Filosofia e nuovi sentieri

«Mi rappresento il vasto recinto delle scienze come una grande estensione di terreno disseminato di luoghi oscuri e illuminati. Lo scopo delle nostre fatiche deve essere quello di estendere i confini dei luoghi illuminati, oppure di moltiplicare sul terreno i centri di luce. L’un compito è proprio del genio che crea, l’altro della perspicacia che perfeziona» Denis Diderot

Tegere artem: il valore e il limite dell’ars dialectica nella riflessione di Lanfranco di Pavia e Pier Damiani

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> di Alfredo Gatto*


Lanfranco di Pavia e Pier Damiani rappresentano due delle figure più importanti dell’intero panorama dell’XI secolo. Le loro opere costituiscono una via di accesso privilegiata per analizzare e valutare la diffusione e l’importanza dell’ars dialectica nel milieu culturale di questo periodo storico. I due teologi si confrontarono criticamente con i dialettici del tempo, cercando di preservare l’intelligenza spirituale delle Sacre Scritture. Come ha sottolineato Josef Anton Endres [1], prima della controversia tra il nominalismo e il realismo, un’altra disputa aveva occupato il centro della scena: ci stiamo riferendo, naturalmente, al confronto fra i “dialettici”, intenzionati ad applicare ai dogmi cristiani gli strumenti formali della dialettica, e gli “antidialettici”, così chiamati per il loro rifiuto di impiegare in modo acritico le regole dell’ars disserendi allo studio della Bibbia [2]. Sebbene questa classica distinzione sia stata giustamente oggetto di alcune critiche [3], uno schematismo così rigido ci permette tuttavia di collocare i principali nodi concettuali di quella celebre disputatio all’interno di un quadro storico ben preciso.
Le traduzioni latine ed i commentari di Severino Boezio ad una parte dell’Organon aristotelico (Categoriae [4], De interpretatione [5]), ai Topica di Cicerone [6] e alle Isagoge di Porfirio [7], i suoi trattati sul sillogismo categorico [8] e ipotetico [9], il De Divisione [10] e il De Differentiis topicis [11], uniti alle Nozze di Filologia e Mercurio di Marziano Capella [12], al De Dialectica di Alcuino [13] e ad un testo attribuito a Sant’Agostino [14], avevano iniziato a dare vita, soprattutto nelle scuole di Reims, Chartres e Fleury – sotto la guida, rispettivamente, di Gerberto d’Aurillac, Fulberto e Abbone – ad un intenso sviluppo degli studi sulle arti liberali [15].
Prima che l’utilizzo dell’ars dialectica iniziasse ad essere considerata dalle stesse autorità ecclesiastiche un potenziale pericolo per la stabilità della confessione cristiana, era stato Agostino a ritenere che la dialettica potesse chiarificare e rafforzare la realtà della fede. D’altra parte, si domandava il Vescovo d’Ippona, «che cos’altro è infatti la dialettica, se non l’abilità nel discutere [Quid est enim aliud dialectica, quam peritia disputandi]? [16]». La riflessione agostiniana, attribuendo all’ars dialectica una funzione meramente strumentale, non poneva neppure a tema l’eventualità che i suoi risultati potessero contraddire il contenuto della Rivelazione: come Agostino aveva già sottolineato in un passaggio del De Ordine, «la via che seguiamo quando ci pone nel dubbio l’oscurità delle cose è duplice: o seguiamo la ragione, o l’autorità sacra. La filosofia assicura la ragione, ma ne libera a mala pena pochissimi; ad ogni modo, essa non solo non li induce a disdegnare le verità rivelate, ma è la sola che ci permette di comprenderne, per quanto è possibile, il puro pensiero [17]».
Nonostante la chiarezza della posizione agostiniana, alcuni passaggi del vasto corpus del Vescovo verranno utilizzati in modo affatto differente nella controversia eucaristica che vedrà di fronte Berengario di Tours e Lanfranco di Pavia [18]. Alla presenza di Pier Damiani, il sinodo romano presieduto da Leone IX condannò nell’aprile del 1050 le posizioni espresse da Berengario in una lettera indirizzata a Lanfranco. Il contenuto della missiva, dedicata alle corrette fonti carolingie da utilizzare per dirimere la delicata questione del sacramentum altaris, è un vero e proprio atto di accusa, uno scritto polemico con il quale l’eresiarca di Tours intendeva sollecitare una pubblica disputatio con il suo avversario:

«Tu non condividi le opinioni di Giovanni Scoto [in verità, si tratta di Ratramno di Corbie] sull’Eucaristia, e le consideri addirittura eretiche, là dove dissente da Pascasio, di cui hai accolto le opinioni. Se le cose stanno così, fratello, tu disonori la tua intelligenza, la stessa che Dio ti ha donato in modo considerevole, con una conclusione affrettata. In effetti, non sei ancora così esperto nello studio della Scritture e non hai ancora discusso a lungo con i sapienti. E allora, fratello, vista la tua inesperienza su simili argomenti, vorrei tanto poterne discutere con te, nel caso ci fosse l’occasione, alla presenza di qualsiasi giudice adatto o uditorio che tu desideri. Fino a quel momento, non guardare con disprezzo ciò che dico: se tu consideri eretico Giovanni Scoto, le cui sentenze sull’eucaristia noi accettiamo, devi considerare eretici Ambrogio, Girolamo e Agostino [19]».

