e la stabilità sembra quasi la morte.
Le nuove condizioni del mercato obbligano molta gente a correre rischi anche notevoli, anche se le possibilità di guadagno sono limitate.
Nello specifico, puntualizza Sennett, in mancanza di un sistema burocratico che distribuisca la ricchezza in maniera gerarchica, “i compensi vengono attirati dagli individui più potenti […]. La flessibilità accentua quindi l’ineguaglianza attraverso questo tipo di mercato”[5].
Il nuovo stato di cose nega che lo scorrere del tempo necessario per accumulare capacità e competenze faccia guadagnare, ad una persona, posizioni e diritti.
“Se il rifiuto dell’esperienza fosse semplicemente un pregiudizio imposto dall’esterno, noi individui di mezza età saremmo solo le vittime di un culto aziendale nei confronti della gioventù.
Ma le preoccupazioni create dal trascorrere del tempo trovano in noi radici più profonde. Sembra che il trascorrere degli anni ci svuoti, e le nostre esperienze appaiono come una serie di cose di cui vergognarsi. Convinzioni del genere mettono a rischio la nostra autostima attraverso l’inesorabile trascorrere degli anni, piuttosto che attraverso la decisione di giocare d’azzardo”[6].
In un’economia continuamente soggetta a ristrutturazione, che detesta la routine e si basa sul breve termine, non esistono più traiettorie definite; le persone sentono la mancanza di rapporti umani stabili e di obiettivi a lungo termine.
L’etica lavorativa è oggi l’arena in cui la profondità delle esperienze viene messa maggiormente in discussione.
L’etica lavorativa attuale si concentra sul lavoro di gruppo; esalta, dunque, la ricettività nei confronti degli altri e richiede qualità come il saper ascoltare gli altri, la disponibilità a collaborare, l’adattabilità alle circostanze. “Il lavoro di gruppo è l’etica lavorativa adatta a un’economia flessibile”[7].
Nell’Etica protestante, Weber si concentrò su un aspetto della dottrina protestante che rendeva impossibile assumersi la responsabilità per la storia della propria vita. Infatti Lutero aveva dichiarato che nessuno poteva dirsi sicuro della propria contrizione. Quindi, il cristiano è per forza di cose incerto sulla propria capacità di giustificare la propria vita. Questa è l’eredità dei protestanti: ci si deve guadagnare una posizione morale, ma non si può mai dire con certezza di essere buoni. Duro lavoro, dunque, e un costante orientamento al futuro.
Le moderne forme di lavoro di gruppo, prosegue Sennett, sono per molti versi agli antipodi dell’etica lavorativa descritta da Max Weber. “Possedendo un’etica collettiva contrapposta a quella dell’individuo, il lavoro di gruppo valorizza la collaborazione reciproca, piuttosto che la dimostrazione del valore personale”[8].
E come mantenere il più coeso possibile un gruppo di lavoro? “I gruppi hanno la tendenza a restare uniti limitandosi a sfiorare la superficie della cose; la condivisione degli aspetti superficiali mantiene la gente unita evitando le domande difficili e personali, che possono creare divisioni”[9].
Anche il distacco è un necessario requisito per la stabilità della squadra: ci si deve poter allontanare dalle relazioni stabilite e decidere in che modo potrebbero essere cambiate; il compito attuale richiede ripensamenti mirati, piuttosto che l’immersione in lunghe e intricate vicende.
Nell’ambiente (superficiale) creato dal lavoro di gruppo vi è il potere ma non l’autorità. Una figura autorevole, precisa Sennett, si assume la responsabilità per il potere che essa stessa regola e controlla, al contrario di ciò che attualmente avviene, dove si cerca di evitare l’assunzione di responsabilità per ciò che si fa.
Il fallimento è uno dei grandi tabù moderni, ed è diventato un evento più familiare anche nelle vite borghesi.
Il tempo serrato e flessibile del nuovo capitalismo sembra rendere impossibile creare una continuità narrativa dai propri lavori; eppure, se non tentiamo di trovare un qualche scopo ci troviamo a tradire noi stessi.
“La psiche si trova in uno stato di infinita trasformazione e l’identità non finisce mai: in queste condizioni non può esserci nessun racconto coerente della propria vita, nessun momento illuminante di cambiamento che getti luce su tutto l’assieme”[10].
Una simile visione, talora definita “postmoderna”, rispecchia la condizione del tempo nell’attuale economia. “Un io flessibile, un collage di frammenti sottoposti a un incessante divenire, sempre aperto a nuove esperienze: sono proprio queste le condizioni psicologiche più adatte al lavoro a breve termine, alle istituzioni flessibili e alla costante assunzione di rischi”[11].
