> di Samanta Airoldi*
«Pari opportunità per tutti e distribuzione equa dei beni primari e, laddove ci fossero disuguaglianze, dovranno andare a benificio dei più svantaggiati».
Non è difficile riconoscere in questa affermazione il secondo principio di giustizia di John Rawls (ricordiamo anche il primo: «Uguali libertà per tutti»). Principi su cui, secondo la teoria della giustizia rawlsiana, doveva fondarsi il “consenso per sovrapposizione”; ovvero due principi che, a prescindere dalla personale concezione del bene e della “vita buona” di ciascuno, avrebbero dovuto mettere tutti d’accordo, su cui tutti avrebbero dovuto convenire.
Ma che cosa significa essere “svantaggiati”?
Sicuramente non tutti abbiamo la medesima concezione in merito. Alcuni potrebbero essere svantaggiati sotto alcuni punti di vista ma avvantaggiati sotto altri: uno potrebbe essere economicamente benestante ma cagionevole di salute; un altro potrebbe essere sanissimo ma povero; un terzo potrebbe essere ricco ma scontento del suo aspetto fisico e della sua vita affettiva; un quarto potrebbe sentirsi non realizzato e frustrato pur essendo sano e ricco; e si potrebbe proseguire a lungo combinando i diversi ambiti secondo cui un essere umano può sentirsi (o essere considerato) fortunato o svantaggiato.
Rawls si limita a prendere in esame solo l’aspetto economico: secondo la sua teoria sono da considerarsi svantaggiati gli individui con meno risorse economiche e, pertanto, in caso di diseguaglianze sociali, queste ultime dovranno andare a vantaggio di questi individui meno abbienti.
Il presupposto di questo scritto è che tale teoria sia ragionevole in quanto la sopravvivenza di un individuo è strettamente legata alle sue risorse economiche, e d’altro canto, a differenza della salute, può essere socialmente re-distribuita.
Un individuo può continuare a sopravvivere anche se non ha bellezza, non ha amici e non ha affetti e anche se non si sente realizzato e vive in un perenne stato di frustrazione ed emarginazione; ma non può vivere se non ha risorse economiche adeguate per nutrirsi e pagarsi un alloggio da cui ripararsi dal gelo o dall’arsura del caldo.
Le risorse economiche, dunque, a differenza di bellezza, cultura, affetti e soddisfazione del sé, vengono a configurarsi come un bene primario: cioè un bene essenziale per la sopravvivenza dell’essere umano.
Dunque, secondo Rawls, la società deve occuparsi che la distribuzione dei beni primari sia il più equa possibile e se ciò non è possibile allora le diseguaglianze dovranno andare a beneficio di chi ha meno.
Tuttavia Rawls manca totalmente di preoccuparsi della storia che sta alla base della distribuzione sociale dei beni: come si è arrivati al punto in cui siamo, con una distribuzione tanto ingiusta dei beni? La meritocrazia non esiste dunque?
È questo il punto fondamentale della teoria rawlsiana: che non si dedica al come si sia arrivati ad una certa distribuzione delle risorse (essa dunque non si pone il problema della meritocrazia), ma si rivolge unicamente stabilire una distribuzione il più egualitaria possibile.
Eppure “uguaglianza” non significa necessariamente “giustizia”. Si ponga ad esempio il caso di chi possieda molto per aver molto lavorato, ovvero di chi possieda poco o nulla per aver lavorato altrettanto scarsamente (o per aver sperperato)… in questo caso sarebbe difficile trovare chi sostenga che i primi debbano farsi carico della povertà dei secondi.
Su questa linea, ecco che a Rawls si oppone decisamente Robert Nozick, padre del liberismo contemporaneo, secondo il quale è giusto che ognuno tenga per sé il frutto della propria produzione senza che lo Stato interferisca; non a caso la sua teoria prevede una presenza minima dell’apparato statale nell’ambito dell’economia e della distribuzione delle ricchezze.
Il divario tra le due teorie si verifica sia su micro- sia su macro-scala: dall’azienda per la distribuzione degli stipendi e dallo Stato per la distribuzione delle risorse interne fino alle strutture sovranazionali per la redistribuzione delle ricchezze ai vari Stati.
Oggi più che mai, vista la situazione di crisi economica che ha colpito, in maniera più o meno massiccia, tutto il globo, l’opposizione tra rawlsiani e nozickiani si mostra evidente in uno dei punti nevralgici dell’odierno dibattito politico: l’immigrazione. Da un lato coloro che sostengono sia dovere degli Stati aiutare i migranti provenienti da Paesi poveri; dall’altro lato coloro che, invece, difendono il diritto dei singoli Stati di tutelare i propri membri da questa sorta di “invasione” e, quindi, sostengono sia dovere degli Stati porre un limite ai flussi in entrata.