Berengario, traducendo secondo le leggi della dialettica il mistero della transustanziazione, riteneva che la posizione di Pascasio Radberto, su cui si fondava l’insegnamento dello stesso Lanfranco, fosse in aperta contraddizione con i dettami della ragione. Il retroterra culturale di questa polemica ricalca quindi, per volontà dello stesso Berengario, la disputa che ebbe luogo nel IX secolo fra Pascasio Radberto e Ratramno di Corbie. Invitato a redigere un’esposizione completa del miracolo eucaristico, Pascasio pose l’accento sulla centralità del ruolo svolto dal sacerdote e sul mutamento degli elementi consacrati; per l’abate benedettino, infatti, nel corso della cerimonia «la sostanza del pane e del vino viene efficacemente mutata intrinsecamente nella carne e nel sangue di Cristo, affinché si creda veramente che dopo la consacrazione siano vera carne e vero sangue di Cristo [20]». Il realismo cristologico suggerito da Pascasio venne mitigato dal successivo intervento di Ratramno, intenzionato a ridimensionare un’interpretazione così “fisica” dell’Eucaristia. Secondo il magister di Corbie, dunque, «il corpo e il sangue di Cristo presi dalla bocca dei fedeli, sono, per quanto concerne il loro aspetto visibile, simboli [figurae]; tuttavia, secondo la sostanza visibile, vale a dire per la potenza del Verbo divino, sono veramente il corpo e il sangue di Cristo [21]».
Come ha suggerito Margaret Gibson, il problema sotteso al confronto fra i due magistri era perciò il seguente: «Se il mondo naturale aveva una qualche autonomia, per quanto relativa, allora o le sue leggi erano incessantemente rotte dall’Eucarestia o la mutazione eucaristica doveva essere spiegabile nei termini di queste leggi [22]». Berengario, prendendo partito per la seconda delle alternative disponibili, si guadagnò immediatamente l’ostilità della curia. Dopo il sinodo leonino del 1050, le convinzioni del magister furono nuovamente condannate sia nel settembre dello stesso anno in un sinodo tenutosi a Vercelli, sia nel concilio del 1054 presieduto a Tours da Ildebrando di Soana, il futuro Gregorio VII. Nonostante le svariate condanne, Berengario continuò ad insegnare la propria dottrina sul dogma eucaristico. Venne quindi convocato nuovamente a Roma nell’aprile del 1059, nel corso del sinodo pasquale indetto da Niccolò II, dove fu costretto a leggere la professione di fede redatta dal cardinale Umberto. Dopo una nuova condanna comminata dal concilio di Angers nel 1062, l’avventura concettuale dell’eresiarca di Tours si concluse a Roma nel 1079, nel concilio presieduto da Gregorio VII. Dopo la condanna ricevuta nel sinodo di Tours, Berengario scrisse un breve libello colmo di giudizi particolarmente critici nei riguardi della curia. Sebbene lo Scriptum contra synodum sia andato perduto, siamo in grado di ricostruire parte del suo contenuto grazie al De Corpore et Sanguine Domini [23], scritto da Lanfranco per rispondere alle provocazioni del magister di Tours. La disputa verrà chiusa formalmente da Berengario con il Rescriptum contra Lanfrancum, riscoperto da Lessing nella seconda metà del XVIII secolo nella biblioteca di Wolfenbüttel [24].
Il confronto fra Berengario e Lanfranco ci permette di comprendere appieno due differenti modi di riflettere sul valore e sul dominio di autonomia dell’ars dialectica: se il magister di Tour sembra a tratti rivendicare per la dialettica una natura propriamente poietica, quasi fosse in grado di conchiudere, grazie alla correttezza formale delle sue conclusioni, la stessa sostanza del vero, e quindi gli stessi misteri divini, lo scolarca di Pavia attribuisce invece a quest’arte una funzione più circoscritta, non avendo altro compito che quello di indagare e chiarificare una verità che le preesiste e che non potrà mai essere determinata dall’astratta formalità di un sillogismo. La loro pubblica disputatio si rivela perciò utile per compendiare simbolicamente alcuni dei problemi che stavano dominando l’ambiente culturale dell’XI secolo: quali dovrebbero essere i limiti dell’ars dialectica studiata nelle scuole? Fino a che punto i rudimenti della logica greca possono stabilire la liceità di un dogma? La fede e la dialettica possiedono la stessa dignità, o esiste una ragione cogente per stabilire una gerarchia e una priorità fra le due? E soprattutto: le conclusioni che derivano da un ragionamento sillogistico possiedono una necessità indipendente dall’onnipotenza di Dio?
Come abbiamo anticipato in precedenza, è lo stesso magistero agostiniano a dividere Lanfranco e Berengario. Se il primo fa direttamente riferimento ad un passaggio del De Doctrina Christiana [25] in cui il Vescovo d’Ippona, pur rivendicando l’utilità della dialettica, invita il lettore ad evitare quella «libido rixandi» che deriva dall’improprio utilizzo di tale «disciplina disputationis [26]», il secondo si richiama invece al De Ordine [27], dove l’ars dialectica è considerata addirittura come la disciplina delle discipline [28]. La scelta dei passi agostiniani rivela dunque i rispettivi presupposti che guidano le indagini dei due magistri. Berengario, infatti, rifiuta la posizione di Pascasio e Lanfranco proprio sulla base della trascendentalità attribuita alla pratica dialettica. Poiché il realismo pascasiano non è compatibile con le regole che presiedono all’esercizio di quest’arte umana, sarà proprio il sacramentum altaris a dover essere interpretato secondo una modalità che non contraddica i principi dialettici. Secondo il magister di Tours, il mistero che trasforma, grazie alla mediazione del sacerdote, il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo, non può quindi modificare la composizione delle sostanze che erano poste al centro dell’altare prima della celebrazione eucaristica. D’altra parte, se qualcuno attribuisse, una volta avvenuta la consacrazione, al pane e al vino una natura non soltanto sacramentale e simbolica, ma reale, considerandoli alla vera stregua del corpo e del sangue di Cristo, farebbe strali del positivo significare dei termini che utilizza, distruggendo il soggetto delle proprie affermazioni.
A dispetto della radicalità delle posizioni berengariane, la soluzione di Lanfranco è saldamente ancorata alla tradizione. Per lo scolarca di Pavia, nel mistero della transustanziazione le «terrenas substantias» vengono realmente trasformate nel corpo e nel sangue di Cristo:

«Noi crediamo dunque che le sostanze terrene che sull’altare del Signore sono santificate per volere del cielo mediante il mistero sacerdotale, ineffabilmente, incomprensibilmente, mirabilmente, per opera di una potenza soprannaturale, vengano trasformate nell’essenza del corpo del Signore, pur mantenendo le specie delle cose stesse e certe altre qualità, affinché i credenti non rimangano sgomenti assumendo cibo di carne e bevanda di sangue umano, e ricevano premi maggiori per la loro fede [29]».

Il miracolo che avviene sull’altare trascende le leggi dialettiche: se fossero i criteri dell’ars dialectica a stabilire e legittimare l’evento eucaristico, ad essere in questione non sarebbe la sola mediazione sacerdotale, ma la stessa essentia Dei, costretta ad uniformarsi ai vincoli e ai limiti di un’arte umana. La premessa che guida l’indagine di Lanfranco, al contrario, si basa su una feconda subordinazione della pratica dialettica alla Parola Divina. Già nel Commentario alle lettere di San Paolo, e proprio utilizzando nella sua interpretazione un ampio corredo dimostrativo e deduttivo, figlio della sua profonda conoscenza delle arti liberali, Lanfranco aveva ampiamente denunciato l’impossibilità di ricondurre il cuore dei misteri divini allo spazio circoscritto della sapienza umana [30].
È da questo presupposto che prenderà il via l’analisi che il magister di Pavia andrà svolgendo sui limiti dell’impiego dell’ars dialectica nello studio delle Sacre Scritture. Come Lanfranco si preoccupa di porre in luce già nelle prime battute del suo trattato sull’Eucaristia – rivolgendosi direttamente a Berengario, che preferisce rifugiarsi nella dialettica abbandonando la precedente traditio –, «quando devo intendere e rispondere cose pertinenti a proposito del mistero della fede, io preferirei intendere e dare come risposta autorità sacre piuttosto che ragioni dialettiche [31]». Il richiamo di Lanfranco all’auctoritas dei Padri è uno degli elementi che informa la sua indagine. Il fatto che lo scolarca di Pavia decida dunque di confrontarsi con l’eretico di Tour su un terreno eminentemente dialettico dipende più da un’esigenza imposta che da una necessità interna all’ordine delle sue ragioni. È lo stesso Lanfranco ad esplicitarlo:

«Ma Dio e la mia coscienza mi sono testimoni che, quando si tratta di lettere divine, io desidererei evitare di proporre questioni dialettiche ed anche di dover fornire soluzioni in risposta a questioni dialettiche proposte. Tuttavia, quando il tema della disputa è tale da poter essere illustrato più chiaramente per mezzo delle regole di questa scienza, nascondo la scienza [tego artem], per quanto mi è possibile, sotto proposizioni equivalenti, affinché io non sembri confidare più in questa scienza che nelle verità e autorità dei santi Padri» [32].

