Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

2014_33luddites

Quattro differenti forme di luddismo di fronte alle macchine nella filosofia andersiana

1 commento

> di Giorgio Astone*

andersstern

1. Introduzione

Nel pensiero di Günther Anders argomentazioni filosofiche si fondono alla narrativa: concetti nuovi o rielaborati vengono espressi egregiamente tramite la creazione di personaggi ambigui, tesi fra la realtà della cronaca e delle esperienze personali dell’autore e parossismi idealizzati se non, in alcuni casi, favole [1].
Tuttavia ciò non pregiudica la serietà e la drammaticità che tali figure letterarie incarnano. Nell’insieme della raccolta di saggi dell’opera principale di Anders, L’uomo è antiquato, è possibile seguire le tracce di tre di esse per ricomporre in un unico quadro le diverse forme di frustrazione e malessere che l’uomo moderno prova nella società tecnocratica per la sua mancanza di libertà e per l’incapacità d’essere, anch’egli, una macchina perfettamente funzionante.

2. Luddismo sublimato: la vicenda del generale Douglas McArthur e la sua vendetta

Nella congerie di ritratti che il filosofo d’origini ebraiche crea dal nulla ve ne sono alcuni che possiedono tratti di persone reali e storiche: è il caso del generale americano Douglas McArthur e del suo verdetto allo scoppio della guerra in Corea. Durata appena tre anni, il placet di McArthur all’intervento dell’esercito statunitense avrebbe potuto dare il via alla Terza Guerra Mondiale; ciò non avvenne, secondo la ricostruzione degli eventi del filosofo di Breslavia, per il veto d’un «Electric brain»[2]. Al calcolatore venne affibbiato il compito di misurare perdite e profitti in termini economici e, in via del tutto previsionale, di fungere da oracolo sulla vittoria o meno: trovando sconveniente l’intervento in guerra, il Pentagono decise di non seguire le direttive del generale, il quale si dimise per l’umiliazione.
Questo «avvenimento storico identificabile»[3] ha un valore emblematico per la nozione di «vergogna prometeica»: il concetto più celebre della filosofia andersiana indica propriamente la “vergogna” non dell’uomo naturale nei confronti della sua parte reificata, ma dell’uomo reificato nei riguardi del suo lato ancora naturale, che lo fa fallire e sfigurare dinnanzi alla perfezione artificiale delle macchine.
Pur insistendo sulla verificabilità della sua ricostruzione, il singolo personaggio storico, McArthur, non è che una dramatis persona [4], un rappresentante dell’umanità e della sua facoltà di scegliere il proprio destino: quando «la decisione se si dovesse rischiare o meno tale conseguenza gli fu tolta dalle mani»[5], avvenne una tacita ammissione di superiorità della macchina nei confronti dell’uomo [6]. Il paradosso è evidente: il calcolatore non solo è aruspice dei dati raccolti ma, in questo caso, il suo freddo raziocinio sembra parodiare il pacifismo, avendo dato il responso che per intellettuali come Anders sarebbe sembrato in ogni caso l’unico moralmente accettabile. Si può considerare questa scelta una vera vittoria contro il bellicismo? Anders non si spinge ad enunciare che la scelta di McArthur sarebbe stata più «umana» (pur essendo un passo abbastanza consequenziale nel suo ragionamento), ma il responso cibernetico non offre ai cittadini un’occasione per “interiorizzazione” e può essere catalogato, semmai, come una forma di Provvidenza che viene dall’alto:

«dire che la responsabilità gli “venne tolta” in quanto uomo è certo un modo di esprimersi capzioso. Perché il potere che gli sottrasse la decisione non fu una istanza sovrumana, non la μοῖρα o la τύχη o “Dio” o la “storia”, ma l’uomo stesso; che, depredando per così dire la sua sinistra con la sua destra, depose la preda (la sua coscienza e la sua libertà di decisione) sull’altare della macchina; e dimostrò così di subordinarsi a questa, al robot-calcolatore fatto da lui stesso, e di essere pronto a riconoscerlo quale surrogato di coscienza e quale macchina-oracolo, anzi macchina-provvidenza»[7].