Ma, ammonisce Sennett, se si crede che la storia di una vita sia solo un collage si frammenti, non si può comprendere fino in fondo il collasso di una carriera, nonché il peso del fallimento.
Chiunque abbia sperimentato appieno il fallimento riconoscerà che, con la distruzione della speranza e dei desideri, l’unico modo per rendere tollerabili i fallimenti è mantenere attiva la propria voce. Non basta dichiarare la propria volontà di resistere.
Per Sennett, la più convincente tra le proposte pratiche conosciute per affrontare i problemi posti dal neo-capitalismo si concentra sui luoghi in cui quest’ultimo opera.
Il “luogo” è una nozione geografica, una collocazione di natura politica; se, invece, si parla di “comunità” si evoca una dimensione sociale e personale.
Un luogo diviene una comunità quando le persone usano il pronome “noi”.
Parlare così richiede un attaccamento particolare: una nazione può formare una comunità quando, al suo interno, la popolazione realizza concretamente, nella vita quotidiana, credenze e valori condivisi.
“Una delle conseguenze involontarie del capitalismo contemporaneo è quella di aver rafforzato il valore dei luoghi, di aver creato un desiderio di comunità”[12], desiderio che si esprime in termini difensivi, spesso sotto forma di rifiuto nei confronti degli immigrati o di altri stranieri.
Che cosa può insegnare un singolo fallimento? Che non siamo autosufficienti a lungo termine. Ma la vergogna provocata dall’aver bisogno degli altri erode la fiducia e la reciproca dedizione: l’assenza di questi vincoli sociali minaccia il buon andamento di qualunque impresa fondata su più persone.
“Fiducia”, “responsabilità reciproca”, “dedizione”, sono tutti termini di cui si è appropriato il “comunitarismo”. Il movimento in questione si propone di rafforzare le norme morali e richiedere agli individui di sacrificarsi per gli altri, promettendo che, se la gente obbedisce a norme comuni, troverà un coinvolgimento emotivo reciproco impossibile da sperimentare singolarmente.
“Secondo me però il comunitarismo ha ben pochi diritti a rivendicare diritto sulla fiducia o sulla dedizione: infatti enfatizza eccessivamente l’unità come fonte di forza comunitaria, e sbaglia nel temere che i vincoli sociali siano minacciati quando in una comunità si creano dei conflitti”[13].
Il sistema, tuttavia, irradia indifferenza verso gli sforzi umani e lo fa organizzando l’assenza di fiducia (ossia uno stato in cui non c’è motivo di aver bisogno di qualcuno). E come? Ristrutturando le aziende, rendendole luoghi in cui i dipendenti sono trattati come se fossero liberamente eliminabili e dunque non necessari.
Questo stato di cose può perdere la presa che attualmente ha sull’immaginazione e sui sentimento di chi si trova in basso? Sì, asserisce Sennett, ma “se il cambiamento deve verificarsi, si verifica sul terreno tra gente che parla con franchezza dei propri bisogni interiori più che attraverso sollevazioni di massa. Ma un regime che non fornisce agli esseri umani ragioni profonde per interessarsi gli uni degli altri non può mantenere per molto tempo la propria legittimità”[14].
Un saggio non soltanto filosofico, ma di marcate implicazioni sociali ed economiche con, alla base, una lucida ed impegnata analisi della società, confermata dal frequente ricorrere ad esempi concreti di persone, le cui vite sono messe a dura prova dalla flessibilità.
“Flessibilità”.
Il saggio di Sennett ha l’ulteriore pregio di aver richiamato l’attenzione su questo vocabolo qualche anno prima che diventasse drammaticamente di largo utilizzo in ambito socio-economico: ed è la situazione che stiamo fronteggiando.
R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2005.
NOTE:
[1] R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, Milano 2005; pp. 28-29.
[2] Op. cit., p. 45.
[3] Op. cit., p. 46.
[4] Op. cit., p.47.
[5] Op. cit., p.89.
[6] Op. cit., p. 97.
[7] Op. cit., p. 100.
[8] Op. cit., p. 107.
[9] Op. cit., p. 109.
[10] Op. cit., p. 134.
[11] Op. cit., p.134.
[12] Op. cit., p. 139.
[13] Op. cit., p. 143.
[14] Op. cit., p. 148.
*Alberto Rossignoli, nato a Legnago (Vr) il 27/9/1983, ha conseguito una laurea triennale in Filosofia (2008) e una laurea magistrale in Scienze Filosofiche (2010) all’Università di Verona.