Il passaggio appena citato è forse il più celebre e discusso dell’intera produzione teologica di Lanfranco. Ad ogni modo, ciò che è opportuno sottolineare immediatamente è che il desiderio del Vescovo di Canterbury di nascondere l’arte [«tegere artem»] non ha nulla a che fare con la retorica barocca della dissimulatio. Non si tratta infatti di celare le meraviglie dell’ars dialectica per dissimulare e nasconderne le eventuali potenzialità, bensì di evitare consapevolmente di ricorrere ai suoi servigi nel caso in cui fosse possibile conseguire la medesima verità grazie alle sole auctoritates della Chiesa. Come ha giustamente sottolineato Giulio D’Onofrio, «“tegere artem” significa dunque, nel suo progetto, usare la dialettica senza esplicitarne l’aridità deduttiva come fa l’eretico; e dunque sostituire alle formule dialettiche che potrebbero essere applicate alla questione eucaristica contro l’acribia dimostrativa di Berengario, formule equivalenti [33]». La posizione di Lanfranco, tuttavia, non è scevra da un qualche imbarazzo: proprio lui, infatti, profondo conoscitore delle arti liberali, si trova costretto non solo a denunciare con forza la loro insufficienza fondativa ed esplicativa, ma a sottolineare apertamente l’opportunità di limitarne l’utilizzo, così da non incorrere in quei pericoli che l’assolutizzazione del metodo dialettico, paventata dall’eretico di Tours, avrebbe potuto comportare per una corretta interpretazione dei dogmi di fede. Lanfranco si troverà allora costretto a rivendicare, sic et simpliciter, il primato dell’auctoritas della Chiesa, cercando al contempo di circoscrivere e limitare la portata di alcune testimonianze agostiniane sull’utilità dell’ars dialectica. Del resto, come abbiamo già in precedenza rilevato, sarà proprio grazie ad un passaggio tratto dal De Ordine che Berengario troverà la conferma della legittimità delle proprie intuizioni. Prima di nobilitare la sua indagine attraverso il testo agostiniano, il magister di Tours rivendica l’utilizzo dell’ars dialectica attraverso un paragone particolarmente efficace: poiché ricorrere alla dialettica [«ad dialecticam confugere»] significa ricorrere alla ragione [«ad rationem confugere»], nel caso l’uomo decidesse scientemente di non servirsene, finirebbe per abdicare al retto utilizzo di quel raziocinio che, nobilitando l’uomo, lo predispone ad essere vera imago Dei [34].
La scelta di Lanfranco di non rincorrere il proprio avversario sul suo stesso terreno non gli impedisce, tuttavia, di sottolineare a più ripresa l’aridità del metodo dialettico. Quest’arte, infatti, se abbandonata a se stessa, ossia se non utilizzata partendo da una relazione di subalternità e dipendenza nei confronti del contenuto della Rivelazione, non può dare vita ad alcun sapere concreto, non essendo saldamente ancorata alla sostanza del vero. La natura meramente formale dell’ars dialectica non può quindi garantire alcun reale processo conoscitivo.
Nonostante Lanfranco denunci a più riprese l’astratta formalità della dialettica berengariana, il fulcro delle sue critiche risiede comunque nel valore vincolante della traditio teologica. Ecco allora che una parte dei rilievi del magister di Pavia vogliono dimostrare la scarsa dimestichezza di Berengario con le più alte autorità della Chiesa, o l’uso improprio e a volte scorretto che l’eretico fa dei testi delle Scritture [35]. Accanto a queste considerazioni, Lanfranco non dimentica mai di ricordare la storicità del dogma, l’autorità indiscussa dei Padri e la necessità di preservare l’unità della Chiesa [36]. Inoltre, a dispetto dell’utilizzo euristico che Pier Damiani farà dell’onnipotenza divina, Lanfranco si sofferma raramente sull’infinita maestà della potentia Dei e sull’esperienza del miracolo [37], capace di dischiudere l’apparente circolarità dei sillogismi di cui si servono i dialettici del tempo.
Ad ogni modo, la solutio offerta da Lanfranco sembra di gran lunga insufficiente. Anziché soffermarsi, come farà in seguito Damiani, sullo scarto che separa l’ordo rerum dall’ordo disserendi, vale da dire il mondo retto dalla potentia divina dagli argomenti frutto della sola abilità dialettica, il centro nevralgico dell’indagine di Lanfranco rimane ancorato alle parole dei Padri, quasi che la loro sola autorità fosse in grado di incrinare le solide certezze dell’eretico di Tours. Certo, forse la pretesa dei dialettici di rivendicare una ratio autonoma, sottratta ad ogni possibile filiazione e dipendenza, è semplice vanagloria. Tuttavia, per dimostrare l’insufficienza delle loro conclusioni, e mettere in luce la contraddittorietà delle loro formulazioni concettuali, non è sufficiente rispondere, seguendo Lanfranco, con le parole di un’auctoritas a cui è negata di principio ogni funzione legittimante. D’altra parte, se la fede nella Chiesa è assunta come criterio di verità, prescindendo dal vaglio critico dell’ars disserendi, è inevitabile che si finisca per prestare il fianco a delle obiezioni intenzionate a riscattare la libertà di quella stessa ragione a cui lo scolarca di Pavia aveva riservato un ruolo ed uno spazio troppo secondari perché qualcuno non ne rivendicasse la dignità e l’autonomia. Le pretese dei dialettici devono essere perciò decostruite dall’interno: è ciò che accadrà con il De Divina Omnipotentia [38] di Pier Damiani.
La lettera di Damiani rappresenta un polemico atto di accusa contro le tendenze filosofiche che si stavano facendo strada nel panorama culturale della sua epoca. Nella sua visita al cenobio benedettino di Montecassino, ospite di Desiderio, il futuro Papa Vittore III, Damiani aveva incontrato alcuni monaci che, meravigliati dalle opportunità che l’ars dialectica sembrava garantire, avevano iniziato a mettere in dubbio il reale valore dell’onnipotenza divina. Di fronte all’endemica diffusione della pratica dialettica, il monaco decise, una volta abbandonato l’incarico episcopale, di rivolgersi alla comunità di Montecassino con lo scopo di chiarificare alcune delicate questioni sul dogma dell’omnipotentia. Pier Damiani, dunque, non è interessato solamente ad esplicitare la sua personale posizione sulla potentia Dei; la vera questione che l’intero scritto adombra è un’altra: ad essere qui in gioco è l’assoluta pretesa di verità di quei dialettici che, instillando nei giovani l’idea della completa autonomia dell’ars disserendi, rischiano di allontanarli dal retto cammino della fede.
Nel De Sancta Simplicitate [39], rispondendo ad un monaco che rimpiangeva di non aver auto l’opportunità di dedicarsi con profitto agli studi, Damiani sembra liquidare i desideri del giovane con un commento lapidario: «Ecce, frater, vis grammaticam discere? Disce Deum pluraliter declinare [40]». Questo giudizio, assieme ad altre polemiche esternazioni del monaco, ha spesso corroborato una lettura superficiale della riflessione del monaco ravennate, quasi avessimo di fronte un uomo incapace di comprendere appieno la portata delle innovazioni che si stavano progressivamente imponendo nella seconda metà dell’XI secolo. In verità, a dispetto della superficialità di simili giudizi, è la stessa biografia del monaco a smentire tali considerazioni. Pier Damiani, infatti, oltre ad essere stato, prima di ritirarsi volontariamente nel monastero di Fonte Avellana, un importante maestro di arti liberali, è il primo a dimostrare nei suoi scritti di conoscere quell’ars disserendi di cui criticava l’esasperato utilizzo [41]. Il suo obiettivo non è allora quello di impedire l’utilizzo dell’arte dialettica, misconoscendone in toto il valore, bensì quello di limitare l’estensione del suo impiego. Per dare sostanza alle proprie ragioni, Damiani dovrà dimostrare che lo spazio in cui la ragione dialettica può rivendicare una necessità assoluta è ben circoscritto, e dunque incapace di pretendere un’autonomia che non sia sospesa all’arbitrio della potentia divina.
Nei giorni in cui il monaco ebbe l’opportunità di confrontarsi con la comunità di Montecassino, durante la discussione fu citato un passo di San Girolamo che destò immediatamente l’attenzione di Damiani [42]. Il problema era quello di stabilire se Dio, nella sua onnipotenza, fosse in grado di restituire la verginità ad una donna che l’aveva perduta. Rifiutando ogni argomento fondato sulle auctoritates – «Non enim a quo dicatur, sed quid dicatur attendo» –, il monaco pone subito in risalto l’assunzione implicita nel ragionamento di Girolamo: pensare di poter delimitare l’azione dell’Onnipotente, escludendo, come vorrebbe l’autore della Vulgata, che Dio possa «suscitare virginem post ruinam», significa di fatto negare l’onnipotenza divina [43]. Provare a posporre il problema, come nel successivo tentativo di Desiderio, ascrivendo l’impossibilità divina ad un atto di volontà, non serve ad altro che a trasferire la medesima problematica su di un piano ancora più scivoloso: se la capacità divina non eccedesse infinitamente il dominio della sua voluntas, non potendo Dio realizzare alcunché di ciò che non vuole, si troverebbe infatti a non poter far altro da ciò che già fa. È quindi opportuno indagare questo plesso concettuale, cercando di comprendere secondo quali modalità si debba intendere il non potere e il non volere di Dio.
Ora, in virtù di quale pregiudizio Dio non potrebbe restituire la verginità ad una donna che l’ha perduta? Non può farlo, si domanda il monaco, perché è un male che ciò accada?: «Come è un male che una vergine sia violata, così, senz’alcun dubbio, sarebbe un bene ritornare vergine per quella donna deflorata, se l’ordine del disegno divino lo consentisse [44]». E allora, conclude retoricamente Damiani, «come non potrebbe Dio restituire la verginità a colei che l’ha perduta, considerando che egli è onnipotente e che si tratta di una cosa buona? [45]».
La restituzione della verginità può essere interpretata in due modi affatto differenti: secondo la pienezza dei meriti o secondo l’integrità della carne. A questo proposito, se è lecito fornire una risposta affermativa alla prima occorrenza, la seconda sembra invece richiedere un esame più approfondito. Tuttavia, se l’infinita potenza divina è in grado di creare ex novo una creatura che prima non esisteva, si dovrà sostenere con altrettanta certezza che è ugualmente capace di restituire l’integrità primigenia a quella carne che ora risulta corrotta:

«Io dichiaro, dichiaro apertamente, e invariabilmente affermo, senza temere l’opposizione di alcuna cavillosa disputa, che Dio onnipotente può rendere vergine qualsiasi donna, fosse pure di molti mariti, e ripristinare nella sua stessa carne, come se fosse uscita dal ventre materno, il sigillo della sua integrità. Ho detto questo non per sminuire il beato Girolamo, che parlò con zelo religioso, ma per confutare, con le invincibili ragioni della fede, coloro che, usando come pretesto le sue parole, accusano Dio di impotenza [46]».

La soluzione di Pier Damiani chiama in causa un plesso particolarmente delicato. In effetti, ritenere che la potentia Dei possa intervenire nel passato, restituendo la verginità ad una donna che l’ha perduta, significa stravolgere l’attuale corso temporale, cioè far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto, negando, di fatto, l’intrinseca necessità del principio di non contraddizione. È proprio alla luce di tale difficoltà che il monaco avvia un confronto serrato con le convinzioni dei dialectici del tempo. Se i dialettici non possono escludere, analizzando le implicazioni della potenza divina attraverso l’apparato sillogistico di cui dispongono, che le cose create vengano distrutte, non possono però accettare che un positum sia non soltanto annichilito, bensì privato di quell’esser-stato che gli venne ab origine attribuito. L’obiezione di questi sapientes saeculi è quindi la seguente:

«Se Dio, come tu affermi, è onnipotente in ogni cosa, può far sì che ciò che è accaduto non sia accaduto? Può certamente distruggere tutto ciò che esiste, in modo tale che le cose non ci siano più, ma non si vede in che modo possa far sì che le cose che sono accadute non siano accadute. Può senza dubbio accadere che Roma, nel presente o nel futuro, non esista più: potrebbe infatti essere distrutta. Ma come possa accadere che Roma non sia stata fondata in passato, ciò risulta del tutto incomprensibile [47]».

Servendosi di alcuni classici topoi della tradizione aristotelica, i dialettici applicano all’essentia divina le regole e i limiti che caratterizzano l’estensione del loro linguaggio. Ad esempio, secondo le leggi che regolano la successione logica delle parole, se sta per piovere, è necessario, per la «iuxta consequentiam dictionum», che stia per piovere. Poiché l’ordine logico dell’enunciazione è il criterio su cui uniformare l’esser accaduto o il poter accadere degli eventi, è necessario che qualsiasi cosa sia accaduta non possa non essere accaduta, così come è altrettanto impossibile che ciò che ora è, sub eodem non sia [48]. Pier Damiani è ben consapevole che se si rimanesse fedeli alla lettera di queste argomentazioni, l’onnipotenza divina finirebbe per perdere tutte le sue prerogative. Dio non sarebbe impotente solo di fronte al passato, non potendo fare in modo che ciò che è stato non sia, ma vedrebbe limitato tutto l’orizzonte del suo dominio, limitandosi a riconoscere e a rispettare le leggi che presiedono al linguaggio dell’uomo:

«La cieca temerarietà di questi sapienti cercatori di vanità e colmi di ignoranza sia dunque consapevole che, applicando spudoratamente a Dio ciò che appartiene all’arte del discutere, lo rendono del tutto privo di ogni potere e facoltà, non solo per quel che riguarda il passato, ma anche per ciò che concerne il presente e il futuro. Naturalmente, dato che non hanno ancora imparato gli elementi delle parole, costoro perdono nelle oscure caligini delle loro argomentazioni il fondamento luminoso della fede; inoltre, ignorando quello che si apprende da bambini nelle scuole, portano i cavilli delle loro lagnanze nel cuore dei misteri divini, e, giacché non hanno acquisito alcuna abilità dell’arte umana, studiandone i rudimenti, turbano con le nebbie della loro curiosità i puri insegnamenti della Chiesa [49]».

Il cuore dell’intera questione è perciò il seguente: le deduzioni proposte dai dialettici, pur essendo necessarie per la coerenza dei discorsi umani, dovrebbero essere destituite di ogni valore, non appena fossero commisurate e avvicinate al mistero della divina omnipotentia. La discorsività del linguaggio dell’uomo, infatti, non è in grado di circoscrivere il dominio di possibilità che Dio può realizzare. Per tale ragione, sia le leggi che regolano la formazione dei sillogismi, sia le conclusioni che derivano necessariamente dal loro utilizzo non dovrebbero essere applicate con leggerezza alla potenza divina. D’altra parte, se ci si attiene all’impostazione difesa da questi dialettici, senza sottolineare con decisione lo iato incolmabile che divide la coerenza dei ragionamenti umani dall’infinita potentia Dei, è naturale che si finisca per limitare il campo di azione dell’onnipotenza alle regole che caratterizzano la episteme dell’uomo. Alla luce di queste considerazioni, non sarà Dio a stabilire le condizioni affinché un insieme di proposizioni venga giudicato vero o falso; al contrario, sarà la natura finita e determinata della grammatica umana a rappresentare un argine inviolabile per la stessa volontà divina.
La pericolosità per la fede cristiana di tali conseguenze non sfugge certo a Damiani:

«Chi non vede in modo manifesto che, se sono queste le argomentazioni a cui ci si attiene, secondo l’ordine logico delle parole, si dimostrerà che la virtù divina è senza potere in ogni fase del tempo? Giacché, in base al contraddittorio portato avanti con questa sciocca questione, Dio non potrà fare in modo che ciò che è già accaduto non sia accaduto, o, al contrario, che ciò che non è accaduto sia accaduto, ovvero che ciò che ora esiste, finché è, non sia, oppure che ciò che sta per accadere non stia per accadere e ciò che non sta per accadere stia invece per accadere [50]».