Vi sono altre conseguenze non meno paradossali che si possono dedurre dal rimettere una decisione storica nelle mani di un’intelligenza artificiale. La prima è che, ammesso e non concesso che l’evento abbia ricevuto quantomeno una rilevanza mediatica simile a quella filosofica che Anders gli attribuisce, tale auto-degradazione non viene avvertita in quanto tale: «in quell’occasione […] l’umanità […] non sentì l’umiliazione di umiliarsi pubblicamente»[8]. Non il discutere di questo evento e della sua importanza, ma il non discuterne, il viverlo come un destino, come può essere interpretato se non in quanto abbandono volontario?
In secondo luogo bisogna soffermarsi sulla procedura che permette alla macchina di dare un responso. È vero che il calcolatore viene «foraggiato» con dei dati, ma cosa sono questi “dati” se non cifre numeriche?[9] Ciò comporta una totale conversione nel quantitativo di ciò che c’era di morale, e dunque di qualitativo, nella decisione. Non è solo la natura della risposta il quid che desta confusione ma anche il concetto stesso di «problema», che viene svuotato di tutti i significati di coscienza che siamo soliti attribuirgli: per lo strumento che rappresenta fino al midollo la razionalizzazione weberiana, orientata ad un fine pure nel suo modo di valutare, non vi sono «i problemi stessi, se tali problemi non sono calcolabili»[10].
La vicenda di McArthur ha un seguito; dopo le dimissioni e la sua borghesizzazione, in una svolta che l’autore stesso non tarda a definire simile a un espediente della «Philosophy Fiction»[11], l’ex-generale diventa presidente di un’impresa che produce macchine da ufficio. Questo, commenta Anders, non può essere casuale: McArthur è un esempio di individuo traumatizzato dal macchinale che, a dispetto delle previsioni, non si rassegna; si potrebbe dire che pur stando agli antipodi della concezione politica di Anders, egli non sia una figura del tutto priva di nobiltà e fierezza. Nonostante questo, i risultati sembrano grotteschi: il “luddismo sublimato” viene esperito dal militare tramite una specie di vendetta nella gestione, questa volta da Signore [12], delle macchine a lui subordinate: «solo colà poteva dominare sulle macchine prepotenti e umiliarle, almeno nel campo degli affari e dell’amministrazione; solo colà saziare il suo desiderio di vendetta»[13]. Un atteggiamento di questo tipo, che fa contraltare alla sottomissione e alla conformazione, è espresso con altri termini da un noto aforisma di Franz Kafka, intitolato “L’animale prende la frusta”:

«L’animale strappa di mano la frusta al padrone e si frusta da sé per diventare padrone e non sa che questa è soltanto una fantasia prodotta da un nuovo nodo della correggia della frusta del padrone»[14].