È interessante notare come i neo-rawlsiani che appoggiano i continui arrivi di migranti, anche clandestini, si appellino alla storia passata richiamandosi al colonialismo: in fondo se quei Paesi oggi sono ridotti alla fame e gli individui sono costretti ad emigrare per garantirsi una vita migliore, è anche colpa di chi per anni li ha sfruttati saccheggiandone le risorse. Rawls tuttavia rifiuta di fare appello alla storia passata, che ha prodotto una determinata distribuzione delle risorse: come ricordavamo, per lui non contava il “come” si sia giunti ad una data situazione economica, non conta né il “merito” né la “colpa”, ma solo il “qui e ora”. Cioè la redistribuzione più equa tra quelle possibili.
Si tratta di un punto sul quale i neo-rawlsiani, a nostro avviso, tradiscono la teoria a cui, tuttavia, si appellano, giustificando la loro pretesa di redistribuire le ricchezze a favore degli individui provenienti da paesi economicamente svantaggiati… sulla base della storia passata (in particolare, lo sfruttamento coloniale).
I nozickiani, dal canto loro, sottolineano quanto, in questo momento di crisi, sia dovere di ogni singolo Stato tutelare i propri cittadini tramite l’istituzione di un blocco alle immigrazioni: in questo modo sembrano dimenticare del tutto la storia passata, con tutti i meriti e le colpe annesse.
Il parere che si intende esprimere in questo breve scritto è che, al di là di ogni teoria e di ogni principio, per quanto virtuosi, ciò che più conta rimangono… i fatti: la storia passata e incancellabile, soprattutto quella coloniale, che tanto ha influito sugli squilibri nella distribuzione globale cui assistiamo oggi.
D’altro canto, non basta un appello al passato, più o meno circostanziato, per risolvere i problemi presenti: occorre una teoria che sappia prendere atto della situazione e proporre soluzioni efficaci e attuabili.
Su microscala un esempio lampante è legato alla produttività aziendale: quando bisogna fare tagli all’interno di un’azienda è necessario tagliare i soggetti meno produttivi e non si può guardare alla “storia lavorativa” degli stessi. Non è importante da quanto tempo un dipendente si trovi in azienda: è importante stabilire chi, in quel preciso momento, produca di più e sia più utile al fatturato aziendale. Altrimenti si rischia di premiare passate eccellenze a scapito di presenti inefficienze (e di premiare magari chi si adagi sugli allori, penalizzando al contrario chi – magari proprio in virtù di inefficienze passate – si stia dando da fare per migliorare).
Su macroscala continuare a fare ricorso alla storia del colonialismo e dei passati sfruttamenti è alquanto inutile al fine di risolvere la crisi economica presente: uno Stato non può rinunciare alla propria sicurezza sociale (né a un dignitoso stile di vita per i suoi cittadini, che da quella sicurezza consegue), a causa (o addirittura “in nome”) delle colpe del passato. Per quanto sia impossibile fare tabula rasa di ciò che è stato in passato, le soluzioni devono essere funzionali al presente: cambiano infatti le problematiche, le congiunture economiche e gli individui che si trovano a viverle. Una politica per questa epoca non può permettersi il lusso di essere “giusta a tutti i costi”: una politica all’altezza di questo nome deve anche saper essere efficace.
*Samanta Airoldi è nata a Genova e vive a Milano. Ha conseguito la Laurea specialistica nel in Filosofia con una tesi su Jurgen Habermas e successivamente il Dottorato di Ricerca nel 2012, entrambi presso l’Università degli Studi di Genova. Tra le sue pubblicazioni: Pillole di Filofollesofia, Silele, Bergamo 2014; Universalismo e Pluralismo in dialogo, Kindle Amazon, 2014; “La necessità del concetto di Verità in morale”, in A. Pirni (a cura di), Verità del potere, potere della verità, ETS, 2012; “Morale cognitivistica: saggezza o regole?” in A. Pirni (a cura di), Globalizzazione, saggezza, regole, ETS 2011.
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12 luglio 2015 alle 12:40
Il colonialismo non si limita al fenomeno un pò vintage dei possedimenti europei in Africa, Asia o America Latina, ma è ancora vivo, di fatto, nella forma più subdola di colonialismo economico. L’Africa, in particolare, è, suo malgrado, il “laboratorio” di tutte le guerre più sanguinose legate allo sfruttamento delle materie prime. In questo senso esiste una certa continuità tra il colonialismo degli Stati coloniali e quel fenomeno di sfruttamento economico che esiste oggi. I fenomeni emigratori sono pertanto legati agli effetti dei conflitti per il possesso delle risorse, dunque la conseguenza di questo colonialismo economico e non di altro. Il liberista economico deve sapere che la sua proprietà è minacciata dall’invasione di orde che si spingono al di la delle proprie terre, non per ingordigia, ma per le conseguenze di distruzioni e devastazioni che proprio il sistema su cui il liberista ripone fiducia ha comportato. Appare ingenuo, ancorchè inefficace (ma la cosa è sotto gli occhi di tutti), arroccarsi dietro un recinto per difendere la proprietà senza risolvere il problema alla radice, anche rimettendo in discussione un sistema consolidato come quello capitalistico. Non è riuscita una muraglia lunga 6 mila km ad arrestare l’orda degli invasori mongoli, figuriamoci se ci riusciranno un drappello di stati litigiosi ad arrestare milioni di disperati che reclamano il sacrosanto diritto ad una vita dignitosa.