A dispetto delle apparenze, il monaco italiano non sta qui negando tout court la validità dell’ars dialectica; ciò su cui sta ponendo la sua l’attenzione è l’estensione dell’ambito di applicazione di tale disciplina. La natura finita della logica, creatura fra le creature, deve riconoscere il limite che la costituisce: essendo il risultato di una libera creatio divina, non può ricondurre nei margini del suo nomos la propria condizione di possibilità, vale a dire l’infinita potenza di Dio. Ad essere in discussione non è dunque la validità intrinseca del metodo dialettico, o il valore formale delle deduzioni che hanno luogo grazie ai sillogismi, bensì la pretesa di giudicare le possibilità divine assumendo come termine di paragone un’ars umana. La peritia artis humanae, come la definisce lo stesso Damiani, non deve perciò essere applicata acriticamente all’esame delle Sacre Scritture e ai misteri divini, ma, «come una serva [ancilla]», deve «assecondare la padrona [domina] con la sottomissione che deve essere propria di chi serve, in modo da non smarrirsi se la precede, e perdere così, mentre segue i concatenamenti delle parole esteriori, il lume della potenza più intima e il retto cammino della verità [51]».
La pratica dialettica, del resto, come riconosce lo stesso Damiani, è sempre stata relegata all’interno di un dominio di indagine ben circoscritto. È solo recentemente che il suo impiego ha incominciato ad uscire dai limiti che le sono stati storicamente imposti, iniziando ad essere utilizzata in ambito che non sono, né dovrebbero essere, di sua diretta pertinenza. Secondo il monaco, servendosi di quest’arte con una precisa consapevolezza dei limiti intrinseci che la caratterizzano, è ancora possibile giudicare, ad esempio, la verità di una costruzione sillogistica, magari valutando, grazie alle leggi del principium firmissimum, la liceità delle deduzioni in esame; ciò che invece i dialectici non dovrebbero fare è ritenere di poter ricondurre il misterium Dei all’interno di quelle stesse coordinate, riducendo all’astratta formalità di quei vincoli ciò che ne costituisce la condizione di possibilità. La dialettica non dovrebbe dunque essere considerata come una disciplina capace di decidere della verità dei contenuti rivelati dal Verbum Dei; piuttosto, dovrebbe essere utilizzata secondo criteri meramente funzionali, come uno strumento da applicare alle regole interne del discorso, senza la persuasione che possa decidere delle sue fondamenta. Le dispute dialettiche, pertanto, anziché indagare «l’autore stesso della luce [ipsum lucis auctorem]», dovrebbero esercitare la propria vis esplicativa nei ristretti ambiti della loro arte, concentrandosi su «l’ordine della discussione e la concatenazione delle parole [ordinem disserendi consequentiamque uerborum]».
È necessario allora abbandonare e ridimensionare le pretese di questi sapientes saeculi, dimostrando l’orizzonte limitato della loro comprensione. Il problema, ad ogni modo, non sembra di facile ed immediata soluzione, poiché i dialettici non sono certo disposti a ridurre la portata delle loro conquiste intellettuali: ritengono infatti che le regole della logica, su cui vanno commisurando la verità dei contenuti di fede, non siano il prodotto contingente di una libera opzione divina, ma siano eterne e non soggette ad alcun cambiamento. Se la logica è increata, infatti, le loro conclusioni non dipendono da una potentia ‘straniera’, limitandosi a riflettere l’ordo rerum. Per arginare una premessa così esiziale, Damiani deve dimostrare che lo spazio in cui la ratio sillogistica pare rivendicare un dominio inconcusso è, in realtà, affatto circoscritto, non potendo pretendere una qualche autonomia che non sia sospesa, da ultimo, all’arbitrio di una voluntas onnipotente.
Secondo il monaco ravennate, la risposta decisiva alle provocazione dei dialettici del tempo va trovata nella potentia Dei e nei suoi attributi. Dio, infatti, grazie alla sua onnipotenza, racchiude tutti i secoli, senza che qualcosa possa per lui trascorrere: mentre domina con un solo sguardo lo svolgersi del tempo, osserva simultaneamente ogni cosa presente al suo cospetto [52]; inoltre, nella luce della sua prescienza, abbraccia tutte le possibilità, rimanendo sempre identico a se stesso [53]. Ma allora, domanda Damiani, «dal momento che Dio può tutto, perché dubiti che Dio possa fare in modo che qualcosa, al tempo stesso, sia e non sia, se è un bene che ciò accada? [54]».
Se l’onnipotenza divina è considerata il criterio guida dell’indagine – e per Damiani, ciò rappresenta un dato essenziale, un punto di partenza necessario per ogni cristiano –, non c’è alcun motivo per ritenere che Dio sia in qualche modo limitato da un principio esterno. Le leggi che sostengono la comprensione umana, ivi compreso il principium firmissimum, non possono quindi costituire la pietra di paragone per analizzare, e magari limitare, l’estensione della potentia Dei. Il fatto che l’uomo non sia in grado di pensare, senza contraddizione, l’eventualità che Dio restituisca la verginità ad una donna che l’ha perduta, facendo in modo che ciò che è accaduto non sia in realtà accaduto, non significa che questo stesso limite possa essere applicato anche alla sovrana maestà della potenza divina. Agli occhi del monaco, quello che i dialectici sembrano non comprendere appieno è proprio lo scarto che divide l’infinita essentia di Dio dall’orizzonte limitato che spetta, di necessità, alle capacità intellettive dell’uomo.
Ora, se le obiezioni dei dialettici si limitassero a prendere in esame soltanto la natura, non avrebbero forse torto: in effetti, considerate le leggi della natura come giudice del dibattito, non è naturalmente possibile che ciò che è stato fatto non sia stato fatto, vale a dire che la stessa cosa possa accadere e non accadere. Tuttavia, sebbene questo limite si imponga alle leggi del nostro mondo, non può però essere considerato come un vincolo necessario anche per l’onnipotenza divina:

«È certamente corretto parlare di questa impossibilità, qualora la si attribuisca alla natura; tuttavia, ci si guardi bene dall’applicarla alla maestà divina, poiché colui che ha dato origine alla natura, facilmente, quando vuole, toglie alla natura la sua necessità. La natura, infatti, che presiede alle cose create, è sottomessa alle leggi del Creatore; inoltre, colui che ha creato la natura, modifica, secondo l’arbitrio della sua autorità, l’ordine naturale; e colui che ha posto tutte le creature sotto il dominio della natura, ha riservato al proprio potere sovrano la docile obbedienza della natura [55]».

Le stessi leggi della natura, quindi, al pari dei principi che informano i ragionamenti umani, non possiedono alcuna necessità che non trovi la propria ragion d’essere nella potentia divina. La necessità garantita dai procedimenti sillogistici, lungi dal rivelarsi in se stessa puramente apparente, è una necessità “seconda”, ossia finita, passibile d’essere modificata, qualora Dio lo giudicasse opportuno. D’altro canto, quando Dio fa sì che ciò che è accaduto non sia accaduto, reintegrando una donna nei suoi meriti e nella sua carne, non viene meno alla pienezza della sua eterna natura. Nel seno del suo potere e della sua saggezza, infatti, egli racchiude l’intera pienezza dei tempi, in modo che il vincolo dell’esser passato, di fronte a cui l’uomo fa esperienza della finitezza della sua natura mortale, non rappresenti un argine invalicabile al libero esercizio della sua onnipotenza [56].
Anche in questo caso, Damiani si preoccupa di rilevare la differenza abissale che divide l’estensione della episteme umana dall’insieme infinito di possibilità che Dio potrebbe realizzare. I dialectici e tutti i sapientes saeculi dimenticano che la trascendenza divina non potrà mai essere racchiusa nei sillogismi che guidano e indirizzano la conoscenza umana. Il fatto che la ratio dell’uomo non riesca a pensare l’eventualità che Dio intervenga nuovamente nel mondo, facendo in modo che ciò che è accaduto non sia accaduto, non significa che questa impossibilità si imponga all’agire divino [57]. Ciò significa che Dio, oltre a non essere vincolato da alcun sillogismo, essendo sempre nelle condizioni di modificare le regole di quel ‘gioco’ dialettico, non potrà mai essere determinato da quelle stesse leggi che ha deciso, liberamente, di creare:

«Dobbiamo dunque concludere la discussione del problema proposto: pertanto, se l’onnipotenza è coeterna a Dio, Dio non ha potuto far sì che ciò che è esistito non sia esistito. È dunque opportuno affermare costantemente e fedelmente che Dio, essendo considerato onnipotente, può veramente qualunque cosa, senza alcun tipo di eccezione, sia riguardo a ciò che è esistito, sia riguardo a ciò che non è esistito [58]».