mill-featured

3. Il luddismo disciplinato: l’abreazione insita nella ludopatia

Indagando il modo in cui la Verdinglichung (Reificazione) si riscopre, mutata e più profonda, sotto il telo della spontaneità e dell’abbandono dell’azione in favore delle macchine, possiamo analizzare tutti i riferimenti alla ludopatia in un altro saggio dell’autore, datato 1961, Il mondo umano; l’occasione dello scritto è la rielaborazione degli appunti di quello che Anders chiama “il diario di Tokyo”, concepito nel 1958.
Fra le figure più importanti estratte dai suoi quaderni il filosofo torna in particolar modo su un giocatore compulsivo di una sala di pachinko. Accorgendosi col trascorrere delle ore che il giocatore permaneva in una sorta di trance accompagnata da gesti compulsivi, e della protesi alla gamba dell’uomo, che suggeriva il caso d’un reduce di guerra, Anders incalza il lettore con diverse domande prima d’avventare la sua interpretazione: «perché quell’uomo è già tornato o è ancora lì? Perché per lui non suonano le ore? Quale sex-appeal lo trascina tra le braccia della sirena cromata? Quale forza magnetica gli impedisce di strapparsi da lei?»[15]. Per interpretare la dipendenza dell’uomo dal gioco il rischio più frequente, in cui cade ancora oggi la psicologia applicata, è quello di impiegare un concetto di “sostituzione” classico ed eccessivamente astorico, che non prende le mosse da una visione d’insieme della società iper-tecnologica. L’investimento libidico nei confronti di un oggetto, spiegabile in vista d’una sostituzione e spesso eccessivo [16], era già supposto nel Freud del 1915 di Lutto e melanconia; a parere di Anders è evidente il desideratum d’una psicologia che non indaghi i rapporti fra gli uomini e le macchine come patologie di relazioni mancate o interrotte o di disturbi col proprio Io, ma che li attualizzi da un punto di vista collettivo; più precisamente, non si tratta solo di casi patologici ma, al contrario, della normalità del comportamento contemporaneo e, presto o tardi, anche di una normatività richiesta agli attori sociali [17]:

«L’ipotesi del gioco come sostituzione non solo è sbagliata ma anche ingenua, giacché presume qualcosa che non soltanto non corrisponde ai fatti ma addirittura li capovolge; capovolge cioè l’ipotesi che i rapporti umani siano ancora, in primo luogo, rapporti con uomini. Al contrario, oggi è spesso vero il contrario; cioè, che il mondo quotidiano con cui gli uomini hanno a che fare è in primo luogo un mondo di cose e di apparati meccanici, nel quale esistono anche altri uomini; non un mondo umano nel quale esistono anche cose e apparati»[18].
Le osservazioni di Anders sulla psicologia [19], che è rimasta indietro rispetto ai passi da gigante dello sviluppo tecnico e alle sue conseguenze sull’essere umano, sono frequenti. Basti pensare agli allarmi presenti negli stessi titoli delle raccolte di saggi andersiani: nel primo volume de L’uomo è antiquato si parla soltanto di «considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale» (per l’appunto, il sottotitolo dell’opera), mentre nel secondo volume troviamo l’icastica e significativa espressione Zerstörung (des Lebens), ossia «distruzione della vita»; allarmi che da qualsiasi psicologo verrebbero molto probabilmente etichettati come estreme esagerazioni. Il filosofo si chiede come sia possibile, viceversa, rimanere ancorati ad una tale cecità; tornando alla ludopatia, ad esempio, dovrebbe essere obbligatorio per una nuova psicologia domandarsi «se oggi una gran parte delle nostre energie non sia destinata alle macchine»[20].
Nonostante i limiti, nell’insieme, del campo di studi psicologico e psicoanalitico, però, Anders si serve proprio di un concetto nato all’interno di alcuni approcci terapeutici della psicoanalisi per rivolgere al fenomeno della relazione con le macchine una sua personale interpretazione: l’abreazione. Nell’azione compulsiva del gioco il reduce di guerra giapponese ricerca una purificazione, una κἁθαρσις diversa da quella aristotelica perché inefficace e richiesta perennemente e con maggiore frequenza (dipendenza): nel contatto fra la mano e le manopole cromate passa una scarica emozionale e sostitutiva della violenza accumulata nella psiche, che vorrebbe rivolgersi contro il vero colpevole ma trova un supporto adatto a tale scopo per disperdere “il colpo”. Il risentimento, l’odio, e, si potrebbe aggiungere anche alla lista, la frustrazione, vengono veicolati continuamente nella società delle macchine verso canali di sfogo costruiti ad hoc (possiamo pensare oggi alla pornografia, alle realtà virtuali invasivamente assorbenti e alla diffusione di massa delle palestre, insieme alle più particolari rage rooms [21]), permettendo il protrarsi della situazione patogena ad infinitum. La diffusione di queste forme di punchballs sociali e l’utilizzo del termine “abreazione” ci porta molto lontano rispetto al suo sorgere nell’ambito degli Studi sull’isteria (1895) di Breuer e Freud: lì si trattava più che altro dello sblocco di un “nodo” all’interno della coscienza, risolto dall’ipnosi attraverso l’esame dell’evento rievocato e la liberazione delle energie (abreazione) prima frenate ed aggrovigliate. In Anders troviamo, invece, degli «apparecchi ad abreazione»[22] totalmente esterni che non portano nessun miglioramento terapeutico se non da una prospettiva meramente comportamentista ed animale; l’abreazione equivale a uno sfogo che permette di procrastinare fino ad un termine indefinito la vendetta vera e propria:

«Se ti prudono le dita per il desiderio di picchiare la tua famiglia – consiglia una regola di casa molussica [23] –, picchia la serva! E se non hai una serva, procuratene una a tale scopo!». Tali apparecchi sono «serve» di questo tipo. Sono creati a questo scopo. A questo scopo vengono installati. Ma in tal caso, chi è la «famiglia» a cui sono indirizzate queste bastonate? Sono le macchine, insieme con le quali gli uomini devono trascorrere, giorno dopo giorno, la loro vita. Che giorno dopo giorno essi devono servire. Di cui sono schiavi quotidiani. Contro le quali è indirizzato il loro risentimento. Il loro odio»[24].

Lo stato della psiche nel mondo tecnologizzato è tale che A) viene scomposta e meccanizzata e le sue qualità raziocinanti e quantitative diventano le maggiori doti per il suo Anpassung (adattamento [25]) rispetto al contesto sociale; B) in parte non riesce a seguire l’avventurarsi verso i terreni inesplorati della macchinazione e le sue facoltà arrancano faticosamente dietro l’enorme susseguirsi di avanzamenti tecnici (l’espressione concettuale usata dal filosofo tedesco per indicare tale “scarto” è: «dislivello prometeico»); C) in parte riesce a trasformare quella zona più istintuale e pulsionale, l’Es, in un “Es-Macchina”, che si rivolge contro il vecchio Io e produce in esso vergogna per la propria rigidità antiquata (in questo caso, invece, si parla di «vergogna prometeica»).
Per capire meglio come sia possibile, inoltre, in una sorta equivoco frequente e di notevole importanza socio-antropologica, traslare l’odio nei confronti delle macchine (supposto da Anders come vero non-detto della modernità) in odio nei confronti del mondo stesso sarà opportuno accennare alla teoria espansionistica della macchina espressa nella lettera aperta a Klaus Eichmann del 1964, nel capitolo intitolato Il sogno delle macchine. Includendo, qui e altrove, nell’ambito delle macchine non solo gli apparecchi ma anche gli apparati organizzativi, politici ed economici, che hanno incorporato nel loro funzionamento tale fare macchinale e la connessa razionalità formatrice, Anders sostiene in questo luogo che «il nostro mondo, nel suo insieme, si sta trasformando in una macchina»[26]. Questo non è solo un dato di fatto legato alla storia del XIX secolo e alla nascita della burocrazia nel lavoro amministrativo: si tratta di una metamorfosi sostanziale, una conversione sotterranea di alcune forme essenziali del βίος, insita nel «principio delle macchine» di porsi come fine, sempre e comunque, il «massimo rendimento»[27]:

«Non possiamo permetterci di considerare le macchine come singole cose a sé stanti, come se fossero pietre, che stanno soltanto là dove sono, restando quindi circoscritte nelle loro delimitazioni fisiche. Poiché la raison d’être delle macchine è il rendimento, addirittura il massimo rendimento, hanno bisogno – e precisamente ognuna di esse – di ambienti che garantiscano tale maximum. […] Ogni macchina è espansionistica, per non dire «imperialistica»; ognuna di esse si procura un proprio regno coloniale di servizi (costituito da fornitori, da squadre operative, da consumatori ecc.) […] Insomma pretendono che essi (i lavoratori), nonostante si trovino al di fuori della «madre patria», diventino «co-meccanici» [mit-maschinell[28].