Comprendere questo plesso concettuale significa per il monaco fare esperienza della creaturalità della propria natura, essere cioè consapevoli di non poter disegnare i margini di una potentia che potrebbe sempre sfigurare ogni rappresentazione umana. Il principale errore dei dialettici è allora quello di non riconoscere l’esperienza del limite e di assegnare alla parola umana il ruolo di arbitro e giudice ultimo. Pier Damiani è convinto che i sapientes di questo secolo si dimentichino di essere creature, e di non poter quindi stabilire delle leggi che si possano imporre anche all’onnipotenza del loro creatore. La episteme dell’uomo, in sostanza, dovrebbe riconoscere la finitezza delle proprie ragioni. L’unica dialettica possibile, abbandonata ogni poietica superbia, è perciò quella che conserva il lumen della trascendenza divina: consapevole della propria intrinseca finitezza, non si arroga il diritto di investigare il misterium Dei, ma come una docile ancilla si esercita nella propria arte senza rivendicare alcuna verità che non dipenda dall’arbitrio di un Dio onnipotente.
Il confronto con l’abate Desiderio e con i monaci della sua comunità nasce, in ultima analisi, per difendere la trascendenza di una verità di fede che, creando le regole su si applica l’ars dialectica, non potrà mai essere racchiusa nell’orizzonte di quelle leggi. Rivendicare la natura finita della dialettica è così per Damiani il modo migliore per dischiudere l’apparente circolarità e auto-sufficienza della parola umana. Naturalmente, nonostante la solutio del monaco ravennate sia forse più coerente di quella di Lanfranco, attraversata da un’ambiguità di fondo che ne inficia a tratti la chiarezza e l’efficacia, la radicalità di Damiani si spinge forse troppo oltre, non riuscendo ad intercettare e a dare voce alle esigenze del suo tempo.
L’assoluta contingenza dell’ordo rerum si rivela infatti il necessario prezzo da pagare per dischiudere la presunta trascendentalità dell’ordo disserendi. La fede in un Dio così onnipotente, dimostrando la finitezza di una ratio destinata, di lì a poco, a diventare uno strumento imprescindibile per vagliare e legittimare l’autorità del dogma, sottrae al sapere umano ogni solida certezza circa la propria affidabilità. Confrontando l’astrattezza dei dialectici con la precarietà mondana introdotta dalla riflessione del monaco, appariva ormai chiara l’esigenza di una mediazione che fosse in grado di conservare la trascendenza divina senza sacrificare l’affidabilità del sapere profano.

[1] Cfr. J. A. Endres, Lanfranc Verhältnis zur Dialektik, “Der Katolik”, 25 (1902), pp. 215-231; Id., Othlohs von Sankt Emmeram Verhältnis zu den freien Künsten, insbesondere zur Dialektik, “Philosophisches Jahrbuch”, 17 (1904), pp. 44-52 e 173-184; Id., Die Dialektiker und ihre Gegner im 11. Jahrhundert, “Philosophisches Jahrbuch”, 19 (1906), pp. 20-33; Id., Petrus Damiani und die weltliche Wissenschaft, “Beiträge zur Geschichte der Philosphie des Mittelalters”, Vol. VIII/3, Aschendorff, Münster 1910.
[2] Cfr. J. De Ghellinck, Dialectique et dogme aux Xe-XIIe siècles, “Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters”, Supplementband I, Münster 1913, pp. 79-99; M. Losacco, Dialettici e antidialettici nei secoli IX, X, XI, “Sophia”, 1 (1933), pp. 425-429; A. Cantin, Foi et dialectique au XIe siècle, Les éditions du Cerf, Paris 1997; trad. it., Fede e dialettica nell’XI secolo, a c. di F. Ferri, Jaca Book, Milano 1996.
[3] Cfr., ad esempio, J. Marenbon, Early Medieval Philosophy (480-1159). An introduction, Routledge & K. Paul, London 1983.
[4] Severinus Boethius, In Categorias Aristotelis libri IV, PL 64, 159 – 294 C.
[5] Severinus Boethius, In Librum Aristotelis De Interpretatione, PL 64, 293 – 640 A.
[6] Severinus Boethius, In Topica Ciceronis Commentariorum, PL 64, 1039 – 1174 A.
[7] Severinus Boethius, In Isagogen Porphyrii Commentorum, editio duplex, PL 64 et 156.
[8] Severinus Boethius, De Syllogismo Categorico, PL 64, 761 – 832 A.
[9] Severinus Boethius, De Syllogismo Hypothetico, PL 64, 831 – 876 C.
[10] Severinus Boethius, De Divisione, PL 64, 875-892 A.
[11] Severinus Boethius, De Differentiis Topicis, PL 64, 1173 – 1216 D.
[12] M. Capella, Le nozze di Filologia e Mercurio, trad. it. a c. di I. Ramelli, Bompiani, Milano 2001.
[13] Alcuinus, De Dialectica, PL 101, 949 – 976 B.
[14] Aurelius Augustinus, Principia Dialecticae, PL 32, 1410 – 1420. Sull’autenticità del testo, cfr. H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, De Boccard, Paris 1938, pp. 576-578; B. D. Jackson, Introduction, in B. D. Jackson – J. Pingborg (ed.), Augustine, De Dialectica, Reidel, Dordrecht-Boston 1975, pp. 1-71. Cfr. inoltre G. D’Onofrio, Fons scientiae. La dialettica nell’Occidente tardo-antico, Liguori, Napoli 1986, pp. 31-35.
[15] Cfr. P. Riché, Écoles et enseignement dans le Haut Moyen Age, Aubier, Paris 1979; Id., L’enseignement de Gerbert à Reims dans le contexte européen, in Gerberto. Scienza, storia e mito, Atti del «Gerberti Symposium», Ed. A.B.S., Bobbio 1985, pp. 51-69; Id., L’enseignement des arts libéraux en Italie et en France au XIe siècle, in G. D’Onofrio (a c. di), Lanfranco di Pavia e l’Europa dell’XI secolo. Nel IX centenario della morte (1089-1989), Atti del convegno internazionale di studi, Herder, Roma 1993, pp. 157-166.
[16] Aurelius Augustinus, Contra Cresconium Grammaticum Donatistam, I, 13, 16. La traduzione di questo passaggio e di tutti quelli successivi è nostra.
[17] «Duplex enim est via quam sequimur, cum rerum nos obscuritas movet, aut rationem, aut certe auctoritatem. Philosophia rationem promittit et vix paucissimos liberat, quos tamen non modo non contemnere illa mysteria, sed sola intellegere, ut intellegenda sunt, cogit», Aurelius Augustinus, De Ordine, II, 5, 16.
[18] Sul retroterra culturale che fece da sfondo alla polemica tra Berengario e Lanfranco, cfr. M. Cristiani, La controversia eucaristica nella cultura del sec. IX, “Studi medievali”, 9 (1968), pp. 167-233; Id., Tempo rituale e tempo storico: Comunione cristiana e sacrificio. Scelte antropologiche della cultura altomedievale, in Segni e riti della Chiesa altomedievale occidentale (Settimane di Studi del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXXIII), Spoleto 1987, pp. 439-500; Id., Le «ragioni» Berengario di Tours, in G. D’Onofrio (a c. di), Lanfranco di Pavia e l’Europa dell’XI secolo, cit., pp. 327-360. Sulla contesa fra i due magistri, cfr. invece J. De Montclos, Lanfranc et Bérenger. La controverse eucharistique du XIe siècle, Louvain 1971; M. Gibson, Lanfranc of Bec, Oxford University Press, Oxford 1978; trad. it., Lanfranco. Da Pavia al Bec a Canterbury, Jaca Book, Milano 1989, pp. 65-98; T. J. Holopainen, Dialectic and Theology in the Eleventh Century, Brill, Leiden 1996, pp. 44-118.
[19] «Id autem est, displicere tibi, immo eretica habuisse sententias Iohannis Scotti de sacramento altaris, in quibus dissentit a suscepto tuo Pascasio. Hac ergo in re, si ita est, frater, indignum fecisti ingenio, quod tibi deus non aspernabile contulit, preproperam ferendo sententiam. Nondum enim adeo sategisti in scriptura divina nec multum contulisti cum tuis diligentioribus. Et nunc ergo, frater, quamtumlibet rudis in illa scriptura, vellem tantum audire de eo, si oportunum mihi fieret, adibiti quibus velles vel judicibus congruis vel auditori bus. Quod quamdium non fit, non aspernanter aspicias quod dico: si hereticum habes Johannem, cujus sententias de eucaristia proba bus, habendus tibi est hereticus Ambrosius, Jheronimus, Augustinus, ut de caeteris taceatur», R. B. C. Huygens, Textes latins du XIe au XIII e siècle, “Studi Medievali”, 8 (1967), pp. 451-459, cit. p. 456.
[20] «In substantia panis et vini in Christi carnem et sanguinem efficaciter interius commutatur, ita ut deinceps post consacrationem iam vera Christi caro et sanguis veraciter credatur», Paschasius Radbertus Corbeiensis, De Corpore et Sanguine Domini, PL 120, 1255-1350 D; ed. Bedae Paulus, Brepols, Turnhout 1969, cap. VIII, 64-67, pp. 42-43.
[21] «Corpus et sanguis Christi, quae fidelium ore in Ecclesia percipiuntur, figurae sunt secundum speciem visibilem; at vero secundum invisibilem substantiam, id est divini potentiam Verbi, vere corpus et sanguis Christi existunt», Ratramnus Corbeiensis, De Corpore et Sanguine Domini, PL 121, 125-170 C, cap. XLIX, col. 147 A.
[22] M. Gibson, Lanfranco. Da Pavia al Bec a Canterbury, cit., p. 82.
[23] Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, De Corpore et Sanguine Domini, PL 150, 407-442.
[24] Beringerius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrancum, ed. R. B. C. Huygens, Brepols, Tourhout 1988.
[25] Cfr. Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, De Corpore et Sanguine Domini, cit., cap. VII, col. 417 A – B.
[26] «Restant ea quae non ad corporis sensus, sed ad rationem animi pertinent, ubi disciplina regnat disputationis et numeri. Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum quae in Litteris sanctis sunt penetranda et dissolvenda, plurimum valet. Tantum ibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium. Sunt enim multa quae appellantur sophismata, falsae conclusiones rationum et plerumque ita veras imitantes, ut non solum tardos, sed ingeniosos etiam minus diligenter attentos decipiant. Proposuit enim quidam, dicens ei cum quo loquebatur: Quod ego sum, tu non es. At ille consensit. Verum enim erat ex parte, vel eo ipso quod iste insidiosus, ille simplex erat. Tum iste addidit: Ego autem homo sum. Hoc quoque cum ab illo accepisset, conclusit dicens: Tu igitur non es homo. Quod genus captiosarum conclusionum Scriptura, quantum existimo, detestatur illo loco, ubi dictum est: Qui sophistice loquitur odibilis est. Quamquam etiam sermo non captiosus, sed tamen abundantius quam gravitatem decet, verborum ornamenta consectans, sophisticus dicitur», Aurelius Augustinus, De Doctrina Christiana, II, 31, 48.
[27] Cfr. Beringerius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrancum, cit., pp. 85-86.
[28] «Illa igitur ratio perfecta dispositaque grammatica, admonita est quaerere atque attendere hanc ipsam vim, qua peperit artem: nam eam definiendo, distribuendo, colligendo, non solum digesserat atque ordinaverat, verum ab omni etiam falsitatis irreptione defenderat. Quando ergo transiret ad alia fabricanda, nisi ipsa sua prius quasi quaedam machinamenta et instrumenta distingueret, notaret, digereret proderetque ipsam disciplinam disciplinarum, quam dialecticam vocant? Haec docet docere haec docet discere; in hac se ipsa ratio demonstrat atque aperit quae sit, quid velit, quid valeat. Scit scire; sola scientes facere non solum vult sed etiam potest. Verum quoniam plerumque stulti homines ad ea quae suadentur recte, utiliter et honeste, non ipsam sincerissimam quam rarus animus videt veritatem, sed proprios sensus consuetudinemque sectantur, oportebat eos non doceri solum quantum queunt, sed saepe et maxime commoveri. Hanc suam partem quae id ageret, necessitatis pleniorem quam puritatis, refertissimo gremio deliciarum, quas populo spargat ut ad utilitatem suam dignetur adduci, vocavit rhetoricam. Hactenus pars illa quae in significando rationabilis dicitur, studiis liberalibus disciplinisque promota est», Aurelius Augustinus, De Ordine, II, 13, 38.
[29] «Credimus igitur terrenas substantias, quae in mensa Dominica, per sacerdotale mysterium, divinitus sanctificatur, ineffabiliter, incomprehensibiliter, mirabiliter, operante superna potentia, converti in essentiam Dominici corporis, reservatis ipsarum rerum speciebus, et quibusdam aliis qualitatibus, ne percipientes cruda et cruenta, horrerent, et ut credentes fidei praemia ampliora perciperent», Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, De Corpore et Sanguine Domini, cit., cap. XVIII, col. 430 B – C.
[30] Cfr. Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, Commentarius in Epistolas Pauli, PL 150, 101 – 405, coll. 161-162.