La metafora del regno coloniale e l’essere co-meccanico chiarisce perfettamente cosa si cerca d’intendere con il termine “apparato” in relazione alla macchina: l’insieme delle funzioni del mondo, “qualitativamente” (se così si può dire) ridotto alla contabilità e all’efficienza delle prestazioni, fanno dell’insieme del mondo sociale un «parco macchine»[29] che mira in ogni sua parte ad essere «gleichgeschaltet» (sincronizzato [30]), tale da evocare un paragone-limite come quello di un’organicità dell’inorganico.

4. Luddismo a rovescio: un commento filosofico al massacro di My Lai

Il luddismo classico, in quanto rivolta contro le macchine che depauperano gli operai inglesi del XIX secolo e sottraggono posti di lavoro, era diventato “luddismo indiretto” nel caso del cittadino che nel tempo libero sfida la macchina nel gioco d’azzardo (slot machines, i moderni videopoker o l’alternativa giapponese dei pachinkos) per rifarsi dell’umiliazione e della sottomissione subita nel resto della sua vita dal sistema tecnico. “Luddismo indiretto” poteva essere rintracciato anche nell’atteggiamento di sfogo senza scopo delle nuove generazioni e nel loro astratto odio nei confronti del mondo-macchina. Insieme alla gestione dell’azienda di McArthur riletta come luddismo sublimato, esiste anche una quarta forma di luddismo, definita da Anders «luddismo a rovescio» o «ritraduzione»[31] (nel senso di riassestamento, come vedremo).
Il luddismo ritradotto non si verifica in una situazione di disagio nei confronti delle macchine, ma riguarda bensì lo sfogo (che porta anche ad esiti particolarmente tragici) di coloro che ad esse vorrebbero totalmente abbandonarsi e trovano ancora degli ostacoli nei retaggi del passato (ad esempio, nella morale comune); è semplice spiegare questa forma di dislivello, questa volta non concernente le facoltà interne ma istanze del mondo civile, usando alcune categorie marxiste: si tratta di una Gefälle (discrepanza, per l’appunto) «tra la «base» (già attuale) e la «sovrastruttura» (ancora vecchia)»[32]. Il caso par excellence ove si verifica l’esigenza di una mancata ritraduzione delle sovrastrutture è la guerra: con le nuovi armi che producono effetti incommensurabilmente più incisivi delle antecedenti, i dettami della morale sembrano delle pastoie per i soldati desiderosi di non avere alcun rimorso e sentirsi conformi all’apparato che incarnano; essi incarnano nuove classi del contesto sociale che, bramando una sperimentazione senza freni della tecnocrazia, fanno scaturire nuove minacce nei riguardi della morale (intesa come patrimonio lentamente accumulato nei secoli).
Il filosofo anti-atomico non fa riferimento soltanto agli episodi della Seconda Guerra Mondiale ma, in questo caso, ad un tristemente celebre massacro di civili della guerra del Vietnam, datato 1968, che venne compiuto nel villaggio di My Lai da parte delle truppe statunitensi. L’episodio venne ricondotto dagli storici ad una sorta di follia collettiva del battaglione del sottotenente William Calley, fermato da altri soldati americani intervenuti sul posto successivamente; l’interpretazione di Anders, che sembra spingersi molto oltre i reportages ed assumere maggiormente una valenza speculativa che cronachistica, assume come fondamento la discrepanza fra quanto permesso nelle barbarie agli attacchi indiretti, con particolare riferimento ai bombardamenti e all’impiego di gas dagli elicotteri americani, e quanto impedito ai soldati privi di mezzi aerei, i fanti contemporanei, con motivazioni morali inibitrici. I militari statunitensi avrebbero dunque deciso di abbandonarsi alla piena potenzialità delle loro armi in quella singola occasione, stabilendo non solo di mostrare al nemico l’effettiva potenza bellica, ma di dimostrare a se stessi il loro massimo grado di simbiosi con la macchina prima impedito; nel testo andersiano si può leggere:

«Sebbene la superiorità dell’apparato di annientamento, di cui i GIs facevano parte come componenti, fosse fuori discussione, ci si attendeva e si pretendeva da questi, il che era una contraddizione in termini, che restassero ancora in qualche modo fedeli a precedenti postulati di comportamento «pretecnici»; che dunque si comportassero nel loro agire diretto ancora diversamente dagli apparati; altrimenti cioè da come avrebbero potuto, anzi dovuto comportarsi indirettamente, in quanto squadre di servizio degli apparati in azione. […] Non era lecito ai GIs compiere direttamente con le proprie mani quello che invece era permesso, anzi comandato, ai piloti degli elicotteri con l’ausilio di bombe e napalm: cioè di radere al suolo i villaggi sterminandone le popolazioni»[33].

La distanza fra l’agire diretto e l’agire indiretto [34] solleva una problematicità nelle considerazioni morali sulla guerra: «Nessuno è in grado di sostenere alla lunga una simile dissociazione, un simile dislivello tra la morale umana e quella dell’apparato»[35]. Il filosofo, da questo punto di vista, non riconosce ai bombardamenti un valore potenzialmente selettivo, che limiterebbe i danni civili, e non fa distinzione fra questi tipi di violenza; nelle guerre degli ultimi vent’anni in Medio Oriente sono stati pur presenti bombardamenti aerei ma è lecito affermare che la natura degli attacchi aerei durante la guerra del Vietnam fosse di natura sostanzialmente diversa, considerata anche la conformazione dei “campi di battaglia”, spesso foreste, e dell’impiego di gas tossici effusi dagli elicotteri.
Nonostante ciò, la discrepanza evidenziata da Anders, se la si riporta all’oggi, si manifesta in maniera evidente nel sistemi di volo APR (aerei a pilotaggio remoto), comunemente chiamati droni: si potrebbe scorgere nell’aereo senza pilota, guidato tramite comando remoto, la scaturigine di un superamento di quell’impasse fra la coscienza umana e la distruttività dell’arma che il filosofo evidenziava nel 1978. L’automazione di armi intelligenti e il crescente sostituirsi ai soldati in carne ed ossa potrebbe equivalere a quella ritraduzione fra base e sovrastruttura di cui si accennava, dove la base è la tecnica e la sovrastruttura non è più la morale dell’uomo, impiegato come mezzo d’attacco, ma una nuova conformazione della guerra, priva di soldati umani (ma non di vittime) : un confronto fra apparati meccanici delle potenze in scontro senza riguardi per la sfera etico-riflessiva in generale.

Bibliografia

Günther Anders, L’uomo è antiquato. I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
Günther Anders, L’uomo è antiquato. II. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2010.
Günther Anders, Noi figli di Eichmann, Giuntina, Firenze, 2007.
Günther Anders, Lo sguardo dalla torre, Mimesis, Milano, 2012.
Günther Anders, La catacomba molussica, Lupetti, Milano, 2008.
Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Ponte alle Grazie, Bergamo, 2012.

NOTE:
[1] Mi riferisco, ad esempio, alla raccolta di favole intitolata “Lo sguardo dalla torre”. Günther Anders, Lo sguardo dalla torre, Mimesis, Milano, 2012.

[2] Günther Anders, L’uomo è antiquato, I. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino, 2010, p. 63.

[3] Ibid.

[4] Ivi, p. 65.