[31] «Relictis sacris auctoritatibus, ad dialecticam confugium facis. Et quidem de mysterio fidei auditurus ac responsurus quae ad rem debeant pertinere, mallem audire ac respondere sacras auctoritates quam dialecticas rationes», Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, De Corpore et Sanguine Domini, cit., cap. VII, col. 416 D.
[32] «Sed testis mihi Deus est, et conscientia mea, quia in tractatu divinarum litterarum, nec proponere, nec ad propositas respondere cuperem dialecticas quæstiones vel earum solutiones. Etsi quando materia disputandi talis est ut hujus artis regulas valeat enucleatius explicari, in quantum possum, per æquipollentias propositionum tego artem, ne videar magis arte quam veritate sanctorumque Patrum auctoritate confidere», Ivi, col. 417 A – B.
[33] G. D’Onofrio, Lanfranco teologo e la storia della filosofia, in Id. (a c. di), Lanfranco di Pavia e l’Europa dell’XI secolo, cit., pp. 189-228, cit. p. 220.
[34] «Maximi plane cordis est per omnia ad dialecticam confugere, quia confugere ad eam ad rationem est confugere, quia qui non confugit, cum secundum rationem sit factus ad imaginem Dei, suum honorem reliquit nec potest renovari de die in diem ad imaginem Dei», Beringerius Turonensis, Rescriptum contra Lanfrancum, cit., p. 85.
[35] Cfr., fra gli altri, Lanfrancus Cantuariensis Archiepiscopus, De Corpore et Sanguine Domini, cit., cap. I, coll. 408 A- 409 A; cap. VII, col. 418 A – C; cap. XI, coll. 421 D – 422 A.
[36] Cfr. Ivi, cap. II, col. 412 A; cap. VIII, col. 419 A; cap. IX, coll. 419 C – 421 A; cap. XXIII, coll. 441 D – 442 D.
[37] Cfr. Ivi, cap. XVII, col. 427 A – B; cap. XIX, col. 435 C – D.
[38] Per l’edizione critica del testo, cfr. Pierre Damien, Lettre sur la toute-puissance divine. Introduction, texte critique, traduction et notes par André Cantin, Les éditions du Cerf, Paris 1972 (Sources chrétiennes, N. 191, Série des textes monastiques d’Occident, N. XI), pp. 384-488.
[39] Petrus Damianus, De Sancta Simplicitate scientiae inflanti anteponenda, PL 145, Op. VL, coll. 695 – 704 B.
[40] Ivi, col. 695 B – C.
[41] Cfr. J. Gonsette, Pierre Damien et la culture profane, Nauwelaerts, Louvain 1956; cfr. inoltre A. Cantin, Saint Pierre Damien et la culture de son temps, “Studi Gregoriani”, 10 (1975), pp, 247-285; Id., Les sciences séculières et la foi. Les deux voies de la science au jugement de S. Pierre Damien (1007-1072), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto 1975.
[42] «Audenter loquar: cum omnia possit Deus, suscitare virginem non potest post ruinam. Valet quidem liberare de poena, sed non valet coronare corruptam», Sofronius Eusebius Hieronymus, PL 22, Ep. XXII, 5, col. 397.
[43] «Si nichil, inquam, potest Deus ‹facere› eorum quae non uuit; nichil autem, nisi quod uult, facit; ergo nichil omnino potest facere eorum quae non facit. Consequens est itaque, ut libere fateamur, Deum hodie idcirco non pluere, quia non potest; idcirco languidos non erigere, quia non potest; ideo non occidit iniustos; ideo non ex eorum oppressionibus liberat sanctos. Haec et alia multa idcirco Deus non facit, quia non uult, et quia non uult, non potest. Sequitur ergo ut quicquid Deus non facit, facere omnino non possit. Quod profecto tam uidetur absurdum tamque ridiculum ut non modo omnipotenti Deo nequeat adsertio ista congruere, sed ne fragili quidem homini ualeat conuenire. Multa siquidem sunt quae nos non facimus et tamen facere possumus», Petrus Damianus, De Divina Omnipotentia, cit., cap. II, 597 A – B, 22-35.
[44] «Sicut malum est uirginem uiolari, ita uiolatam redire in uirginem procul dubio bonum esset, si diuinae dispositionis ordo concederet», Ivi, cap. IV, 599 C, 27-29.
[45] «Virginem itaque suscitare post ruinam, quomodo non possit Deus, cum procul dubio et ille omnipotens sit, et hoc bonum sit?», Ivi, cap. IV, 600 B, 66-68.
[46] «Fateor plane, fateor, nullumque timens cauillatoriae contentionis obloquium constanter adfirmo quia ualet omnipotens Deus multinubam quamlibet uirginem reddere, incorruptionisque signaculum in ipsa eius carne, sicut ex materno egressa est utero, reparare. Haec autem dixi, non ut beato Hieronimo, qui pio studio locutus est, detraham, sed ut eos qui ex uerborum illius occasione, Deum adstruunt inpotentem, inuicta fldei ratione refellam», Ivi, cap. V, 601 B, 46-55.
[47] «Si Deus, ut adseris, in omnibus est omnipotens, numquid potest hoc agere ut quae facta sunt, facta non fuerint? Potest certe facta qua eque destruere ut iam non sint, sed uideri non potest quo pacto possit efficere ut quae facta sunt, facta non fuerint. Potest quippe fieri ut amodo et deinceps Roma non sit: potest enim destrui. Sed ut antiquitus non fuerit condita, quomodo possit fieri, nulla capit opinio», Ivi, cap. VI, 601 C, 5-12.
[48] «Numquid, inquiunt, potest Deus hoc agere ut, postquam semel aliquid factum est, factum non fuerit? Tamquam si inpossibilitas ista in solis uideatur prouenire praeteritis, et non in praesentibus similiter inueniatur temporibus et futuris. Nam et quicquid nunc est, quamdiu est, procul dubio esse necesse est. Nec enim quamdiu aliquid est, non esse possibile est. Item quod futurum est, non futurum fieri inpossibile est (…) Quod ergo dicitur de praeteritis, hoc consequitur nichilominus de rebus praesentibus et futuris, nimirum ut, sicut omne quod fuit, fuisse necesse est, ita et omne quod est, quamdiu est, necesse sit esse, et omne quod futurum est, necesse sit futurum esse. Atque ideo, quantum ad ordinem disserendi, quicquid fuit, inpossibile sit non fuisse, et quicquid est, inpossibile sit non esse, et quicquid futurum est, inpossibile sit futurum non esse», Ivi, cap. VII, 602 D – 603 B, 9-37.
[49] «Videat ergo inperite sapientium et uana quaerentium caeca temeritas, quia si haec quae ad artem pertinent disserendi ad Deum procaciter referant, iam non tantum in praeteritis, sed et in praesentibus ac futuris, eum inpotentem penitus et inualidum reddant. Qui nimirum, quia necdum didicerunt elementa uerborum, per obscuras argumentorum suorum caligines amittunt clarae fidei fundamentum, et ignorantes adhuc quod a pueris tractatur in scolis, querelae suae calamnias diuinis ingerunt sacramentis, et quia inter rudimenta discentium uel artis humanae nullam apprehendere peritiam, curiositatis suae nubilo perturbant puritatis ecclesiasticae disciplinam», Ivi, cap. VII, 603 B – C, 38-49.
[50] «Quis enim manifeste non uideat quia, si argumentationibus istis, ut sese ordo uerborum habet, fides adhibetur, diuina uirtus in temporum quibusque momentis inpotens ostendatur? Nam iuxta friuolae quaestionis obloquium, non praeualet Deus agere ut uel quae dudum facta sunt, facta non fuerint, uel e diuerso quae facta non sunt, facta fuerint, uel quae nunc sunt, quamdiu sunt, non sint, uel quae futura sunt, futura non sint, uel e contra quae futura non sunt, futura sint», Ivi, cap. VII, 603 D – 604 A, 63-71.
[51] «…sed uelut ancilla dominae quodam famulatus obsequio subseruire, ne, si praecedit, oberret, et dum exteriorum uerborum sequitur consequentias, intimae uirtutis lumen et rectum ueritatis tramitem perdat», Ivi, cap. VII, 603 D, 58-62.
[52] Cfr. Ivi, cap. VIII, 604 C – 605 C, 1-61.
[53] Cfr. Ivi, cap. IX, 605 D – 607 A, 1-78.
[54] Ivi, cap. X, 608 D, 88-90.
[55] «Haec porro inpossibilitas recte quidem dicitur si ad naturae referatur inopiam; absit autem ut ad maiestatem sit applicanda diuinam. Qui enim naturae dedit originem, facile, cum uult, naturae tollit necessitatem. Nam quae rebus praesidet conditis, legibus subiacet Conditoris, et qui naturam condidit, naturalem ordinem ad suae ditionis arbitrium uertit; quique creata quaelibet dominanti naturae subesse constituit, suae dominationis imperio naturae obsequentis oboedientiam reseruauit», Ivi, cap. XIII, 612 A – B, 21-29.
[56] «Ad reuincendam ergo dicacium hominum inpudentiam, quibus adhuc propositae quaestionis absolutio superius facta non sufficit, non inepte possumus dicere quia potest Deus facere, in illa inuariabili et constantissima semper aeternitate sua, ut quod factum fuerat apud hoc transire nostrum, factum non sit, scilicet ut dicamus: Roma quae antiquitus condita est, potest Deus agere ut condita non fuerit. Hoc quod dicimus: potest, praesentis uidelicet temporis, congrue dicitur quantum pertinet ad inmobilem Dei omnipotentis aeternitatem; sed quantum ad nos, ubi continuata mobilitas et perpes est transitus, ut mos est, potuit conuenientius diceremus», Ivi, cap. XVII, 619 A – B, 37-48.
[57] «Sicut ergo potuit Deus, antequam quaeque facta sunt, ut non fierent, ita nichilominus potest et nunc ut quae facta sunt non fuissent. Illud enim posse quod tunc habebat nec inmutatum est nec ablatum, sed sicut ipse semper est quod est, ita et posse Dei mutari non potest», Ivi, cap. XVII, 619 D, 82-87.
[58] «Propositae igitur disputationi adhibenda est clausula: si itaque omnia posse coaeternum est Deo, potuit Deus ut quae facta sunt facta non fuerint. Constanter igitur et fideliter adserendum quia Deus, sicut omnipotens dicitur, ita sine ulla prorsus exceptione ueraciter omnia potest, siue in his quae facta sunt, siue in his quae facta non sunt», Ivi, cap. XVII, 620 B, 106-111.

* Alfredo Gatto ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in Filosofia presso l’Università San Raffaele di Milano. È autore di Pier Damiani. Una teologia dell’onnipotenza (Aracne, Roma 2013), e ha curato l’edizione italiana de I Sette Sigilli (Mimesis, Milano 2013) di Gioacchino da Fiore e L’onnipotenza divina (Il Prato, Padova 2013) di Pier Damiani.

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