[5] Ivi, p. 63.

[6] In maniera molto chiara: «Se la decisione fu sottratta a McArthur, non lo fu in quanto era McArthur, ma in quanto era un uomo; e se il cervello meccanico fu preferito a quello di McArthur, ciò non avvenne perché si avessero motivi speciali di diffidare della intelligenza di McArthur, bensì perché anche McArthur aveva soltanto un cervello umano», Ibidem. E ancora: «l’avvenimento in sé rappresenta al tempo stesso la sconfitta della massima portata storica che l’umanità si sia mai inferta: perché mai prima si era abbassata al punto di affidare a un oggetto la sentenza da cui dipendeva la sua storia, forse anche il suo essere o non essere», Ivi, p. 65.

[7] Ivi, p. 64.

[8] Ibid.

[9] «La macchina-oracolo venne dunque “foraggiata” – to feed è il termine tecnico per indicare che si rifornisce la macchina dei dati necessari per la decisione – con tutti i dati concernenti l’economia americana e quella nemica. […] la si “foraggiò” esclusivamente con dati che si prestavano a un calcolo quantitativo, che riguardavano dunque l’utilità o la dannosità, le probabilità che la guerra presa in considerazione aveva di riuscire vantaggiosa o meno; ne conseguì automaticamente che (per esempio) la distruzione di vite umane o la devastazione di paesi poterono venir prese in considerazione e valutate, per motivi di pulizia e di chiarezza di metodo, soltanto come grandezze di profitto o di perdita. Quindi domande del tipo se sarebbe stata una guerra giusta o ingiusta non furono nemmeno poste al cervello elettronico: anzi ci si sarebbe vergognati di servirgli cibarie del genere, perché era da prevedere che, nella sua incorruttibile oggettività di oggetto, la macchina avrebbe rifiutato un intruglio soggettivo-sentimentale del genere», Ibidem.

[10] Ivi, p. 65.

[11] Ivi, p. 67.

[12] L’autore dipinge tale impresa in una sequenza simil-hegeliana: «dopo che il “servo” d’un tempo (la macchina) era arrivato a essere il nuovo “signore” e il “signore” di un tempo (McArthur) era stato degradato a “servo”, il “servo” tentò di nuovo a sua volta di farsi “signore del signore” (della macchina)», Ibidem.

[13] Ibid.

[14] Franz Kafka, Aforismi di Zürau, citato in Slavoj Žižek, Benvenuti in tempi interessanti, Ponte alle Grazie, Bergamo, 2012, p. 56.

[15] Günther Anders, L’uomo è antiquato. II, p. 51.

[16] Per tacere della centralità che simili nozioni avranno nell’opera di Donald Winnicott e nella sua teoria sugli oggetti transizionali.

[17] Il filosofo utilizza spesso il termine «musts», ancora oggi molto diffuso, per indicare gli apparecchi indispensabili per il cittadino, senza i quali egli presto non potrà più sopravvivere o verrà emarginato.

[18] Ivi, pp. 51-52.

[19] La psicoanalisi è vista come levatrice del conformismo, soprattutto in riferimento alla sua variante diffusa negli Stati Uniti; questa posizione e un legame esplicitato dallo stesso autore con il Marcuse di Eros e civiltà si trovano nel saggio del 1958 Sulla nudità acustica. Ivi, p. 258.

[20] Ivi, p. 52. Inoltre «Sarebbe insomma necessaria una specifica disciplina psicologica […] il cui compito principale dovrebbe essere quello d’indagare sui nostri rapporti con il nostro mondo degli oggetti e più in particolare con l’attuale mondo delle macchine», Ibid.

[21] Così vengono classificate degli appartamenti, riempiti per l’occasione di mobili e oggetti quotidiani, che vengono resi disponibili da agenzie insieme a delle mazze da baseball o altri mezzi contundenti; i partecipanti possono comprare la disponibilità a distruggere tutto il contenuto della stanza in modo da sfogare lo stress accumulato.

[22] Ivi, p. 53.

[23] La Molussia è l’immaginaria dittatura distopica che Anders tratteggia in tutti i suoi saggi. Simboleggiante l’unione perfetta di dispotismo ed applicazione tecnica (manipolazione delle notizie, monopolio della violenza, soppressione immediata del dissenso, illusioni debordiane), dietro Molussia si nasconde spesso il fantasma del potere nazista o sovietico. Il lavoro, nelle vesti di romanzo, in cui lo stato molussico trova esplicita trattazione è La catacomba molussica (Günther Anders, La catacomba molussica, Lupetti, Milano, 2008).

[24] Ivi, p. 53 e 54.

[25] In perfetta linea con la burocratizzazione delle facoltà umane ravvisata dal filosofo marxista György Lukács.

[26] Günther Anders, Noi figli di Eichmann, p. 54.

[27] È qui evidente il collegamento con i problemi morali della performance del lavoratore e dell’uomo in generale, con la richiesta del “maximum” protratta oltre ad libitum. Il campo semantico a cui l’autore afferisce maggiormente è quello dell’elasticità (metafora dell’elastico che si spezza oltre un punto di non ritorno).

[28] Ivi, p. 55.

[29] Ivi, p. 57.

[30] Riteniamo che la categoria della sincronicità ed il processo della sincronizzazione sia una delle più fondamentali nell’insieme del panorama biopolitico costruito nell’indagine filosofica fra l’ultimo quarto del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio. Si può pensare, en passant, a quale direzione ha preso la riflessione biopolitica dopo Foucault in pensatori come Paul Virilio, Jean Baudrillard o Hartmut Rosa, per non parlare della concettualizzazione di “Sistema tecnico” data dal sociologo Jacques Ellul.

[31] Ivi, p. 268.

[32] Ivi, p. 269.

[33] Ibid.

[34] In maniera ancora più chiara su tale dicotomia si può leggere nelle pagine seguenti: «Ora agli occhi dei GIs, che in definitiva avevano diritto a considerarsi parimenti parti della macchina bellica, doveva risultare non solo inconcepibile ma offensivo e ingiusto non poter compiere le stesse azioni: che cioè la liquidazione indiretta fosse permessa e comandata, quella diretta invece proibita. Essi non potevano tollerare l’iniquità di questo scarto tra l’azione indiretta e quella diretta. Così si lasciarono andare all’azione diretta e fecero fuoco indiscriminately (questo secondo le notizie ufficiali, come se fosse lecito uccidere discriminately) contro donne, vecchi e bambini – ad ogni modo non diversamente dai loro modelli, gli apparati bellici» (corsivi miei). Ivi, pp. 271-272.

[35] Ibid.

* Giorgio Astone, laureato magistrale in “Filosofia e Studi Teorico-Critici” dell’università La Sapienza con una tesi su Günther Anders (“L’inumano latente nella filosofia andersiana”). Attualmente sta scrivendo un progetto di ricerca che tratta prevalentemente di post-modernità, più specificatamente le accezioni filosofico-culturali nate dagli effetti dell’Accelerazione e dell’incremento di Velocità nelle società contemporanee. E’ membro dell’Associazione Athene Noctua e di un progetto chiamato “Supernova”, legato alla creazione di un sito multidisciplinare sempre a carattere universitario.

[Clicca qui per il pdf]

One thought on “Quattro differenti forme di luddismo di fronte alle macchine nella filosofia andersiana

  1. Consiglio a tutti la lettura della biografia intellettuale di Anders, da poco uscita, intitolata “Gunther Anders, la Cassandra della filosofia. Dall’uomo senza mondo al mondo senza uomo” scritta da Cernicchiaro Alessio e pubblicata dalla casa editrice Petite Plaisance.

    Rispondi

Rispondi

Iscriviti